Sono 4 anni che soffro di questa ''ansia da ipocondria''
Gentili dottori , scrivo perché sono 4 anni che soffro di questa “ansia da ipocondria“. Prima però riuscivo a gestirla molto bene. Adesso è un annetto che mi fa vivere davvero male. Ho tantissime sensazioni spiacevoli al minuto che mi fanno sempre pensare al peggio. Ho fatto anche qualche visita o esame che mi hanno dato esiti negativi ( o comunque non è uscito nulla di così grave come temevo ). Sono in terapia da 10 mesi ( psicanalisi ) e nonostante sia la mia terapeuta che chi mi sta vicino dice che dei miglioramenti ne ho fatti, io non lo vedo. E certe volte mi faccio tanti pensieri sulla possibilità di aver sbagliato percorso , terapeuta.. Ecc.. Quello che vorrei sapere, anche se non con precisione perché dipende da molti fattori, è : generalmente come si fa a capire se la terapia sta andando bene? Se il terapeuta é quello giusto? C'è stato un periodo di grosso transfert. Adesso invece impongo più spesso le mie idee e spesso ci “scontriamo“ in seduta. Anche questo fa parte della terapia? Grazie.
La risposta è sì, anche questo fa parte della terapia. Vede Martina, la psicoterapia, se riesce a scendere nell'interiorità della persona, non è un percorso semplice e lineare. Ci sono alti e bassi, momenti di sconforto e momenti di estremo benessere. Le emozioni, anche quelle "forti" sono rivissute e rimesse in campo. E qual è il campo dove è possibile osservare le emozioni, anche quelle contorte che ci si porta dentro e fanno star male? Proprio nel setting analitico, è là, in quel più o meno piccolo spazio che le emozioni, i sentimenti, i modelli relazionali sono messi in campo. E' il luogo dove la persona può prendere coscienza di ciò che gli accade, di cosa la turbi. Il Transfert è un potente strumento studiato da più di un secolo oramai, il quale, se attentamente analizzato, permette di capire come la persona si relaziona, in che modo mette in atto le proprie proiezioni. Il Transfert si manifesta sia con emozioni e sentimenti positivi che negativi. Facciamo un esempio. Se la persona, sia maschio sia femmina, ha grosse problematiche interiori nei confronti della figura femminile (o maschile), la prima persona che si trova davanti è la terapeuta. Succede la stessa cosa, anche se il terapeuta è maschio. Ora se questi è bravo e se la persona lo consentirà, soprattutto se non ne sarà troppo spaventata, se ne potrà parlare e magari trovare l'origine di questo sentimento. Se la persona lo consentirà, nel senso se manterrà una piccola luce, una capacità di osservazione, una propensione a mettersi in discussione. D'altronde, non è per questo che è giunto in terapia? Senza questa capacità o predisposizione all'introspezione, la psicoanalisi non funziona. Prendiamo quel paziente di cui dicevamo prima, che nutra sentimenti ambivalenti (amore e aggressività) nei confronti della figura femminile e mettiamogli accanto un terapeuta che non affronti quest’argomento, perché ne ha paura egli stesso oppure perché non ha gli strumenti teorici e tecnici per poterlo fare oppure perché la richiesta del paziente era altra, ma che lo sostenga ad andare avanti, ad affrontare la vita con coraggio e determinazione, cosa comporterà tutto ciò? Un’iniziale soddisfazione nella terapia e poi al di fuori, nella vita reale, le problematiche che permarranno tutte irrisolte. Certo, la condizione indispensabile e preliminare a un buon trattamento, psicoanalitico e non, è la fiducia nel terapeuta o una disposizione alla fiducia (verificata iscrizione Albo e curriculum). Ne parli con la sua terapeuta (“io mi sento così, verso di lei”), potrebbe essere sulla strada giusta. In bocca al lupo.