Blue eyes, brown eyes
Uno di questi è quello che condusse una certa Jane Elliott, insegnante ed educatrice, femminista e attivista dei diritti LGBT. Fu proprio a seguito dell’uccisione di Martin Luther King il 4 aprile del ’68, che Jane sentì forte la spinta a guidare i propri giovani alunni verso la comprensione profonda del razzismo. Durante le proprie lezioni, si accorse che descrivere e raccontare non era più sufficiente, “potevo vedere che non stavano interiorizzando nulla. Facevano quello che fanno i bianchi. Quando i bianchi si siedono a parlare di razzismo, quello che fanno in realtà è condividere la propria ignoranza“.
E come ci insegna la Gestalt Therapy, l’esperienza delle cose ne agevola il contatto e la presa di coscienza ed è proprio con questa convinzione che Elliott propose ai propri alunni un esperimento che suscitò polemiche e perplessità. In soldoni, chiese ai bambini se avrebbero voluto provare la discriminazione sulla propria pelle partecipando ad un esercizio che li mettesse nei panni sia di chi viene discriminato che di chi discrimina. Decise di basare l’esperimento sulla segregazione razziale, dividendo la classe in due gruppi in base al colore degli occhi degli alunni: occhi chiari e occhi scuri. Durante il primo giorno, Elliott portò dei collari marroni che i bambini con gli occhi chiari dovevano mettere al collo dei bambini con gli occhi castani, così che si potessero distinguere visivamente i due gruppi. Il gruppo dagli occhi chiari lo definì “superiore” mentre quello dagli occhi scuri “inferiore“. Agli alunni considerati superiori venivano consentiti una serie di privilegi tra cui più merende in giornata, l’accesso alla palestra nuova, doppie porzioni a pranzo e più intervalli. L’insegnante, inoltre, invitava gli alunni del gruppo superiore a escludere dai propri giochi quelli dell’altro gruppo e addirittura a bere da fontanelle diverse; cambiava anche il modo in cui si rivolgeva loro durante i compiti in classe o le interrogazioni: gli alunni dagli occhi scuri, infatti, subivano punizioni, richiami e continue svalutazioni.
C’è da dire che all’inizio dell’esperimento, notando un certo rifiuto da parte del gruppo considerato inferiore, Elliott pensò bene di raccontare ai suoi alunni dagli occhi scuri che alla melanina fossero legate migliori capacità di apprendimento e doti intellettive. Questa menzogna funzionò alla grande e poté procedere con l’esperimento.
Il giorno successivo l’insegnante invertì i ruoli dei due gruppi, così che tutti potessero viversi l’esperienza da entrambi i lati. Alla fine dell’esercizio invitò i bambini a raccontare cosa avevano provato e come si erano sentiti nel corso di queste due giornate insolite.
Quali risultati ottenne?
Gli alunni del gruppo considerato superiore divennero arroganti, prepotenti e infastiditi dagli inferiori e i risultati ai compiti di matematica e letteratura furono migliori rispetto al rendimento precedente. Gli alunni del gruppo inferiore, invece, divennero insicuri, timorosi e servili; durante gli intervalli cominciarono ad isolarsi e persino quelli più dominanti in classe, si chiusero in se stessi. Anche in questo caso, i risultati scolastici subirono un cambiamento nella direzione opposta, evidenziando un calo rispetto a prestazioni superate in precedenza con successo.
Come c’era da aspettarsi Jane Elliott venne attaccata da molti genitori che videro l’esperimento come poco etico, professionale e rispettoso. In un mare di polemiche sollevate all’epoca, ci fu una lettera inviata all’insegnante che diceva :”Come osa eseguire un esperimento così crudele su dei bambini bianchi? I bambini neri crescono abituati a questo tipo di atteggiamento, ma quelli bianchi non potrebbero mai capirlo. È crudele verso i bambini bianchi e causerà loro un grave danno psicologico.“. Ho dei dubbi nel considerare queste tristi parole così tanto lontane da noi.
Ad ogni modo, a me sembra che l’esperienza di Elliott abbia fatto emergere come il modo in cui ci rivolgiamo all’altro, possa cambiare noi e l’altro. Ciò che il contesto dice di noi, definendoci e categorizzandoci, finisce sempre per influenzare l’idea che abbiamo di noi stessi. Se cresco con la convinzione di essere meglio di altri, probabilmente raggiungerò obiettivi importanti, ma lo farò calpestando i piedi di chi mi sta intorno; oppure mi scontrerò con i miei limiti e questo mi manderà in crisi. Se, invece, mi viene costantemente ribadito che non sono in grado, è possibile che dovrò faticare tutta la vita per sentirmici o resterò fermo nelle mie insicurezze invalidanti.
Forse ci servono scosse di questo tipo per capire veramente cosa significhi essere aggrediti, allontanati, rifiutati lì dove dovremmo poterci sentire liberi e tutelati.
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