Genitorialità tentata tra idealizzazione e fallimento

GENITORIALITA’ TENTATA TRA IDEALIZZAZIONE E FALLIMENTO

Il tema della genitorialità ha stimolato riflessioni utili per comprendere come tale funzione si organizza dialogando con risorse e significati sia individuali che relazionali; le ipotesi prodotte hanno illuminato un argomento che appare sempre più interessante ed articolato su più versanti.

Tra questi vi è anche quello che vede un  ruolo genitoriale non  esercitato, mancante o difettoso, pur in presenza della possibile generatività biologica.

Laddove la funzione genitoriale è completamente proibita, abbiamo situazioni chiare, nelle quali opera una censura  esplicita. Nei casi in cui l’istituzione  per la tutela del minore verifica nel genitore un divario troppo grande tra le sue capacità a farlo e il suo bisogno ad esserlo, il divieto viene dall’esterno, cioè dalla regola sociale. La proibizione che porta ad escludere il ruolo può nascere anche da altre motivazioni, che la persona legge sia nel privato proprio o della coppia, o attribuisce a condizioni esterne sfavorevoli (aspetti negativi del modo di vivere e della società attuale e del previsto futuro); la decisione conseguente, pur a volte lontana dalla consapevolezza di altri bisogni sottostanti, é comunque sostenuta dalla coerenza tra premessa dichiarata e comportamento.

Quando tale coerenza non è presente, la complessità del tema sollecita la nostra attenzione portandola verso interessanti considerazioni cliniche, quelle del ruolo difettoso, che esamineremo qui.

Parleremo di genitori che cominciano ad esserlo senza concludere il percorso iniziato: smettono di fare i genitori o non lo diventano completamente. Nelle ipotesi esposte osserveremo i tratti di alcuni genitori che accedono al ruolo solo parzialmente, facendo convivere sia le mosse per entrarvi che quelle per restarne fuori, o quelli di futuri genitori che avviano  un processo che a distanze diverse loro stessi fermeranno prima di giungere al traguardo.

Ovviamente, diventare genitore molto spesso può fare emergere in chi lo sceglie dubbi e domande, riattivare conflitti intrapsichici, relazionali e sistemici, fare ridefinire relazioni, ma non per questo condurre a quelle esperienze così particolari da  imporsi alla nostra riflessione. Qui la conflittualità inconsapevole tra due istanze - la paura di entrare nel ruolo e il bisogno di sperimentarlo - entrambe presenti nel genitore, se pure in forme oscure, conduce ad una proibizione, anche questa interna, ma che assume una tipica caratteristica: l’esistenza di un figlio e la contemporanea mancanza di genitorialità, due elementi incompatibili. Per chiarezza, intendiamo qui con genitorialità non solo avere un figlio, ma una dimensione di competenza, vale a dire la capacità di occuparsi, preoccuparsi del suo benessere, di identificarsi con lui, di “vederlo” empaticamente, pur mantenendo la consapevolezza di sé e  tenendolo  distinto da sé. In sintesi: la capacità di  tenere dentro, prima, per poi lasciare andare. (8)

Esemplificheremo questa ipotesi portando storie diverse: di interruzione volontaria di gravidanza, di rinuncia al riconoscimento del figlio, di alcuni tipi di adozione. Avvicinare concettualmente tali eventi, apparentemente molto diversi tra loro, potrebbe essere provocatorio o addirittura offensivo, se pensiamo al significato comunemente attribuito dalla cultura alla scelta di adottare, nonché alla distanza incolmabile dalla quale il genitore adottivo si raffigura rispetto a chi non riconosce il figlio o decide di abortire. L’accostamento invece non è solo un artificio teorico utile alla comprensione delle contraddizioni in gioco, ma serve ancor più a chiarire come la conflittualità inelaborata che accomuna queste storie prende forma reale nella vita della stessa persona.

Dal vertice privilegiato della consultazione istituzionale dei colloqui previsti nell’iter adottivo, che hanno il loro fuoco sulla genitorialità, abbiamo potuto vedere inizi di alcuni progetti genitoriali non evolvere verso una vera competenza contenitiva. Il bambino arrivato non è diventato figlio di quella famiglia perché i suoi bisogni di riconoscimento non hanno trovato posto nei pensieri dei propri genitori.

ADOZIONE E INTERRUZIONE VOLONTARIA DI GRAVIDANZA

Giulia e Roberto, sposati da circa tre anni, presentano domanda di adozione.

A Roberto è stata da poco riscontrata un’oligospermia; per questo i coniugi hanno intrapreso un ciclo di cure contro la sterilità, che hanno presto interrotto, prima della scadenza proposta loro dai sanitari. Non vivono come tale il responso di infertilità, dal momento che, come dicono, la diagnosi in questo senso non è definitiva. Sembrano così avere accettato con serenità la difficoltà di procreare naturalmente e non mostrano dolore, ritenendolo ingiustificato, in quanto prematuro. Entrambi dicono di non escludere che in un futuro prossimo il figlio biologico arriverà.

La loro pratica arriva allo stesso consultorio familiare dove in passato Giulia, sempre fidanzata con Roberto, aveva chiesto di interrompere tre  gravidanze nell’arco di cinque anni. In quella fase aveva raccontato dei continui conflitti tra i propri genitori, sposatisi adolescenti perché la madre era incinta di lei: il padre spesso assente, preso dai propri progetti di realizzazione, la madre preoccupata all’idea di vedersi invecchiare e all’inseguimento di continue diete.

Gli operatori, immaginando il disagio di Giulia, chiariscono la loro diversa posizione di ora, ricevendo da lei la conferma che l’argomento di oggi è un altro, e quel periodo della sua vita è ora superato. Trovano in lei un certo distacco dagli eventi precedenti e il desiderio, anche verbalizzato, di voler cancellare il passato.

I coniugi dicono che concentrarsi sull’adozione è per loro un modo diverso per divenire genitori. Giulia appare attiva ed entusiasta,  mentre esprime con convinzione il desiderio di diventare mamma attraverso questa strada. Sente che sta compiendo un bel gesto, inorgoglita dal commento della propria madre che, alla notizia della loro decisione  di adottare, l’ha elogiata per il coraggio che hanno  mostrato,  definendolo “non da tutti”.

La velocità con la quale questa coppia sceglie di presentare domanda e l’assenza di evidenti sentimenti di delusione fanno pensare che per diventare genitori preferisca un figlio adottivo ad uno generato.

Entrambi ritengono di avere avuto un’infanzia serena e la presenza di genitori affettuosi; invitati ad illustrare le loro affermazioni con il racconto di episodi, evidenziano però una discrepanza tra memoria semantica ed episodica. Parlano della protezione e accudimento genitoriale senza accompagnarle con contenuti, ma in modo enfatizzato e generico, più idealizzandoli nei loro desideri filiali che vissuti come reali esperienze. Roberto ricorda con vivezza immagini di solidarietà tra  fratelli, e non ne riesce a produrre di diverse oltre a quelle di un sostegno tra pari. Giulia, entusiasta del rapporto privilegiato con la madre dalla quale pochi anni la dividevano, racconta dell’intimità con lei, che spesso le confidava le pene d’amore procuratele dal marito o da altri uomini.

Viene quindi chiesto loro di immaginarsi nel ruolo di genitori adottivi, collocandosi nella nuova relazione genitoriale progettata; per farlo dovranno pensare una fiaba da raccontare al  figlio che contenga le tappe della loro storia insieme. Questo è il loro racconto.

In un bosco pieno di alberi, uno si distingue per la sua magnificenza e grandezza. I suoi abitanti sono gufi, civette, scoiattoli e tanti uccellini che cantano e animano la vita della quercia. Gli abitanti dell’albero a tratti sono intimoriti dall’arrivo di un grosso gatto cattivo, che mangia chiunque, distratto, cade nelle sue grinfie.

Un giorno una coppia di passerotti, che passavano per caso nei paraggi della quercia, sente un pigolio sempre più insistente arrivare da un ramo del grande albero. Avvicinandosi i passerotti vedono un piccolo uccellino solo nel nido e gli chiedono cosa sia successo; lui non lo sa, ma è rimasto solo. La passerotta chiede al piccolo se ci sia un posto anche per loro due nel nido, per stare tutti insieme con amore e affetto. 

La storia, che si apre con una grandiosa immagine ad effetto, si snoda poi tra casualità ed aggressività, rispecchiando la loro esperienza di figli,  intempestivamente adultizzati. Mentre racconta la fiaba che hanno pensato, Giulia esprime intense emozioni, quasi incontrollate, nei passaggi che toccano i temi del divoramento e della solitudine. Pur trattandosi di una domanda di adozione della quale si dicono convinti ed entusiasti, i coniugi parlano di un bambino non pensato, non nutrito dal desiderio degli adulti di averlo. Non riescono a figurarsi l’abbandono del piccolo, motore di tutte le vicende adottive; tuttavia in loro riemergono le emozioni suscitate da tale evento, tanto che immaginano divorati i genitori biologici trascuranti. Nella descrizione del piccolo che accoglie i futuri genitori (che la coppia non nomina come tali) manca la protezione come compito che dovrebbe spettare alla generazione precedente.

Il figlio adottivo non è da loro desiderato come tale, ma è un ulteriore tentativo, dopo i tre già fatti, di provare a diventare  genitori: diversi segnali fanno infatti pensare che sarà prevedibilmente difettosa la funzione genitoriale nella quale si progettano questi figli rimasti inconsapevoli del dolore che il mancato contenimento genitoriale ha procurato loro, e che ora rendono riconoscibile una riedizione dell’originario fallimento/distorsione nelle relazioni primarie.

Per comprendere questa ipotesi dobbiamo anche tenere presente, come è inevitabile in base all’esperienza, che l’interruzione volontaria di gravidanza è l’espressione di una maternità disturbata, e non il risultato di un incidente cognitivo nell’uso dei contraccettivi o di una sessualità esuberante e irresponsabile. La scelta di avviare una gravidanza non desiderata segnala faticose e dolorose storie filiali: non si spiegherebbe altrimenti un attacco così distruttivo al corpo femminile e alla  creatività che in quel momento rappresenta (6).

ADOZIONE E NON RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO

Sabrina e Marco, sposati da quattordici, presentano domanda di adozione.

Per molti anni Sabrina non aveva desiderato figli, raccogliendo il tacito assenso del marito; solo da poco si era decisa ad averne, ma dopo diversi tentativi infruttuosi la diagnosi è stata senza possibilità: un’azoospermia. Nello spazio di meno di un mese hanno preparato i documenti ed hanno presentato la domanda di adozione.

Durante i colloqui Marco si presenta con un umore sottotono ed un’espressione impacciata, che ostacola la relazione. Racconta le continue e faticose cure per una malattia cronica che l’ha accompagnato per tutta l’infanzia e la volontà che ha sempre messo negli studi, alimentata dalle elevate richieste del padre. Ritiene fondamentale la cultura in generale e in particolare la conoscenza delle lingue, che gli ha permesso di emergere poi nel mondo del lavoro. Proprio su questo argomento ricorda che il padre lo mandò da solo, all’inizio dell’adolescenza, a vivere in Francia presso conoscenti, perché imparasse la lingua e si mantenesse il soggiorno con un lavoro. Durante tutto il racconto della propria storia piange e balbetta, per poi negare che le proprie relazioni familiari l’abbiano fatto soffrire.

Sabrina si presenta disinvolta, assertiva e intellettualmente vivace. Prima di numerosi fratelli e sorelle, racconta che il suo rapporto con la madre iniziò quando era ormai adolescente. Tornò infatti in casa a tredici anni, dopo che era morta la nonna alla quale era stata affidata perché la madre, lavorando, non aveva il tempo per occuparsi dei figli. Osserva che la sua fu “una specie di adozione”, attribuendosi una esperienza in più da mettere al servizio della scelta attuale e senza accompagnare il racconto con emozioni o sofferenza, anche quando dice che la madre era ed è rimasta per lei  una figura fredda e distante.

Sabrina non esprime dolore per l’infertilità, grazie anche alla sua concettualizzazione del problema: è il marito che non riesce ad avere figli. Marco, dal canto suo, ritiene uno spreco di tempo attardarsi sulla riflessione intorno a questa perdita: il modo migliore è non farne un dramma, ma attivarsi in nuovi progetti.

Diventare genitore appare per Sabrina un bisogno ora non più differibile. Si è già impegnata a conoscere dettagliatamente l’argomento dell’adozione, sul quale appare ben preparata cognitivamente, mentre espone con chiarezza ed appropriatezza i vari temi dell’esperienza che intendono intraprendere. Per entrambi gli eventi della vita sono stati una sfida continua, da vincere impegnando forza, tenacia, doti intellettuali e conoscenze culturali. Marco teorizza questo approccio dicendo che gli interessi, intendendo quelli culturali, allontanano dai propri problemi; è certo che lo stesso accadrà anche al figlio adottivo, che facendo nuove conoscenze si distoglierà dal dolore della propria storia di abbandono.

Coerentemente con questa visione, davanti alla risposta del servizio, si attivano su molti fronti per contrastarne la valutazione negativa. Sabrina concede con benevolenza agli operatori la possibilità di modificare la loro relazione da inviare al Tribunale per i Minorenni, che senza dubbio contiene un grave errore sulle loro capacità; poi protesta con il responsabile di servizio. Sempre negando la propria inadeguatezza come genitori adottivi, grazie all’idoneità rilasciata dalla  Corte d’Appello adottano non un bambino, ma due sorelle, di cinque e sette anni. Si attivano poi all’interno dell’associazione  che li ha affiancati nelle pratiche adottive, dove Sabrina diventa un’esperta che tiene conferenze su come vanno allevati i figli. Così utilizzano anche i bambini per confermare il proprio valore, già esibito attraverso l’affermazione professionale e il livello sociale raggiunti, seppure da loro sovrastimati.

Il bisogno di ignorare i limiti naufraga però in un fallimento doloroso.

Pochi giorni dopo l’arrivo delle bambine, Marco manifesta improvvisamente i sintomi di una gravissima malattia. La relazione di coppia, instauratasi su una base narcisistica e idealizzata, volta a compensare gli aspetti depressivi e di vuoto interiore di entrambi, non riesce a contenere le angosce suscitate da una nuova e inaspettata realtà: le difficoltà che porta con sé esplodono (1). La battaglia, ora sprovvista di nemici esterni, porta all’esacerbazione il conflitto coniugale, fino a quel momento coperto dai bisogni collusivi dei coniugi. Nel giro di tre anni arriva l’insanabile separazione ed il tracollo finanziario di Marco. 

In questa seconda fase, il servizio per l’età evolutiva che interviene raccoglie elementi nuovi e sorprendenti, ma compatibili con la storia della coppia, se guardati dal punto di vista della genitorialità.

Marco racconta che durante i colloqui per l’idoneità all’adozione Sabrina aveva tenuto nascoste molte notizie importanti del proprio passato. In realtà è una figlia non riconosciuta dal padre, da lei mai incontrato, e ha avuto il cognome dall’uomo che la madre sposò quando Sabrina aveva appunto tredici anni. Tra le sorelle ci sono due gravi tossicodipendenti, delle quali una è recentemente morta di AIDS. All’età di diciassette anni Sabrina è stata allontanata da casa e mandata da una lontana zia perché non si sapesse che era in gravidanza; lasciò poi il figlio che nacque.

Dal canto suo Sabrina si sente tradita profondamente dal marito: è convinta che lui sapesse già da tempo della malattia, ma che glielo abbia nascosto, esponendola tra l‘altro al rischio di contagio.

Raccontando la loro storia, le bambine rivivono le importanti carenze dell’accudimento primario sperimentato, e comunicano le aspettative, deluse, delle quali hanno caricato la vicenda adottiva; l’esperienza da loro già vissuta con i genitori biologici si è perpetrata nel rapporto con i genitori adottivi. A questo proposito la sorella maggiore, dice chiaramente che la madre adottiva “è la mamma di prima con su la maschera”.

Entrambe descrivono – con contenuti adeguati alle rispettive età anagrafiche – il fallimento della coppia genitoriale adottiva nei compiti di protezione, di contenimento emotivo, di attaccamento affettivo, che non le ha messe in grado di sviluppare la “fiduciosa aspettativa” che permette di fare fronte alle frustrazioni  (13,15).

Questo fallimento ha impedito loro un attaccamento filiale ed ha minato irreversibilmente la formazione dell’identità e il senso di sicurezza  di Sé ( 2,3).

La piccola, non in grado di disegnare una famiglia né sé stessa, punta su uno pseudo – adattamento e una precoce autonomizzazione, come uniche possibilità di risposta ai propri bisogni non accolti dagli adulti;  la maggiore, invischiata in pesanti conflitti di lealtà, oscilla tra il rifiuto relazionale e disconoscimento della genitorialità  da una parte e reazioni riparatorie, compensative, accudenti  dall’altra in uno stravolgimento del ruolo dove  è lei che si prende cura dell’adulto debole e solo, e, facendo da genitore al proprio genitore, fa da genitore anche a sé stessa. Tuttavia, nella relazione terapeutica esprime tutto il suo bisogno di contenimento, mandando alla terapeuta frequenti richieste di cura e assunzione del ruolo parentale.

Entrambe, prese tra ostilità e richieste simbiotiche, manifestano disturbi della condotta e inibizioni dell’apprendimento; per loro si pensa ad un percorso psicoterapico a lungo termine, e non si esclude la possibilità di un inserimento in comunità, dove possano vivere lontane da genitori così poco competenti.

CONSIDERAZIONI

Anche le coppie che generano figli a volte vivono e agiscono ambivalenze distruttive legate al bisogno di fare il genitore. Abbiamo però scelto di parlare qui di quelle adottive perché, incontrandole proprio nel momento in cui danno forma alla propria decisione di diventare genitore, ci danno informazioni particolarmente significative; durante i colloqui istituzionali, condensati nel tempo ma appositamente dedicati all’esplorazione dei loro desideri, accediamo ad una posizione adatta a scoprire anche quella parte della motivazione alla scelta genitoriale da loro non esplicitata fatta di bisogni, idealizzazioni, difese, agiti, contraddizioni.

Osservando le famiglie portate in questo lavoro, abbiamo assistito alla tragedia della loro genitorialità. Non hanno completato un progetto, pur perseguito con una precisa e tenace volontà, anzi lo hanno fatto fallire attraverso più tentativi, giungendo a conclusioni apparentemente molto diverse tra loro, ma tutte tenute insieme dal filo della idealizzazione. (5).

Alcune coppie scelgono progetti genitoriali, sia biologici che adottivi, che contengono un segnale del potenziale rischio del loro fallimento: il bisogno di sperimentare la genitorialità tanto intenso da sovrastare la loro capacità a cogliere i limiti delle proprie competenze.

Sono coppie che continuano a vivere importanti conflitti, e ne richiamano ancora una volta la natura agita già tempo addietro. Inscrivendo nella continuità dell’attacco al ruolo genitoriale anche il distanziamento dal bambino al quale negano lo status di figlio, lo usano come proiettile. Lo incaricano di portare un messaggio relazionale alla generazione precedente, con la quale hanno ancora un conto sospeso, e che mettono così di fronte ad un fallimento al quale assiste tutto il contesto sociale. Nella genitorialità tentata troviamo un attentato alla genitorialità, dove la sofferenza nella propria genealogia conduce all’esilio dalla propria genealogia.

Queste persone non riescono ad accedere al futuro insito nella genitorialità completa poiché conservano i loro bisogni filiali inappagati con la stessa intensità emotiva di allora, attualizzati in un presente in cui non si permettono l’elaborazione del trauma, e in cui sono spinti ad agire secondo i dettami della coazione a ripetere.

Stiamo parlando qui di coniugi che sono stati figli con genitori inadeguati e non hanno avuto posto come figli nei loro pensieri e che, scarsamente o per nulla consapevoli della problematicità della propria storia di figlio, se ne difendono negandone i significati emotivi. Non avendo elaborato le manchevolezze di capacità dei propri genitori, si precludono  la possibilità di prendere atto della sofferenza che il disaccudimento (minaccia, rifiuto, trascuratezza, ostilità, maltrattamento, parentificazione) ha provocato e tuttora provoca loro. Continuando a mantenere il bisogno di idealizzare le proprie figure genitoriali o più in generale il ruolo, affidano a questo i compiti più disparati: ottenere una sorta di rinascita indiretta tramite i propri figli (una seconda chance nella vita), capovolgere i ruoli sperimentati con i propri genitori, sfidare, sorpassare o fallire il loro modo di essere stati. Ma poiché utilizzano nei loro attacchi relazionali le modalità apprese che hanno a disposizione e ritrovano nelle rappresentazioni interne la natura della relazione con la propria madre e il proprio padre, vivono un processo di identificazione disturbato dalla paura di essere uguali a loro e contemporaneamente dal bisogno di essere al loro opposto. (11)

Distorgono o interrompono a distanze diverse il naturale processo di crescita del figlio: la loro inadeguatezza accuditiva ne ostacola seriamente il sereno sviluppo psichico, arrivando fino alla distruttività e rifiuto palesi dell’aborto volontario e dell’ abbandono alla nascita.

I mancati genitori argomentano la volontà di abortire o di non riconoscere il figlio utilizzando svariate motivazioni ( età inadeguata, solitudine, insufficienti risorse materiali, conflitto con il partner), facilmente leggibili quando palesi, ma proprio per questo più palesemente difensive. Raramente invece lasciano emergere e riconoscere spine emotive oscuramente affondate nella propria storia filiale e intrecciate con le vicende individuali e relazionali più emozionalmente significative (4).

Allo stesso modo, le coppie a rischio di fallimento evolutivo sostengono il progetto di genitorialità adottivo con altri molteplici significati, sottostanti alle aspettative consapevoli. Accanto alle motivazioni espresse, stimate dal pensare comune, fanno convivere altre spinte inconsapevoli e conflittuali, che possono diventare pericolose (5). Nelle due storie raccontate abbiamo visto che, perseguendo il progetto adottivo, quelle coppie si difendevano non tanto dalla constatazione della sterilità, come pur spesso accade in molti altri casi, bensì dal confronto con il ruolo genitoriale. Non hanno neppure avuto bisogno di negare il dolore per la perdita della fertilità, perché non lo vivevano: piuttosto che sperimentarsi nella generatività hanno realmente preferito l’adozione, che intuivano più funzionale ai loro bisogni di affermazione narcisistica.

L’adozione è a rischio di fallimento quando è sentita dalle coppie come strumento che nutre con il rispecchiamento sociale la loro fame di ammirazione, in quanto li colloca ad un livello moralmente più meritevole rispetto ai propri genitori (“sarò migliore di lui/lei”). L’enfasi che queste coppie esprimono nell’esaltare il valore della propria scelta è un segnale di pericolo, perché ci parla dell’idealizzazione e del narcisismo dai quali origina (9,10). I protagonisti, garantiti dall’evitare la piena identificazione con il proprio genitore (“sarò certamente diverso da lui/lei”), non riescono poi a sostenere un progetto di genitorialità, che sopravvalutano in relazione alle proprie risorse e sottovalutano rispetto alla realtà.

Alla presenza del figlio più spesso affidano compiti compensatori, rivendicativi, idealizzati o riparativi, come può essere una seconda possibilità di accudire la propria parte di sé trascurata da bambino.

Più contenitore di proiezioni che investito di un autentico desiderio, il figlio scompare nella sua identità individuale e non può esprimere la specificità del proprio potenziale evolutivo. (7,12,14). Non entra completamente nel ruolo che dovrebbe attenderlo, dal momento che non riceve la normale spinta ad appartenere alla famiglia ed il mandato fisiologico di essere ponte vitale tra le generazioni. Spezzano la catena generazionale non solo i bambini abortiti o quelli non riconosciuti, ma anche i figli adottivi espulsi dalla famiglia, rinnegati come figli e “riconsegnati” all’istituzione  (fenomeno che interessa sempre più spesso gli adolescenti adottati).

Grazie ad una casualità dovuta al concatenarsi di alcune singolari coincidenze che hanno coinvolto protagonisti e servizi, nelle coppie portate ad esempio emergono con sorprendente evidenza gli elementi a conferma dell’ipotesi di una genitorialità difettosa che forgia l’adozione come arma difensiva. Pur intuendo a volte segnali di pericolo, raramente vediamo un quadro così chiaro, poiché nella fase di valutazione le coppie maggiormente a rischio tengono accuratamente celati gli eventi più drammatici della loro vita. Dobbiamo comunque sempre ipotizzare, in quanto tutt’altro che infrequente, la mossa inconsapevolmente agita di distanziamento dalla propria generazione come una tra le possibili motivazioni all’adozione.

Pur in presenza di sofferenze filiali vissute in una famiglia poco dotata di capacità genitoriali, la genitorialità sia biologica che adottiva può però anche esprimere competenze sufficienti a sostenere il processo evolutivo del figlio. Quando l’adulto futuro genitore arriva a disporre, dentro ad una dimensione di consapevolezza di sé, della capacità di identificarsi con il figlio e di tollerare le frustrazioni, possiamo sperare che nella generazione successiva non vi sia una riedizione delle tragedie passate.

Adele é una giovane donna dolce e comunicativa, legata da un rapporto intenso e fiducioso con il marito Giorgio. Prima di cinque figli, si è occupata dei fratelli quasi come farebbe un genitore. E’ cresciuta in una famiglia dove la madre aspettava i sempre più brevi rientri a casa del padre, che, dopo averla resa gravida, ogni volta riprendeva la sua esistenza di vagabondo, fino a scomparire definitivamente dalla vita della famiglia. Adele sa che questa vicenda l’ha fatta soffrire, non solo per le assenze del padre, ma forse ancor di più per l’accondiscendenza della madre verso di lui. Da qualche anno ha capito che questa, malgrado dichiarasse il contrario, preferì sempre il marito a loro figlie, lasciandole poco protette, chiamate a condividere le sue speranze e ansie, tra queste quelle molto concrete delle difficoltà economiche della famiglia.

Ora Adele e Giorgio hanno presentato domanda di adozione. Hanno abbandonato il progetto sanitario subito dopo il primo tentativo di fecondazione assistita: Adele dice che l’ha fatto per non trascurare una possibilità, ma di essere contenta che la gravidanza non sia iniziata, perché così può dedicarsi completamente all’adozione, come desidera.

Messa davanti all’ipotesi che in questo modo cominci ad avvicinarsi al ruolo genitoriale senza rischiare di diventare come la propria madre, diventa pensierosa e poi sorride: dice che è possibile che sia così, e poi accetta facilmente la proposta di colloqui di approfondimento sulla sua scelta di adottare.

GENITORIALITA’ TENTATA TRA IDEALIZZAZIONE E FALLIMENTO

Il tema della genitorialità ha stimolato riflessioni utili per comprendere come tale funzione si organizza dialogando con risorse e significati sia individuali che relazionali; le ipotesi prodotte hanno illuminato un argomento che appare sempre più interessante ed articolato su più versanti.

Tra questi vi è anche quello che vede un  ruolo genitoriale non  esercitato, mancante o difettoso, pur in presenza della possibile generatività biologica.

Laddove la funzione genitoriale è completamente proibita, abbiamo situazioni chiare, nelle quali opera una censura  esplicita. Nei casi in cui l’istituzione  per la tutela del minore verifica nel genitore un divario troppo grande tra le sue capacità a farlo e il suo bisogno ad esserlo, il divieto viene dall’esterno, cioè dalla regola sociale. La proibizione che porta ad escludere il ruolo può nascere anche da altre motivazioni, che la persona legge sia nel privato proprio o della coppia, o attribuisce a condizioni esterne sfavorevoli (aspetti negativi del modo di vivere e della società attuale e del previsto futuro); la decisione conseguente, pur a volte lontana dalla consapevolezza di altri bisogni sottostanti, é comunque sostenuta dalla coerenza tra premessa dichiarata e comportamento.

Quando tale coerenza non è presente, la complessità del tema sollecita la nostra attenzione portandola verso interessanti considerazioni cliniche, quelle del ruolo difettoso, che esamineremo qui.

Parleremo di genitori che cominciano ad esserlo senza concludere il percorso iniziato: smettono di fare i genitori o non lo diventano completamente. Nelle ipotesi esposte osserveremo i tratti di alcuni genitori che accedono al ruolo solo parzialmente, facendo convivere sia le mosse per entrarvi che quelle per restarne fuori, o quelli di futuri genitori che avviano  un processo che a distanze diverse loro stessi fermeranno prima di giungere al traguardo.

Ovviamente, diventare genitore molto spesso può fare emergere in chi lo sceglie dubbi e domande, riattivare conflitti intrapsichici, relazionali e sistemici, fare ridefinire relazioni, ma non per questo condurre a quelle esperienze così particolari da  imporsi alla nostra riflessione. Qui la conflittualità inconsapevole tra due istanze - la paura di entrare nel ruolo e il bisogno di sperimentarlo - entrambe presenti nel genitore, se pure in forme oscure, conduce ad una proibizione, anche questa interna, ma che assume una tipica caratteristica: l’esistenza di un figlio e la contemporanea mancanza di genitorialità, due elementi incompatibili. Per chiarezza, intendiamo qui con genitorialità non solo avere un figlio, ma una dimensione di competenza, vale a dire la capacità di occuparsi, preoccuparsi del suo benessere, di identificarsi con lui, di “vederlo” empaticamente, pur mantenendo la consapevolezza di sé e  tenendolo  distinto da sé. In sintesi: la capacità di  tenere dentro, prima, per poi lasciare andare. (8)

Esemplificheremo questa ipotesi portando storie diverse: di interruzione volontaria di gravidanza, di rinuncia al riconoscimento del figlio, di alcuni tipi di adozione. Avvicinare concettualmente tali eventi, apparentemente molto diversi tra loro, potrebbe essere provocatorio o addirittura offensivo, se pensiamo al significato comunemente attribuito dalla cultura alla scelta di adottare, nonché alla distanza incolmabile dalla quale il genitore adottivo si raffigura rispetto a chi non riconosce il figlio o decide di abortire. L’accostamento invece non è solo un artificio teorico utile alla comprensione delle contraddizioni in gioco, ma serve ancor più a chiarire come la conflittualità inelaborata che accomuna queste storie prende forma reale nella vita della stessa persona.

Dal vertice privilegiato della consultazione istituzionale dei colloqui previsti nell’iter adottivo, che hanno il loro fuoco sulla genitorialità, abbiamo potuto vedere inizi di alcuni progetti genitoriali non evolvere verso una vera competenza contenitiva. Il bambino arrivato non è diventato figlio di quella famiglia perché i suoi bisogni di riconoscimento non hanno trovato posto nei pensieri dei propri genitori.

ADOZIONE E INTERRUZIONE VOLONTARIA DI GRAVIDANZA

Giulia e Roberto, sposati da circa tre anni, presentano domanda di adozione.

A Roberto è stata da poco riscontrata un’oligospermia; per questo i coniugi hanno intrapreso un ciclo di cure contro la sterilità, che hanno presto interrotto, prima della scadenza proposta loro dai sanitari. Non vivono come tale il responso di infertilità, dal momento che, come dicono, la diagnosi in questo senso non è definitiva. Sembrano così avere accettato con serenità la difficoltà di procreare naturalmente e non mostrano dolore, ritenendolo ingiustificato, in quanto prematuro. Entrambi dicono di non escludere che in un futuro prossimo il figlio biologico arriverà.

La loro pratica arriva allo stesso consultorio familiare dove in passato Giulia, sempre fidanzata con Roberto, aveva chiesto di interrompere tre  gravidanze nell’arco di cinque anni. In quella fase aveva raccontato dei continui conflitti tra i propri genitori, sposatisi adolescenti perché la madre era incinta di lei: il padre spesso assente, preso dai propri progetti di realizzazione, la madre preoccupata all’idea di vedersi invecchiare e all’inseguimento di continue diete.

Gli operatori, immaginando il disagio di Giulia, chiariscono la loro diversa posizione di ora, ricevendo da lei la conferma che l’argomento di oggi è un altro, e quel periodo della sua vita è ora superato. Trovano in lei un certo distacco dagli eventi precedenti e il desiderio, anche verbalizzato, di voler cancellare il passato.

I coniugi dicono che concentrarsi sull’adozione è per loro un modo diverso per divenire genitori. Giulia appare attiva ed entusiasta,  mentre esprime con convinzione il desiderio di diventare mamma attraverso questa strada. Sente che sta compiendo un bel gesto, inorgoglita dal commento della propria madre che, alla notizia della loro decisione  di adottare, l’ha elogiata per il coraggio che hanno  mostrato,  definendolo “non da tutti”.

La velocità con la quale questa coppia sceglie di presentare domanda e l’assenza di evidenti sentimenti di delusione fanno pensare che per diventare genitori preferisca un figlio adottivo ad uno generato.

Entrambi ritengono di avere avuto un’infanzia serena e la presenza di genitori affettuosi; invitati ad illustrare le loro affermazioni con il racconto di episodi, evidenziano però una discrepanza tra memoria semantica ed episodica. Parlano della protezione e accudimento genitoriale senza accompagnarle con contenuti, ma in modo enfatizzato e generico, più idealizzandoli nei loro desideri filiali che vissuti come reali esperienze. Roberto ricorda con vivezza immagini di solidarietà tra  fratelli, e non ne riesce a produrre di diverse oltre a quelle di un sostegno tra pari. Giulia, entusiasta del rapporto privilegiato con la madre dalla quale pochi anni la dividevano, racconta dell’intimità con lei, che spesso le confidava le pene d’amore procuratele dal marito o da altri uomini.

Viene quindi chiesto loro di immaginarsi nel ruolo di genitori adottivi, collocandosi nella nuova relazione genitoriale progettata; per farlo dovranno pensare una fiaba da raccontare al  figlio che contenga le tappe della loro storia insieme. Questo è il loro racconto.

In un bosco pieno di alberi, uno si distingue per la sua magnificenza e grandezza. I suoi abitanti sono gufi, civette, scoiattoli e tanti uccellini che cantano e animano la vita della quercia. Gli abitanti dell’albero a tratti sono intimoriti dall’arrivo di un grosso gatto cattivo, che mangia chiunque, distratto, cade nelle sue grinfie.

Un giorno una coppia di passerotti, che passavano per caso nei paraggi della quercia, sente un pigolio sempre più insistente arrivare da un ramo del grande albero. Avvicinandosi i passerotti vedono un piccolo uccellino solo nel nido e gli chiedono cosa sia successo; lui non lo sa, ma è rimasto solo. La passerotta chiede al piccolo se ci sia un posto anche per loro due nel nido, per stare tutti insieme con amore e affetto. 

La storia, che si apre con una grandiosa immagine ad effetto, si snoda poi tra casualità ed aggressività, rispecchiando la loro esperienza di figli,  intempestivamente adultizzati. Mentre racconta la fiaba che hanno pensato, Giulia esprime intense emozioni, quasi incontrollate, nei passaggi che toccano i temi del divoramento e della solitudine. Pur trattandosi di una domanda di adozione della quale si dicono convinti ed entusiasti, i coniugi parlano di un bambino non pensato, non nutrito dal desiderio degli adulti di averlo. Non riescono a figurarsi l’abbandono del piccolo, motore di tutte le vicende adottive; tuttavia in loro riemergono le emozioni suscitate da tale evento, tanto che immaginano divorati i genitori biologici trascuranti. Nella descrizione del piccolo che accoglie i futuri genitori (che la coppia non nomina come tali) manca la protezione come compito che dovrebbe spettare alla generazione precedente.

Il figlio adottivo non è da loro desiderato come tale, ma è un ulteriore tentativo, dopo i tre già fatti, di provare a diventare  genitori: diversi segnali fanno infatti pensare che sarà prevedibilmente difettosa la funzione genitoriale nella quale si progettano questi figli rimasti inconsapevoli del dolore che il mancato contenimento genitoriale ha procurato loro, e che ora rendono riconoscibile una riedizione dell’originario fallimento/distorsione nelle relazioni primarie.

Per comprendere questa ipotesi dobbiamo anche tenere presente, come è inevitabile in base all’esperienza, che l’interruzione volontaria di gravidanza è l’espressione di una maternità disturbata, e non il risultato di un incidente cognitivo nell’uso dei contraccettivi o di una sessualità esuberante e irresponsabile. La scelta di avviare una gravidanza non desiderata segnala faticose e dolorose storie filiali: non si spiegherebbe altrimenti un attacco così distruttivo al corpo femminile e alla  creatività che in quel momento rappresenta (6).

ADOZIONE E NON RICONOSCIMENTO DEL FIGLIO

Sabrina e Marco, sposati da quattordici, presentano domanda di adozione.

Per molti anni Sabrina non aveva desiderato figli, raccogliendo il tacito assenso del marito; solo da poco si era decisa ad averne, ma dopo diversi tentativi infruttuosi la diagnosi è stata senza possibilità: un’azoospermia. Nello spazio di meno di un mese hanno preparato i documenti ed hanno presentato la domanda di adozione.

Durante i colloqui Marco si presenta con un umore sottotono ed un’espressione impacciata, che ostacola la relazione. Racconta le continue e faticose cure per una malattia cronica che l’ha accompagnato per tutta l’infanzia e la volontà che ha sempre messo negli studi, alimentata dalle elevate richieste del padre. Ritiene fondamentale la cultura in generale e in particolare la conoscenza delle lingue, che gli ha permesso di emergere poi nel mondo del lavoro. Proprio su questo argomento ricorda che il padre lo mandò da solo, all’inizio dell’adolescenza, a vivere in Francia presso conoscenti, perché imparasse la lingua e si mantenesse il soggiorno con un lavoro. Durante tutto il racconto della propria storia piange e balbetta, per poi negare che le proprie relazioni familiari l’abbiano fatto soffrire.

Sabrina si presenta disinvolta, assertiva e intellettualmente vivace. Prima di numerosi fratelli e sorelle, racconta che il suo rapporto con la madre iniziò quando era ormai adolescente. Tornò infatti in casa a tredici anni, dopo che era morta la nonna alla quale era stata affidata perché la madre, lavorando, non aveva il tempo per occuparsi dei figli. Osserva che la sua fu “una specie di adozione”, attribuendosi una esperienza in più da mettere al servizio della scelta attuale e senza accompagnare il racconto con emozioni o sofferenza, anche quando dice che la madre era ed è rimasta per lei  una figura fredda e distante.

Sabrina non esprime dolore per l’infertilità, grazie anche alla sua concettualizzazione del problema: è il marito che non riesce ad avere figli. Marco, dal canto suo, ritiene uno spreco di tempo attardarsi sulla riflessione intorno a questa perdita: il modo migliore è non farne un dramma, ma attivarsi in nuovi progetti.

Diventare genitore appare per Sabrina un bisogno ora non più differibile. Si è già impegnata a conoscere dettagliatamente l’argomento dell’adozione, sul quale appare ben preparata cognitivamente, mentre espone con chiarezza ed appropriatezza i vari temi dell’esperienza che intendono intraprendere. Per entrambi gli eventi della vita sono stati una sfida continua, da vincere impegnando forza, tenacia, doti intellettuali e conoscenze culturali. Marco teorizza questo approccio dicendo che gli interessi, intendendo quelli culturali, allontanano dai propri problemi; è certo che lo stesso accadrà anche al figlio adottivo, che facendo nuove conoscenze si distoglierà dal dolore della propria storia di abbandono.

Coerentemente con questa visione, davanti alla risposta del servizio, si attivano su molti fronti per contrastarne la valutazione negativa. Sabrina concede con benevolenza agli operatori la possibilità di modificare la loro relazione da inviare al Tribunale per i Minorenni, che senza dubbio contiene un grave errore sulle loro capacità; poi protesta con il responsabile di servizio. Sempre negando la propria inadeguatezza come genitori adottivi, grazie all’idoneità rilasciata dalla  Corte d’Appello adottano non un bambino, ma due sorelle, di cinque e sette anni. Si attivano poi all’interno dell’associazione  che li ha affiancati nelle pratiche adottive, dove Sabrina diventa un’esperta che tiene conferenze su come vanno allevati i figli. Così utilizzano anche i bambini per confermare il proprio valore, già esibito attraverso l’affermazione professionale e il livello sociale raggiunti, seppure da loro sovrastimati.

Il bisogno di ignorare i limiti naufraga però in un fallimento doloroso.

Pochi giorni dopo l’arrivo delle bambine, Marco manifesta improvvisamente i sintomi di una gravissima malattia. La relazione di coppia, instauratasi su una base narcisistica e idealizzata, volta a compensare gli aspetti depressivi e di vuoto interiore di entrambi, non riesce a contenere le angosce suscitate da una nuova e inaspettata realtà: le difficoltà che porta con sé esplodono (1). La battaglia, ora sprovvista di nemici esterni, porta all’esacerbazione il conflitto coniugale, fino a quel momento coperto dai bisogni collusivi dei coniugi. Nel giro di tre anni arriva l’insanabile separazione ed il tracollo finanziario di Marco. 

In questa seconda fase, il servizio per l’età evolutiva che interviene raccoglie elementi nuovi e sorprendenti, ma compatibili con la storia della coppia, se guardati dal punto di vista della genitorialità.

Marco racconta che durante i colloqui per l’idoneità all’adozione Sabrina aveva tenuto nascoste molte notizie importanti del proprio passato. In realtà è una figlia non riconosciuta dal padre, da lei mai incontrato, e ha avuto il cognome dall’uomo che la madre sposò quando Sabrina aveva appunto tredici anni. Tra le sorelle ci sono due gravi tossicodipendenti, delle quali una è recentemente morta di AIDS. All’età di diciassette anni Sabrina è stata allontanata da casa e mandata da una lontana zia perché non si sapesse che era in gravidanza; lasciò poi il figlio che nacque.

Dal canto suo Sabrina si sente tradita profondamente dal marito: è convinta che lui sapesse già da tempo della malattia, ma che glielo abbia nascosto, esponendola tra l‘altro al rischio di contagio.

Raccontando la loro storia, le bambine rivivono le importanti carenze dell’accudimento primario sperimentato, e comunicano le aspettative, deluse, delle quali hanno caricato la vicenda adottiva; l’esperienza da loro già vissuta con i genitori biologici si è perpetrata nel rapporto con i genitori adottivi. A questo proposito la sorella maggiore, dice chiaramente che la madre adottiva “è la mamma di prima con su la maschera”.

Entrambe descrivono – con contenuti adeguati alle rispettive età anagrafiche – il fallimento della coppia genitoriale adottiva nei compiti di protezione, di contenimento emotivo, di attaccamento affettivo, che non le ha messe in grado di sviluppare la “fiduciosa aspettativa” che permette di fare fronte alle frustrazioni  (13,15).

Questo fallimento ha impedito loro un attaccamento filiale ed ha minato irreversibilmente la formazione dell’identità e il senso di sicurezza  di Sé ( 2,3).

La piccola, non in grado di disegnare una famiglia né sé stessa, punta su uno pseudo – adattamento e una precoce autonomizzazione, come uniche possibilità di risposta ai propri bisogni non accolti dagli adulti;  la maggiore, invischiata in pesanti conflitti di lealtà, oscilla tra il rifiuto relazionale e disconoscimento della genitorialità  da una parte e reazioni riparatorie, compensative, accudenti  dall’altra in uno stravolgimento del ruolo dove  è lei che si prende cura dell’adulto debole e solo, e, facendo da genitore al proprio genitore, fa da genitore anche a sé stessa. Tuttavia, nella relazione terapeutica esprime tutto il suo bisogno di contenimento, mandando alla terapeuta frequenti richieste di cura e assunzione del ruolo parentale.

Entrambe, prese tra ostilità e richieste simbiotiche, manifestano disturbi della condotta e inibizioni dell’apprendimento; per loro si pensa ad un percorso psicoterapico a lungo termine, e non si esclude la possibilità di un inserimento in comunità, dove possano vivere lontane da genitori così poco competenti.

CONSIDERAZIONI

Anche le coppie che generano figli a volte vivono e agiscono ambivalenze distruttive legate al bisogno di fare il genitore. Abbiamo però scelto di parlare qui di quelle adottive perché, incontrandole proprio nel momento in cui danno forma alla propria decisione di diventare genitore, ci danno informazioni particolarmente significative; durante i colloqui istituzionali, condensati nel tempo ma appositamente dedicati all’esplorazione dei loro desideri, accediamo ad una posizione adatta a scoprire anche quella parte della motivazione alla scelta genitoriale da loro non esplicitata fatta di bisogni, idealizzazioni, difese, agiti, contraddizioni.

Osservando le famiglie portate in questo lavoro, abbiamo assistito alla tragedia della loro genitorialità. Non hanno completato un progetto, pur perseguito con una precisa e tenace volontà, anzi lo hanno fatto fallire attraverso più tentativi, giungendo a conclusioni apparentemente molto diverse tra loro, ma tutte tenute insieme dal filo della idealizzazione. (5).

Alcune coppie scelgono progetti genitoriali, sia biologici che adottivi, che contengono un segnale del potenziale rischio del loro fallimento: il bisogno di sperimentare la genitorialità tanto intenso da sovrastare la loro capacità a cogliere i limiti delle proprie competenze.

Sono coppie che continuano a vivere importanti conflitti, e ne richiamano ancora una volta la natura agita già tempo addietro. Inscrivendo nella continuità dell’attacco al ruolo genitoriale anche il distanziamento dal bambino al quale negano lo status di figlio, lo usano come proiettile. Lo incaricano di portare un messaggio relazionale alla generazione precedente, con la quale hanno ancora un conto sospeso, e che mettono così di fronte ad un fallimento al quale assiste tutto il contesto sociale. Nella genitorialità tentata troviamo un attentato alla genitorialità, dove la sofferenza nella propria genealogia conduce all’esilio dalla propria genealogia.

Queste persone non riescono ad accedere al futuro insito nella genitorialità completa poiché conservano i loro bisogni filiali inappagati con la stessa intensità emotiva di allora, attualizzati in un presente in cui non si permettono l’elaborazione del trauma, e in cui sono spinti ad agire secondo i dettami della coazione a ripetere.

Stiamo parlando qui di coniugi che sono stati figli con genitori inadeguati e non hanno avuto posto come figli nei loro pensieri e che, scarsamente o per nulla consapevoli della problematicità della propria storia di figlio, se ne difendono negandone i significati emotivi. Non avendo elaborato le manchevolezze di capacità dei propri genitori, si precludono  la possibilità di prendere atto della sofferenza che il disaccudimento (minaccia, rifiuto, trascuratezza, ostilità, maltrattamento, parentificazione) ha provocato e tuttora provoca loro. Continuando a mantenere il bisogno di idealizzare le proprie figure genitoriali o più in generale il ruolo, affidano a questo i compiti più disparati: ottenere una sorta di rinascita indiretta tramite i propri figli (una seconda chance nella vita), capovolgere i ruoli sperimentati con i propri genitori, sfidare, sorpassare o fallire il loro modo di essere stati. Ma poiché utilizzano nei loro attacchi relazionali le modalità apprese che hanno a disposizione e ritrovano nelle rappresentazioni interne la natura della relazione con la propria madre e il proprio padre, vivono un processo di identificazione disturbato dalla paura di essere uguali a loro e contemporaneamente dal bisogno di essere al loro opposto. (11)

Distorgono o interrompono a distanze diverse il naturale processo di crescita del figlio: la loro inadeguatezza accuditiva ne ostacola seriamente il sereno sviluppo psichico, arrivando fino alla distruttività e rifiuto palesi dell’aborto volontario e dell’ abbandono alla nascita.

I mancati genitori argomentano la volontà di abortire o di non riconoscere il figlio utilizzando svariate motivazioni ( età inadeguata, solitudine, insufficienti risorse materiali, conflitto con il partner), facilmente leggibili quando palesi, ma proprio per questo più palesemente difensive. Raramente invece lasciano emergere e riconoscere spine emotive oscuramente affondate nella propria storia filiale e intrecciate con le vicende individuali e relazionali più emozionalmente significative (4).

Allo stesso modo, le coppie a rischio di fallimento evolutivo sostengono il progetto di genitorialità adottivo con altri molteplici significati, sottostanti alle aspettative consapevoli. Accanto alle motivazioni espresse, stimate dal pensare comune, fanno convivere altre spinte inconsapevoli e conflittuali, che possono diventare pericolose (5). Nelle due storie raccontate abbiamo visto che, perseguendo il progetto adottivo, quelle coppie si difendevano non tanto dalla constatazione della sterilità, come pur spesso accade in molti altri casi, bensì dal confronto con il ruolo genitoriale. Non hanno neppure avuto bisogno di negare il dolore per la perdita della fertilità, perché non lo vivevano: piuttosto che sperimentarsi nella generatività hanno realmente preferito l’adozione, che intuivano più funzionale ai loro bisogni di affermazione narcisistica.

L’adozione è a rischio di fallimento quando è sentita dalle coppie come strumento che nutre con il rispecchiamento sociale la loro fame di ammirazione, in quanto li colloca ad un livello moralmente più meritevole rispetto ai propri genitori (“sarò migliore di lui/lei”). L’enfasi che queste coppie esprimono nell’esaltare il valore della propria scelta è un segnale di pericolo, perché ci parla dell’idealizzazione e del narcisismo dai quali origina (9,10). I protagonisti, garantiti dall’evitare la piena identificazione con il proprio genitore (“sarò certamente diverso da lui/lei”), non riescono poi a sostenere un progetto di genitorialità, che sopravvalutano in relazione alle proprie risorse e sottovalutano rispetto alla realtà.

Alla presenza del figlio più spesso affidano compiti compensatori, rivendicativi, idealizzati o riparativi, come può essere una seconda possibilità di accudire la propria parte di sé trascurata da bambino.

Più contenitore di proiezioni che investito di un autentico desiderio, il figlio scompare nella sua identità individuale e non può esprimere la specificità del proprio potenziale evolutivo. (7,12,14). Non entra completamente nel ruolo che dovrebbe attenderlo, dal momento che non riceve la normale spinta ad appartenere alla famiglia ed il mandato fisiologico di essere ponte vitale tra le generazioni. Spezzano la catena generazionale non solo i bambini abortiti o quelli non riconosciuti, ma anche i figli adottivi espulsi dalla famiglia, rinnegati come figli e “riconsegnati” all’istituzione  (fenomeno che interessa sempre più spesso gli adolescenti adottati).

Grazie ad una casualità dovuta al concatenarsi di alcune singolari coincidenze che hanno coinvolto protagonisti e servizi, nelle coppie portate ad esempio emergono con sorprendente evidenza gli elementi a conferma dell’ipotesi di una genitorialità difettosa che forgia l’adozione come arma difensiva. Pur intuendo a volte segnali di pericolo, raramente vediamo un quadro così chiaro, poiché nella fase di valutazione le coppie maggiormente a rischio tengono accuratamente celati gli eventi più drammatici della loro vita. Dobbiamo comunque sempre ipotizzare, in quanto tutt’altro che infrequente, la mossa inconsapevolmente agita di distanziamento dalla propria generazione come una tra le possibili motivazioni all’adozione.

Pur in presenza di sofferenze filiali vissute in una famiglia poco dotata di capacità genitoriali, la genitorialità sia biologica che adottiva può però anche esprimere competenze sufficienti a sostenere il processo evolutivo del figlio. Quando l’adulto futuro genitore arriva a disporre, dentro ad una dimensione di consapevolezza di sé, della capacità di identificarsi con il figlio e di tollerare le frustrazioni, possiamo sperare che nella generazione successiva non vi sia una riedizione delle tragedie passate.

Adele é una giovane donna dolce e comunicativa, legata da un rapporto intenso e fiducioso con il marito Giorgio. Prima di cinque figli, si è occupata dei fratelli quasi come farebbe un genitore. E’ cresciuta in una famiglia dove la madre aspettava i sempre più brevi rientri a casa del padre, che, dopo averla resa gravida, ogni volta riprendeva la sua esistenza di vagabondo, fino a scomparire definitivamente dalla vita della famiglia. Adele sa che questa vicenda l’ha fatta soffrire, non solo per le assenze del padre, ma forse ancor di più per l’accondiscendenza della madre verso di lui. Da qualche anno ha capito che questa, malgrado dichiarasse il contrario, preferì sempre il marito a loro figlie, lasciandole poco protette, chiamate a condividere le sue speranze e ansie, tra queste quelle molto concrete delle difficoltà economiche della famiglia.

Ora Adele e Giorgio hanno presentato domanda di adozione. Hanno abbandonato il progetto sanitario subito dopo il primo tentativo di fecondazione assistita: Adele dice che l’ha fatto per non trascurare una possibilità, ma di essere contenta che la gravidanza non sia iniziata, perché così può dedicarsi completamente all’adozione, come desidera.

Messa davanti all’ipotesi che in questo modo cominci ad avvicinarsi al ruolo genitoriale senza rischiare di diventare come la propria madre, diventa pensierosa e poi sorride: dice che è possibile che sia così, e poi accetta facilmente la proposta di colloqui di approfondimento sulla sua scelta di adottare.

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