Un bambino sfugge dalle mani della madre e corre per raccogliere una figurina; la madre, spaventatissima, lo riacchiappa e lo percuote violentemente.
Il bambino, che fino a quel momento aveva un’espressione serena e divertita, ora è spaventato e dolente.
Ci domandiamo: quale forma educativa è stata veicolata dalla madre al figlio?
Il bambino ha appreso a non farlo più?
E anche se così fosse a quale prezzo?
L’aggressione della madre ha un significato per il bambino?
E qual’ è questo significato?
Prima di rispondere a queste domande voglio invitarvi a pensare se avete mai visto una reazione diversa della madre o del padre nella medesima situazione. Mi viene in mente una scena in cui una madre abbraccia e bacia suo figlio, contenta per lo scampato pericolo. Sono sicuro che questa immagine ha un effetto più rassicurante di quella prima descritta. E in effetti penso che chi legge sia d’accordo con me su questa seconda modalità di comportamento salvo, però, a fare dei distinguo sul suo valore educativo.
Si dirà che in questo modo il bambino continuerà a comportarsi male e alla prossima occasione ripeterà il suo gesto pericoloso. Vediamo ora di dare un significato alle perplessità prima menzionate.
A due anni di età non è possibile attribuire un nesso causale tra il correre per la strada con una buona motivazione e il pericolo di essere investito da un auto. Il bambino di due anni non è in grado di effettuare questa connessione per cui l’espressione di rabbia della madre e le percosse gli appaiono prive di significato. Evidentemente questa non è una forma educativa perché il bambino rincorrerà alla prossima occasione qualsiasi oggetto attragga la sua curiosità, anche per strada.
Se non si comprende la ragione, una punizione è sempre inefficace; anzi, le punizioni di questo genere nei bambini attivano una generica e diffusa paura che investe completamente il bambino in qualsiasi altra situazione e lo inibirà nelle sue iniziative.
Questa forma di inibizione, cioè generica e pervasiva è stata descritta come impotenza appresa in esperimenti compiuti sui cani qualche tempo fa. Picchiare il bambino non ha alcun valore educativo e nemmeno lo aveva nelle intenzioni della madre ma scaturisce unicamente dalla paura. Non è un’eccezione: quando si prova una forte paura o si scappa, o si rimane immobilizzati , oppure si aggredisce.
Quindi la signora ipotetica ha picchiato suo figlio per paura. La sua reazione furiosa ha l’unica motivazione nella paura provata e nel mancato controllo della sua rabbia.
Ipoteticamente possiamo immaginare che ella reagirà allo stesso modo in situazioni simili, per cui l’aggressione del figlio è la risposta al rischio di perderlo, l’angoscia e la collera in questo caso procedono insieme.
Questo strano fenomeno doveva pur avere un valore adattivo un tempo se permane ancora oggi. In realtà, la collera del genitore nei confronti del figlio quando questo non si comporta secondo certe regole è giustificata ed è di un certo valore nel mantenere la relazione tra di loro.
Ma, com’è del tutto ovvio la collera può essere eccessiva e incontrollata e portare a conseguenze orribili. Fortunatamente non tutti siamo portati a comportamenti così esasperati e brutali. Quelli invece che non riescono a fare altrimenti sono stati essi stessi vittime di un comportamento violento e sconsiderato da parte dei loro genitori o, comunque, di chi li ha accuditi durante la loro infanzia.
Queste persone sembrano vittime di un destino crudele che tende a trasmettersi attraverso le generazioni dai genitori ai figli. In questo modo i figli vittime di violenza diventeranno a loro volta, e loro malgrado, persecutori dei propri figli. E non è il caso solo di condizioni di disagio economico o condizioni marginali.
Le violenze in famiglia avvengono in tutti i ceti sociali e commesse da persone con un particolare disturbo di personalità maturato in contesti a loro volta violenti. Ancora troppi bambini vengono maltrattati dai loro genitori e il nostro orrore di fronte a questi, al comportamento di questi genitori è oggi mitigato dall’aumento delle nostre conoscenze sul tipo di infanzia vissuta da questi stessi genitori.
E anche se è inevitabile provare orrore di fronte ai loro atti, il fatto di conoscere di più sul modo in cui sono giunti a comportarsi così violentemente evoca compassione piuttosto che biasimo.
Ben lontano dal rifiutare di vedere che talvolta i genitori agiscono in modo orribile, noi psicologi cerchiamo dei modi per soccorrere le vittime, i bambini come gli adulti, le vittime psicologiche come quelle fisiche. Soprattutto cerchiamo delle modalità per impedire che gli schemi di comportamento violento si sviluppino anche nelle nuove famiglie.