I molteplici travestimenti della domanda in favore del minore: per chi lavora l'istituzione?

  1. Il destinatario dell’intervento dei servizi: il bambino o i genitori?

Chi si rivolge ai servizi (sociali, educativi, sanitari, giudiziari) che forniscono prestazioni per i bambini non si dichiara destinatario dell’intervento, non desidera una prestazione per sé e porta la domanda per qualcun altro non in grado di formularla, il bambino. Tuttavia, accade spesso che sia proprio l’adulto ad usufruire di questo spazio istituzionale di aiuto.

Infatti, il lavoro di tutela sul minore, che deve certamente avere come destinatario il bambino, nello stesso tempo coinvolge anche le persone che si muovono intorno a lui. Gli adulti che arrivano all’istituzione portano bisogni personali, spesso profondi e doloranti, e nella relazione cercano di attivare con modalità oscure le competenze contenitive che trovano. La loro richiesta manifesta, che verte sul bambino, può far intuire la presenza di altri livelli che contengono nuove domande, alcune implicite ma suscettibili di esplicitazione, altre tenacemente occultate o inconsapevolmente nascoste, ma perentorie. Queste persone, che convogliano nella consultazione molteplici domande camuffate, il più delle volte non le dichiarano, non solo verso l’esterno, ma anche a sé stesse: proprio per questo, il lavoro delle istituzioni non può prescindere dal peso di tali domande, perché aspettano una risposta, se pure non palesemente corrispondente. Riteniamo utile andare alla ricerca di questi elementi nascosti, poiché la loro influenza modella la relazione che l’adulto richiedente instaura sia con il bambino che con le istituzioni.

Esemplificheremo nell’operatività le situazioni più spesso ricorrenti nel lavoro istituzionale che verte sul minore, in un progetto di tutela centrato sui suoi bisogni. Quando il bambino è ancora parte della sua famiglia, a chiedere interventi in suo favore sono i genitori e i parenti, oppure i servizi intervengono su incarico del tribunale per i minorenni o ordinario che intende proteggerlo da relazioni familiari dannose. Quando invece non è fisicamente presente nella famiglia, il bambino è l’oggetto dell’indagine compiuta dai servizi per il tribunale per i minorenni, che si preoccupa di determinare il suo futuro, in cui può rientrare anche l’adozione in una famiglia idonea.

  1. Le domande nei diversi contesti giudiziari e sociali

Dal momento che la mancanza è l’ingrediente che qualifica e accomuna queste diverse situazioni, abbiamo diviso le tipologie dell’intervento istituzionale a seconda di cosa palesemente manca al bambino. Inoltre, per comprendere anche il ruolo dei protagonisti che non compaiono sulla scena, abbiamo utilizzato uno schema-guida modellabile nello specifico di ciascuna tipologia che ci aiutasse a illuminare i contorni, non sempre chiaramente leggibili, delle diverse domande portate ai servizi. Tale guida è imperniata su questi quattro punti: chi chiede, cosa chiede, per chi chiede, a chi chiede.

2.1. L’adozione: la ricerca di genitori adeguati quando il bambino non li ha o ne ha uno solo

Quando una coppia ha dichiarato la propria disponibilità all’adozione, c’è un primo livello di domanda nella richiesta del tribunale per i minorenni ai servizi di verificare l’esistenza di adeguati requisiti di genitorialità per un bambino in stato di abbandono. È però subito evidente anche un altro livello, degli aspiranti genitori che, consapevoli della propria mancanza, chiedono all’istituzione un bambino, diverso da quello biologico, per sé. Questi due livelli possono convivere armonicamente e lavorare insieme per il benessere del bambino che sarà adottato.

È però frequente la presenza di altri livelli, per lo più negati da chi manifesta la sua disponibilità all’adozione. Possiamo avere i coniugi che fantasticano un bambino adottivo uguale a quello biologico, mentre chiedono all’istituzione di negare per sé la propria sterilità (non avendo fatto il lavoro del lutto verso la perdita della fertilità). Come oggi non si assumono i sentimenti di perdita e disvalore della sterilità, non potendo rappresentarsi la portata emozionale della sua constatazione, così essi non riusciranno a proteggere il figlio dai suoi vissuti, dolorosi e penosi, ma propri della sua storia. Conosceranno i suoi trascorsi, ma non gli riconosceranno il diritto alla sua identità.

Possiamo poi avere i coniugi che arrivano alla decisione di adottare spinti dalla molla di diventare salvatori di un bambino bisognoso di affetto. I bambini di allora, che non hanno trovato posto nei pensieri dei loro genitori e troppo presto resi autonomi, sono gli adulti di oggi che portano motivazioni umanitarie alla propria domanda di adozione, scagliandosi con veemente moralismo contro le donne che abbandonano i figli: il loro appassionato coinvolgimento è spiegabile solo dal fatto di essere implicati in prima persona, attraverso la propria storia di figlio. Pur avendo progetti ed attitudini accuditive, é verosimile che utilizzeranno il ruolo genitoriale facendo crescere un bambino riparato piuttosto che un figlio. Sono i coniugi che chiedono per sé all’istituzione di potere riparare quella parte di sé bambino che non ha trovato accoglienza e conferma nelle proprie figure genitoriali.

In una situazione meno frequente, l’adozione del figlio dell’altro coniuge, disciplinata dall’articolo 44, lettera b, della legge 4 maggio 1984 n. 183, troviamo un bambino che non si trova in stato di abbandono, perché vive con uno dei genitori; sposato con una persona che non ha la potestà genitoriale sul di lui, ma chiede di ottenerla. Anche qui, c’è la richiesta del tribunale per i minorenni ai servizi di verificare l’esistenza di adeguati requisiti di genitorialità per il bambino; e, insieme, c’è l’altro livello di domanda, quello dell’aspirante genitore che chiede all’istituzione di esercitare la potestà genitoriale per sé, ed è consapevole della particolarità della storia vissuta sia dal bambino che dalla propria famiglia, e delle difficoltà relazionali collegate. Come nell’adozione legittimante, questi due livelli possono convivere armonicamente e lavorare insieme per il benessere del bambino. Ma in questa situazione esistono ancora altri livelli, attinenti il sé degli adulti, sia di chi è già genitore, sia di chi chiede di diventarlo: così alcuni, negando la sofferenza delle perdite di un passato emozionalmente devastante e/o socialmente sconveniente, cercano di ricreare magicamente una famiglia normale, che però non è mai esistita, perché viene da una storia che non è quella di una famiglia normale; e altri ancora chiedono all’istituzione un nuovo cognome del figlio per cancellare il proprio passato per la propria famiglia.

2.2. L’affidamento del figlio: la relazione con il genitore idoneo quando i genitori sono in conflitto

           Nella contesa giudiziaria per la custodia del figlio nei procedimenti di separazione o divorzio o di scissione dei conviventi il tribunale chiede agli esperti di valutare gli adeguati requisiti di genitorialità per l’affidamento del bambino.

Questa domanda può avvenire contestualmente alla promozione della separazione. In questa fase giudiziaria i movimenti condotti dai legali esacerbano, confondendoli, gli elementi di contrapposizione coniugale e genitoriale, dilatando la dimensione dell’inadeguatezza e della colpa, dalle parti ritenute causa della rottura del legame. Nella valutazione dell’esperto i coniugi sperano di vedere confermato/riconosciuto il proprio primato, almeno come genitore migliore. Sentono quindi impellente il poter recuperare la stima di sé e il senso del proprio valore minati dall’esperienza fallimentare che ha investito l’intera identità. Il secondo livello è quindi la richiesta di ognuno dei genitori per sé all’istituzione, attraverso il riconoscimento sociale delle qualità genitoriali, di negare i propri sentimenti di inadeguatezza.

Più tardi, nel corso del giudizio di separazione o in sede di divorzio, i coniugi possono chiedere la revisione delle modalità di affidamento del figlio quando agisce un caratteristico fattore: una separazione di fatto fra loro disgiunta da un parallelo divorzio emotivo. La domanda manifesta portata qui da uno dei genitori è quella di ridurre gli spazi relazionali che tempo addietro l’altro genitore aveva avuto riconosciuti, per proteggere il figlio dal comportamento dannoso che ritiene stia subendo. Dal momento che sono incapaci sia di cooperazione che di separazione, i coniugi mantengono in comune l’area di una contesa incagliata su nodi conflittuali non risolti, sulla quale convogliano le proprie energie relazionali. Essi perpetrano così una situazione che mantiene viva la loro relazione, benché insoddisfacente, nella quale chiamano ad alleato il figlio. Questi, inconsapevole dell’uso strumentale di tale alleanza, si sente gratificato e privilegiato dalla scelta.

Questi adulti vivono una confusione tra sé e non sé, e quindi tra sé e bambino. I loro atteggiamenti e convinzioni sulla dannosità dell’altro genitore sono un tentativo di coprire la propria ferita dolorante inferta dall’altro come partner che non ha saputo corrispondere alle aspettative di amore ideale e fusionale. Attraverso la pretesa di possesso esclusivo del figlio spostano ora su quest’ultimo le loro richieste, nel tentativo di colmare i vissuti di solitudine e di separatezza intollerabili. Nella domanda di modifica dell’affidamento del figlio è quindi frequente ritrovare questo livello: i genitori chiedono per sé all’istituzione di negare i propri vissuti di separatezza tra sé e l’ex-partner e tra sé e il bambino.

2.3. La verifica dell’adeguatezza genitoriale

Negli interventi condotti a tutela di un bambino che vive nella propria famiglia, il primo livello è quello del tribunale per i minorenni che chiede ai servizi di verificare l’esistenza di adeguati requisiti di genitorialità per il bambino.

Troviamo qui una tipologia di intervento sociale dove è molto frequente il conflitto tra servizi ed adulti, in quanto questi ultimi chiedono all’istituzione di mantenere per sé il proprio diritto di genitore, biologicamente acquisito.

Su questo terreno pieno di ostacoli si gioca un conflitto sostenuto da presupposti contrastanti: uno che riconosce alle istituzioni il diritto-dovere di valutare la qualità delle cure genitoriali di cui abbisogna il bambino, l’altro che lo nega con l’argomentazione che la capacità di fare il genitore è consequenziale alla volontà di farlo. Spesso gli adulti ai quali il tribunale per i minorenni controlla e limita la potestà genitoriale appartengono a questo gruppo, che ritiene l’istituzione ottusamente insensibile per valutare ciò di cui il proprio figlio ha bisogno. Succede a volte però che, dopo tante battaglie, i genitori autoproclamatosi amorevoli continuano a trascurare o maltrattare i propri figli o a lasciarli in istituto dove si trovavano; non è, quindi, il benessere del figlio che li attiva, e nemmeno il desiderio di averlo vicino, bensì il bisogno di vedersi riconosciuta la dedizione genitoriale, un valore socialmente apprezzato.

Ma non solo. Questi genitori hanno un’antica richiesta, inconfessabile perché troppo dolorosa: negare che anche i propri genitori non sono stati all’altezza del loro compito. Se possono ora ottenere la conferma di essere essi stessi genitori adeguati, possono continuare a non confrontarsi con i sentimenti suscitati dall’avere sperimentato l’inadeguatezza dei propri genitori, e fantasticare sé stessi bambini accuditi come ne avevano bisogno. Benché evochino episodi della propria crescita che indicano una cura carente o danneggiante, la giustificano ricorrendo ad alibi che ritengono indipendenti dai genitori stessi (condizioni di vita difficili, problemi di salute, necessità di lavorare, prole numerosa, etc.), negando così di aver vissuto un’esperienza filiale caratterizzata da un deficit delle funzioni accuditive e contenitive. Bambini di allora lasciati in istituto, maltrattati, abusati, rimettono in scena con l’istituzione la relazione con i propri genitori, ritrovandovi significati che loro attribuiscono all’esercizio dell’autorità genitoriale. Avendo sperimentato da quelli più biasimo e attentati al proprio narcisismo, che ascolto e accoglimento dei propri bisogni, ora combattono questa autorità; non avendo potuto fidarsi di quelli, ora temono e sospettano di questa. Infatti, se al posto di autorità istituzionale leggiamo autorità genitoriale, e al posto del figlio reale di oggi vediamo il figlio che il genitore è stato, possiamo intuire quale altra domanda è nascosta in tali situazioni: il sé bambino dell’adulto che chiede all’istituzione di continuare a negare di avere avuto genitori inadeguati.

2.4. La richiesta di risorse economiche o gestionali necessarie alla crescita del bambino quando la sua famiglia non ne ha a sufficienza

Il primo livello negli interventi richiesti ai servizi sociali da una famiglia economicamente disagiata o senza le risorse adeguate per la cura del bambino è integrare ciò che serve al bambino per la sua crescita. I contenuti della richiesta sono solitamente di tipo concreto e operativo: il buono per il latte del neonato, il contributo assistenziale (sotto forma di sussidio diretto o di esenzione dal pagamento di rette per la frequenza in istituzioni scolastiche), l’aiuto domestico e educativo.

Finalità dei servizi e dei genitori coincidono quando i genitori, consapevoli dei bisogni del bambino, sanno utilizzare l’aiuto ricevuto dai servizi perché il figlio possa averne beneficio.

Tuttavia, succede spesso che i genitori utilizzino in modo discontinuo e inefficace le risorse messe a disposizione per i loro figli; l’aiuto erogato non risolve il problema segnalato, il disagio economico della famiglia tende a mantenersi piuttosto che a risolversi, i genitori continuano a sentite troppo onerose la gestione e l’educazione del figlio. Questi genitori non riescono a raccontare le caratteristiche dei loro figli, ad intuirne sentimenti e bisogni. Mentre narrano agli operatori episodi volti a confermare e valorizzare il proprio sé, ricevono essi stessi l’ascolto che ancora ricercano, non avendolo sperimentato con le proprie figure genitoriali, mantenendo relazioni di lunga data con i servizi e tentando così di calmare, attraverso continui movimenti di avvicinamento, l’imponente angoscia depressiva che vivono. Bambini di allora trascurati, lasciati a sé stessi o alle cure frammentate di varie figure, permeano la consultazione con le istanze del proprio sé bambino che chiede all’istituzione ciò che la propria storia non ha dato loro. Se al posto dei servizi vediamo i genitori di oggi, e al posto del figlio reale di oggi vediamo il figlio che il genitore è stato, possiamo intuire quale altra domanda è nascosta in tali situazioni: il sé bambino dell’adulto che chiede all’istituzione di pagare per sé il conto che i propri genitori hanno in sospeso con lui.

Un discorso specifico seppur breve merita la problematica delle famiglie che chiedono ai servizi aiuti educativi e integrazioni economiche per un figlio portatore di handicap. Anche grazie al comune pensiero che ritiene l’handicap un problema sociale, queste famiglie collocano fuori di sé la percezione del proprio fallimento generativo e i sentimenti depressivi legati, attribuendo all’esterno (la scuola, i coetanei, i servizi che non fanno abbastanza), le difficoltà evolutive del figlio. Abbiamo qui l’adulto che, per reintegrare l’immagine di sé ferita dall’handicap del figlio, chiede all’istituzione per sé di essere risarcito per il proprio fallimento generativo. 

  1. I servizi di fronte al bisogno proprio dell’adulto

Vediamo che all’interno di tutte queste vicende ci sono adulti che sono in grado di fare la loro richiesta sul bambino collegandola ad un bisogno proprio, non proiettato, riconosciuto dentro i confini del sé e sostenuto dalla capacità di identificarsi con lui e di investirlo di amore oggettuale. I servizi e gli adulti che hanno attivato la richiesta possono qui lavorare considerando in alleanza le esigenze in gioco.

In altri casi gli adulti non sono ancora giunti ad una piena consapevolezza delle proprie esigenze, ma possono intuire, seppure in maniera rudimentale, di avere un bisogno per sé, e portarlo nello spazio della consultazione. Una signora giunta in consultorio a seguito di un provvedimento del tribunale per i minorenni che riguarda suo figlio di sette anni, si siede ed entro i primi minuti dice: “sono contenta di venire perché così posso parlare anche di me”. Portate a riconoscere la propria sofferenza, seppure lontana, queste persone si sorprendono a piangere per la prima volta pensando il proprio vissuto doloroso, che non aveva ancora trovato l’occasione per essere comunicato e condiviso; possono allora collegare le difficoltà del bambino con le mancanze da tempo portate con sé, fare riflessioni e trovare nuovi significati alla propria esperienza. Arrivano poi anche a riconoscere una domanda spontanea per sé, da affrontare in una consultazione o terapia successiva, indipendente dal mandato istituzionale (mediazione familiare, psicoterapia individuale o di coppia).

Quando invece vivono bisogni massicciamente proiettati e confusi tra sé e bambino, le persone portano una domanda celata e mascherata, ma la più perentoria e pervasiva. Se sperimentano una sofferenza troppo grande per potere essere letta e ricordata, usano le relazioni per ottenere conferma del proprio valore, in quanto la parte dolorante del sé ancora la aspetta. In maniera inconsapevole, tuttavia incoercibile, portano la propria domanda, modificata sotto forma di pretesa di risarcimento, a quelle figure in grado di ascoltare, accogliere, contenere, confermare, valutare, vale a dire agli operatori delle istituzioni. Cercano così di modificare la realtà esterna per supplire ad una realtà interiore povera.

La sindrome da risarcimento è un insieme di emozioni, sentimenti, comportamenti ed azioni che esprimono in una persona la convinzione al diritto di essere risarcita a causa di ingiustizie, mancanze o carenze subite. Vivendo però una confusione tra giusto e sbagliato, e un bisogno di proclamarsi onesta e corretta, tale persona esibisce la propria osservanza a regole morali incontestabili, ma rigide e convenzionali, che non riesce a far diventare autentico patrimonio del sé. Ha il desiderio di avere finalmente un riconoscimento del proprio valore e di ripristinare una condizione di equità, ma si dà spiegazioni ricorrendo al misconoscimento e alla deformazione delle emozioni collegate alla colpa e al concetto di giustizia. Non avendo una consapevolezza della propria identità e una chiara delimitazione tra sé e non sé, non percepisce una connessione tra torto subito ed esigenza di ripianarlo, ma più spesso oscilla confusivamente tra oscuri sentimenti di inadeguatezza negati in sé e dichiarate colpe attribuite ad altri. Disloca allora su oggetti e persone diverse, in luoghi e tempi diversi, i propri sentimenti e le emozioni di rabbia non espressi perché non riconoscibili, bensì rimossi e allontanati dalla primaria fonte che li aveva suscitati. Intellettualizza il bisogno negato, facendolo diventare diritto, e dà l’impressione di non vivere una sofferenza, né di averla vissuta; tuttavia, spesso fa soffrire le persone del suo ambiente.

Nella rivendicazione volta a tacitare il vissuto di carenza può indicare come persona da beneficiare un altro, e non sé stesso, data la confusione tra sé e l’altro che gli è propria. Quando poi dichiara come beneficiario il bambino, per sua natura intrinsecamente bisognoso, compie un’operazione proiettiva inattaccabile e vantaggiosa, in quanto le è riconosciuta la massima approvazione sociale. Nello stesso momento, però, nega al bambino il diritto alla sua identità.

  1. Le richieste di risarcimento

La costellazione emozionale e relazionale di questa sindrome da risarcimento non è appannaggio esclusivo delle classi economicamente disagiate, bensì trasversale ad ogni strato sociale, dove si esprime modellandosi sui valori di riferimento propri della famiglia e del gruppo culturale al quale questa appartiene. Ad ognuna delle quattro tipologie di interventi sopra descritte si associa prevalentemente la pretesa di uno specifico tipo di risarcimento, anche se sono possibili rivendicazioni contemporanee di diversa natura. La componente economica della richiesta diventa gradatamente più imponente dalla prima all’ultima tipologia, dove è di norma più evidente. Tuttavia, non è estranea neppure alle altre, poiché le famiglie che dispongono di scarsi mezzi economici non sono le uniche a pretendere beni materiali e denaro. Abbiamo così i coniugi in conflitto che disputano sui beni immobili mentre si deve disciplinare l’affidamento del loro figlio, o gli aspiranti adottivi che si lamentano perché l’adozione di un bambino straniero ha dei costi che quella italiana non ha, o chi chiede l’adozione del figlio del proprio coniuge per acquisire il diritto all’alloggio popolare o agli sconti sulla tessera ferroviaria. Similmente, troviamo in ogni classe sociale i genitori impegnati ad autodichiarare e ribadire le proprie supposte qualità genitoriali accuditive o affettive.

Sono persone che non riescono ad utilizzare la funzione riparativa del processo del lutto, ma inducono gli altri a lenire la ferita inferta al proprio narcisismo. Chiedono conferma del proprio valore pretendendo che venga attribuito loro il possesso di beni o qualità disparate: dai beni materiali a quelle virtù che sono prova di disinteresse verso di questi, passando dalle capacità, competenze, rettitudine, onestà, moralità, bontà d’animo, altruismo, fino a quelle specifiche della dedizione coniugale e genitoriale. Non importa cosa chiedono che l’istituzione attesti loro, basta che rappresenti la conferma che possa esorcizzare l’angoscia e il disvalore suscitato dalla carenza. Gli itinerari battuti per arrivare ad ottenere i riconoscimenti che abbiamo detto sono molteplici: intimidatori, minacciosi, persecutori, accusatori, lamentosi, convincenti, seduttivi. La necessità di ottenerli è così pressante da giustificare il passaggio a livelli ritenuti più influenti e prestigiosi: i mezzi di comunicazione, il responsabile del servizio, l’assessore, il sindaco, il giudice di grado superiore.

Quanto più conducono l’operazione con strumenti raffinati, intelligenti e colti, tanto più hanno possibilità di successo, ma, poiché usano una strategia difensiva, possono riuscire solo parzialmente e temporaneamente a placare la rabbia che sostiene la sindrome. Continuano allora a travasare nella relazione con il coniuge e le istituzioni la propria domanda nata nella storia di figlio, portandola intatta con la sua voracità, il bagaglio di sofferenza e il mancato riconoscimento, poiché l’oggetto deputato a fornire cure, conferme e gratificazioni, vale a dire la figura parentale o comunque accuditiva, a tempo debito non è stata disponibile a tale funzione.

  1. Il compito dell’operatore

 Laddove c’è una mancanza dichiarata sul bambino, l’operatore si trova a gestire situazioni particolarmente complesse poiché si relaziona con persone che non l’hanno scelto, non gli chiedono un parere, non dichiarano un malessere proprio. Pur non lavorando in un contesto che ha una connotazione squisitamente terapeutica, bensì finalità diverse, l’operatore deve conoscere gli strumenti di analisi messi a disposizione da tale tipo di competenza. Deve riconoscere e maneggiare le valenze valutative-normative che qui sono richieste, senza dimenticare quelle contenitive-terapeutiche, suo consueto bagaglio professionale, evitando però confondimenti e sovrapposizioni di obiettivi. Anche se il destinatario del suo lavoro è il bambino, non può ignorare che le persone con le quali lavora stanno intorno al bambino.

 Leggendo istanze appartenenti a persone diverse, volte a soddisfare richieste diverse, potenzialmente in conflitto tra di loro, l’operatore comprenderà se l’interesse del minore e quello dell’adulto sono o meno in antitesi tra di loro, ed orienterà così il proprio intervento. Per poter compiere un ascolto prognostico dedicherà particolare attenzione all’analisi del contenuto dei colloqui, ai messaggi impliciti, al tipo di relazione che si stabilisce fin dalle prime battute, che a volte danno indicazioni esemplari. Vaglierà le motivazioni degli adulti rispetto alla domanda che esprimono, la rappresentazione che hanno di sé, nonché la loro capacità di comprendere gli autentici bisogni del bambino.

Dal momento che opera per la salvaguardia dell’interesse del minore, egli non permetterà all’adulto di utilizzare difensivamente il bambino per i bisogni di cura che nega in sé stesso, e non farà confusione tra le persone che sta ascoltando e quelle per le quali sta lavorando, anche se riconoscere la sofferenza dell’adulto rientra nei suoi compiti professionali e gli permette di condurre più efficacemente il proprio intervento. 

Lavorando in tale ambito l’operatore non si confronterà solo con la mancanza del bambino e dell’adulto che gli sta intorno. Davanti a situazioni emozionali e relazionali fortemente compromesse egli può non trovare strumenti professionali efficaci per bonificarle, dibattendosi così in empasse senza uscita. La formazione e la supervisione restano doverose, ma anche la possibilità di confrontarsi con i propri limiti, in quanto, come abbiamo visto, gli effetti della mancanza negata sono più dannosi della mancanza stessa. Di certo, tutte le volte che incontra un adulto che non sa di chiedere per sé, ma lo fa dichiarandosi paladino dei diritti del bambino, l’operatore si deve guardare dal pericolo di entrare collusivamente nella relazione professionale.

A questo proposito è interessante ricordare uno degli elementi previsti dal DSM  per fare la diagnosi di disturbo narcisistico della personalità: “Crede di essere speciale e unico, e di dover frequentare e poter essere capito solo da altre persone (o istituzioni) speciali o di classe elevata”.

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