Leggendo pagine relative alla cosiddetta PAS o Parent Alienation Syndrome ricavo la netta sensazione che il tono dei suoi sostenitori e detrattori non si discosti molto dal tono medio dei conflitti tra genitori separati incapaci di chiudere la narrazione della loro coppia finita e di rapportarsi come genitori e adulti senza squalificarsi vicendevolmente e ferocemente.
Alle considerazioni che seguono, quindi, voglio premettere con molta chiarezza che non ho da sostenere alcuna posizione teorica rispetto alla PAS, né favorevole, né contraria. Inoltre il concetto di PAS rispecchia l’approccio sindromico tipico del DSM-IV, un manuale diagnostico con innegabili meriti statistici, ma che è stato soggetto a numerosissime critiche di ordine clinico e epistemologico, e anche per accertati conflitti di interessi con multinazionali del farmaco1. Ogni “sindrome” è in effetti un aggregato/costrutto puramente descrittivo di sintomi che forma solo sul piano statistico una categoria nosologica. Ci mancherebbe che avessimo bisogno di aggiungere nuove sindromi come la PAS a quelle già esistenti.
I fenomeni di cui voglio parlare qui riguardano alcuni dei modi di separarsi tra coniugi o partner a prescindere dalle battaglie per l’affido dei figli. Ne parlerò al femminile non per pregiudizio ma semplicemente perché la totalità di questi eventi da me osservati hanno avuto come soggetto protagonista la donna, anche se non escludo affatto la possibilità che vengano messi in atto da uomini, semplicemente non mi è capitato di osservarli nel mio lavoro di psicologo.
La storia può iniziare così: la donna e madre di uno o più figli inizia a provare un certo, vago disagio nei confronti del marito o del partner2; questo disagio si trasforma più o meno lentamente nel desiderio di interrompere il rapporto, senza alcuna intenzione di iniziarne altri, ma semplicemente con l’intento (di norma poi realmente messo in atto) di dedicarsi con più energia alla cura dei figli. Le forme e l’intensità di questo disagio sono estremamente variabili, così come il loro sviluppo: a volte è repentino e rabbioso, assoluto, reticente sulle motivazioni che l’uomo “saprebbe benissimo”, e conseguente netto rifiuto di riferirle a lui o ad altri. Altre volte è un crescendo lento e sommesso, altre ancora contiene l’amara consapevolezza di un abbandono in momenti cruciali come una malattia o un lutto della donna, che avverte la latitanza affettiva e fisica del partner, troppo dedito al lavoro o ad altri impegni.
In tutti i casi non mancano mai motivazioni reali e concrete a supporto del disagio della donna, ma proseguendo nei colloqui con lei appare chiaro che ai suoi stessi occhi quelle motivazioni non sono sufficienti a spiegare la forza di una decisione che pian piano si fa apodittica: “risolverò tutti i miei problemi se estrometterò quest’uomo dalla mia vita”. È a questo punto che avviene un parziale distacco dalla realtà degli eventi, nell’aspettativa quasi mistica che tagliando fuori dal proprio campo esperienziale un (ex) partner per ciò stesso “si starà meglio”. Nella maggior parte dei casi questo “psicodramma” si consuma inizialmente solo tra donna e uomo, e non necessariamente la madre ostacola (almeno sul piano pratico) la frequentazione del padre da parte dei figli, purché separatamente da lei. All’estremo opposto della casistica la donna arriva a sospettare e talvolta a denunciare il partner di abusi sui figli che spesso, fortunatamente, dopo attenta indagine da parte del tribunale e dopo perizie si rivelano del tutto infondate3.
Al di là della grande variabilità di percorsi e sviluppi, qualcosa di queste situazioni sembra essere comune: la presenza di una importante dimensione proiettiva, addirittura, meglio, transferale, che investe il partner con rappresentazioni e tensioni che non necessariamente gli appartengono. Estendendo le tesi di Manzano e Palacio Espasa4 si potrebbe affermare che alla figura del partner se ne sovrappongono più o meno inconsciamente altre, verso le quali si provano sentimenti forti e ostili ancora non elaborati e talvolta negati5. Nella mia esperienza la figura più frequentemente coinvolta in questa sovrapposizione è il padre della donna, sia in quanto genitore che in quanto membro della coppia genitoriale.
Questa “esclusione del padre”, che talvolta viene attuata anche senza alcuna separazione, con una relazione simbiotica impenetrabile alla terzietà paterna, si accompagna a una fantasia di autosufficienza materna, di pienezza narcisistica, di riconoscimento di sé come madre buona e generosa, di fronte alla quale si ha buon gioco a dar forza a una immagine (non necessariamente irrealistica, sia ben chiaro!) di padre carente, assente, trascurante, impotente e irrilevante. Ma anche quando tale immagine ben si attaglia al partner “cattivo padre”, pur tuttavia accade talvolta che la forza delle proiezioni che lo investono sia così massiccia da sopravanzare la realtà fattuale. Sembra, dunque, che vi sia una triangolarità negata per motivazioni interne al soggetto che la pratica. Al fondo di tutto ciò sta appunto l’attesa salvifica e troppo semplicistica che espellendo costui dalla propria vita (e talvolta da quella dei figli) per ciò stesso “ogni” problema verrà magicamente risolto6.
Che c’entrano i figli in tutto questo? Fin qui assai poco. I sostenitori della PAS parlano di “programmazione” o “lavaggio del cervello” dei figli a scapito del genitore alienato. Ma se solo si esce da categorie psicologiche vecchie di mezzo secolo, e di natura vetero-comportamentista, non si resta certo sorpresi che i figli avvertano su un piano di comunicazione implicita e irriflessa, perfino inintenzionale, la difficoltà di rapportarsi a due genitori esperiti come incompatibili. Perfino più vecchia, ma ancora permeata di lungimirante saggezza, ci dà supporto una affermazione di Winnicott del 1928: «La maggior parte delle madri e di quelli che costituiscono il mondo che il bambino incontra dalla nascita in poi agisce sulla base dell'intuito.
È possibile prima pensare e poi agire, agire e poi pensare e agire senza pensare affatto; ciò che più influenza la vita di un bambino è l'insieme delle azioni e delle reazioni non meditate della madre e degli altri, parenti e amici; non sono una o due azioni ben meditate a sortire il maggior effetto7.» Ci sono bambini che piangono nel trasferirsi dalla casa materna a quella paterna, altri che piangono nel percorso opposto, altri ancora che piangono in entrambi i tragitti, come a marcare la difficoltà di varcare un confine che pare segnato da profonde incompatibilità, quasi fosse delimitato da un fossato pieno di feroci alligatori. I bambini avvertono i sentimenti provati da ciascun genitore verso l’altro e tentano, senza poterci riuscire, di conciliarli, o almeno di non farli precipitare.
La presenza di massicce proiezioni ad alta carica affettiva incide sempre negativamente sulle capacità di mentalizzazione dell’adulto verso il partner e anche verso i figli; la mentalizzazione8 si riferisce alla capacità di “pensare” gli stati mentali propri e degli altri (sentimenti, desideri, intenzioni e gli stessi pensieri) e di vederli in modo sufficientemente realistico come la base delle rispettive azioni. È assai frequente riscontrare in questi genitori mentalizzazioni distorte, negate, o quantomeno carenti. Può essere anche attraverso questo canale che le proiezioni si estendono ai figli: tramite, appunto, uno stile distorto con cui mentalizzare i vissuti e le intenzioni del partner.
Una condizione del genere naturalmente può esitare in franche distorsioni dello sviluppo psico-affettivo dei bambini quando si va a collocare in stili di attaccamento insicuri o marcatamente a rischio; è ben nota, tra l’altro, una sinergia tra buona mentalizzazione e attaccamento sicuro, e viceversa mentalizzazione assente o distorta e attaccamenti insicuri, confusi, o disorganizzati. Questi stessi ultimi stili di attaccamento possono essere proprio alla base anche delle problematiche degli adulti coinvolti nella relazione interrotta. Le concettualizzazioni nette come la PAS tagliano con l’accetta situazioni che sono invece altamente complesse, sfaccettate e delicate. Toccano aree intime delle persone coinvolte, e spesso dietro comportamenti che potremmo definire ingiusti e persecutori stanno storie lunghe di dolore inelaborato.
In conclusione, che cosa possono fare le istituzioni per relazionarsi correttamente a queste particolari situazioni, in modo da non colludere con dinamiche disfunzionali ai minori stessi? Oltre a un doveroso, ma generico appello all’attenta e discreta considerazione di questioni umane delicatissime, credo sia opportuno che:
la natura unica e particolare di ogni separazione conflittuale venga adeguatamente compresa nelle pertinenti sedi professionali (e giudiziarie, se caso) senza pregiudizi né preconcetti.
Fin quando l’affido è condiviso si attui ogni iniziativa per far arrivare a entrambi i genitori nelle rispettive residenze le informazioni rilevanti sui figli.
Che si estenda a tutte le pratiche rilevanti per il minore la disciplina (che attualmente vincola tra gli altri gli psicologi) a una doppia firma di consenso per ciascun genitore in modo trasparente e inequivocabile.
Che vengano chiarite sempre e comunque con apposita modulistica a doppia firma le condizioni di custodia e di consegna/riconsegna dei bambini a scuola e in altri luoghi di permanenza.
Che i servizi di mediazione familiare pubblici e privati conformino le loro pratiche a modelli teorici che possano comprendere e gestire la grande complessità di queste situazioni, rifuggendo da facili scorciatoie strategiche o comportamentiste.
Tutto questo è certamente solo un contorno di fronte a fenomeni sfuggenti, complessi e spesso latenti, ma è almeno un inizio per evitare che un comportamento superficiale delle istituzioni possa agire da moltiplicatore anziché da contenimento.
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