A differenza di tutte le volte, dove il prelevamento coatto, non è stato ripreso da una telecamera, mercoledì 10 ottobre 2012 in diretta TV (trasmissione “Chi l’ha visto?”), abbiamo assistito a una scena sconvolgente per la violenza, la crudeltà, la durata dell’episodio, l’assoluta mancanza di ascolto, empatia, tutela e cura da parte di adulti nei confronti di un bambino di 10 anni.
Con le dovute differenze, ho rivisto altre immagini che si riferiscono a episodi di cronaca, dove persone inermi sono state brutalmente picchiate, umiliate e uccise da chi, per mandato istituzionale, ci dovrebbe proteggere.
La vicenda rientra in quella moltitudine di casi, ormai sempre più frequenti, dove a fronte di gravi disagi psicopatologici dei genitori , il bambino diventa “oggetto” di ricatto, offesa e di vendetta reciproca.
A nessuno degli agenti autori dell’esecuzione dell’ ordinanza del Tribunale, è venuto in mente di fermarsi, visto il protrarsi delle manifestazioni di sofferenza, rifiuto e disperazione di un bambino di 10 anni che non voleva “ottemperare” alla decisione della legge.
E’ stato trascinato con la forza, prima fuori dalla scuola, poi per strada.
Trascinato da due adulti per mani e piedi, mentre si divincolava, urlando aiuto e “stipato” su un’auto.
Gli autori del fatto, non si sono chiesti se la modalità dell’attuazione del provvedimento rispondesse a criteri di umanità, civiltà e giustizia , viste le reazioni così forti e decise del bimbo.
Il bambino doveva essere portato in una comunità e allontanato dalla madre e quindi come un pacco è stato preso e spostato.
Non si sono chiesti, se quanto stavano facendo potesse provocare traumi irreparabili al bambino
o turbare, spaventare tutti gli altri bambini, che hanno assistito a una violenza così brutale attuata su un compagno.
Le urla e l’immane sforzo fisico del bimbo, che ha fatto una resistenza incredibile contro due uomini adulti (padre e agente) sono state assolutamente inascoltate.
Gli adulti non si sono resi conto di nulla, assolutamente impermeabili e anestetizzati di fronte a reazioni così esplicite e disperate.
Come è possibile? Non ci vuole una formazione particolare, né tanto meno una grande sensibilità , per comprendere quando un bambino manifesta un malessere e un rifiuto così forti ed evidenti.
Chiedersi “ ma cosa sto facendo e fermarsi” dovrebbe rientrare nella consapevolezza di qualsiasi essere umano equilibrato e sufficientemente maturo da decidere, in itinere, l’adeguatezza o meno degli strumenti utilizzati per ottemperare al proprio dovere.
Se quella violenza, su qualsiasi persona, a maggior ragione un minore, fosse stata attuata da un cittadino qualunque, lo stesso sarebbe stato fermato e arrestato all’istante.
Il bambino “oggetto” di offesa tra i genitori, diventa “oggetto” di affermazione di potere tra istituzione e famiglia.
Come è possibile che un padre, che dichiara di volere il bene del proprio figlio, possa fare quello che ha fatto. Anche se avesse tutte le ragioni di questo mondo, esporre il figlio a un’esperienza di questo genere e non fermarsi di fronte a manifestazioni di rifiuto e di paura così evidenti, denota un’assoluta mancanza di empatia e di cura e il prevalere di istanze molto personali.
Come è possibile che una madre , che dichiara di volere il bene del proprio figlio, con il suo comportamento, protratto nel tempo, abbia contribuito all’esasperazione di un conflitto, sfociato poi in questo episodio così traumatizzante per il bambino.
Cosa hanno fatto, nel corso degli anni, i servizi sociali, se e quali interventi hanno proposto o attuato per attenuare l’alta e patologica conflittualità dei genitori.
Cosa hanno fatto e se e quando sono stati interpellati i tecnici, psicologi /psichiatri, prima dell’intervento del Tribunale, per aiutare i genitori a gestire e convivere con il “fallimento” di un rapporto di coppia, attenuando almeno l’insogere di tutta questa violenza.
Purtroppo, come al solito, anni di conflitto, disagio e sofferenza di coppia e individuale, inascoltati e non compresi si trasformano in rivendicazioni legali, che non potranno mai riparare o guarire “antichi” e profondi bisogni interni, che oscurano e delegittimano il ruolo genitoriale.
Solo alcuni genitori e la zia presenti, hanno cercato di fare qualcosa per interrompere una violenza così gratuita e sono stati denunciati per resistenza alle forze dell’ordine.
Il capo della polizia e il governo si sono scusati con i familiari per quanto successo e hanno aperto due inchieste.
Nessuno si è scusato con il bambino, che rimane in comunità e sarà aiutato dai tecnici a rielaborare quest’esperienza così traumatica, che si somma sicuramente ad anni di disagio e sofferenza.
Il “cattivo” ancora una volta è il bambino, strappato alla sua quotidianità, inserito in un contesto non voluto, tra estranei, messo in “castigo” per colpe e responsabilità non sue.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato o che si trasforma in irreparabile errore, nelle procedure attuate dalle autorità giudiziarie in casi simili.
Spesso l’intervento a tutela del minore diventa ulteriore offesa del minore e ciò è intollerabile in uno Stato di Diritto. Si disattendono tutte le Norme nazionali e internazionali che dovrebbero fare da guida alla decantata tutela dell’Infanzia.
Come accennato, la risonanza mediatica del fatto accaduto a Cittadella (PD), ha messo in luce, situazioni simili anche se, per fortuna, non sempre così violente, che avvengono quando la separazione dei coniugi si trasforma in guerra dichiarata e feroce.
Il “profugo” è sempre il bambino, che oltre al peso del conflitto dei genitori, vissuto sulla propria pelle, deve anche imparare a convivere, per sopravvivere, con la paura, la solitudine e l’incertezza dei punti affettivi di riferimento in disfacimento, in contesti estranei, con tutta la fatica che dovrà fare per ricrearsi abitudini, relazioni amicali e una quotidianità normale e se avrà fortuna, mediamente serena.
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