Come leggere i messaggi “scritti” nel corpo
Come ogni parola comunica, in quanto è dotata di un significato, così ogni parte del corpo, ogni organo, se dotato di significato, "parla".
È da questo presupposto che parte la nostra concezione psicosomatica ed è sulla ricerca di significati per il corpo, in tutte le sue parti, sane o malate, che si basa il nostro lavoro.
E, come le parole si uniscono e si articolano in gruppi a formare frasi, discorsi, così gli organi del corpo parlano con le loro interazioni, con le loro funzioni, con le loro disfunzioni, o sintomi, o malattie...
I due piani — verbale e corporeo, psichico e fisico — sembrano completamente separati l'uno dall'altro, inconciliabili e anzi estranei. Con una parola non posso comandare al cuore di fermarsi e d'altra parte non posso formulare discorsi con i polmoni...
Però, come esiste una "parlata" silenziosa, fatta di gesti, atteggiamenti, occhiate — generalmente dotata di un significato che viene recepito immediatamente anche se in modo del tutto inconscio —, che in un certo senso "valica il confine" tra i due piani e ne costituisce il trait d'union (è un linguaggio analogico in cui la parola, inespressa verbalmente, si fa corpo per venire comunicata, diventa alzata di spalle, sorriso, sbadiglio...) ... così esistono parole che sembrano scaturire direttamente dal corpo, specialmente quando si ammala.
Così la persona che soffre di cefalee dice di avere troppi pensieri per la testa, l'asmatico parla di persone che tolgono il fiato, l'iperteso di essere sempre sotto pressione, il colitico degli istinti bassi e sporchi della carne, l' ulceroso di situazioni difficili da mandar giù, e così via. Si ripropone cioè a parole quanto sta accadendo, a fatti, nel corpo, e sembra che esista un "linguaggio d'organo" abbastanza ricorrente, comune in linea di massima a tutte le persone che presentano la stessa somatizzazione.
Sono questi modi di dire spontaneamente usati dai pazienti per descrivere il proprio momento esistenziale, i propri stati d'animo, che possono far luce anche sul significato di una malattia somatica, e quindi "dire" al terapeuta che cosa sta succedendo in quel momento a quella persona. Sembra di essere di fronte a un evento che, in una vera e propria simultaneità psicofisica, può esprimersi a tutti i livelli: nel corpo con la somatizzazione, nel linguaggio con certi modi di dire, nel comportamento con certi atteggiamenti particolari.
Per esempio un paziente presentava contemporaneamente stitichezza, verbalizzazioni del tipo «non voglio perdere il controllo della situazione» e la tendenza a tenere rigidamente sotto controllo i dipendenti e i familiari. Ciò che unisce i diversi sintomi in un unico evento è l'analogia, il senso comune, in questo caso il "controllare", che esprimono tutti, sebbene su piani diversi, ognuno con la sua "inflessione" particolare. Ma, anche se il paziente non lo dice "a voce", in presenza di un certo tipo di somatizzazione, c'è sempre un certo tipo di vissuti inconsci, un momento esistenziale calato in una certa dimensione, uno stato di coscienza orientato in una certa direzione.
A dirlo non è solamente l'esperienza clinica, ma lo stesso inconscio collettivo, che collega — ce ne danno prova i vocabolari, ma anche i miti e le tradizioni più antiche — ad ogni parte del corpo, ad ogni funzione, tutta una serie di significati particolari.
L'inconscio collettivo — che ha "generato" le lingue — "sa" che il cuore è il centro degli affetti, che il sangue è la forza vitale, libidica, che le ossa sono il limite della nostra realtà umana, che il fegato è legato al coraggio, e così via.
Anzi, si può dire che, nell'inconscio, il cuore è il centro degli affetti, il sangue è la forza vitale e così via, in quanto, dove non esistono i legami spazio-temporali, due cose che hanno lo stesso significato sono la stessa cosa. Così è l'inconscio stesso a parlare tramite il corpo, del tutto analogamente a come si esprime attraverso i sogni, i lapsus, gli atti mancati. O, ancora meglio, in una visione sincronica della realtà, è, il corpo stesso, inconscio che si esprime... la materia non è altro che un in-conscio che ha preso forma...
Possiamo anche vedere il corpo come una tastiera in cui ogni nota (organo, funzione, apparato) ha il suo ruolo irripetibile, pur nel destino comune con tutte le altre: può suonare in perfetta sintonia con l'insieme oppure prendere il sopravvento e "dire" prepotentemente "la sua".
Si tratta allora di qualcosa che rompe il ritmo, l'armonia precedente, comunicando con forza l'esigenza di un mutamento, di una trasformazione nell'equilibrio del tutto.
Il momento di impasse può essere brevissimo, qualora l'ascolto interiore sia molto attento, pronto a cogliere il primo segnale e a cambiare il passo, ad adeguare il ritmo. A volte invece esiste un vero e proprio gap, una sordità ai messaggi dell'inconscio-corpo, che impedisce il compiersi della metamorfosi, o meglio che non la "vede", non riesce a prenderne coscienza.
Comprendere il messaggio di questa "nota stonata", del sintomo, integrare nell'insieme anche la nuova esigenza, è il solo modo per andare avanti, per guarire. E non è che la malattia sia qualitativamente diversa dalla salute, poiché la vita è comunque un cambiamento continuo. Infatti, nell'universo tutto cambia, e nemmeno la vita sfugge a questa legge di incessante mutare, con l'unica differenza che essa Io fa nel tentativo di rimanere uguale a se stessa.
Ovidio fa coincidere le sue Metamorfosi con particolari eventi in cui l'idea della morte si accompagna loro più o meno implicitamente e in sordina. Morire è infatti l'ultima trasformazione, la più radicale, che avviene, si può dire, quando tutte le altre possibili trasformazioni hanno fallito. Infatti cambiare, adeguarsi continuamente alla realtà, pur mantenendo la propria identità, è l'unico modo di sopravvivere, l'alternativa vera alla morte.
Come in ogni altro organismo vivente, anche nell'uomo esiste una sequenza metamorfica comune, del tipo infanzia - giovinezza - maturità -vecchiaia, e una individuale rappresentata dal modo con cui ognuno consuma il proprio destino, compresa la scelta di ammalarsi.
Pensiamo ora di avere una moviola magica, una specie di ritratto di Dorian Gray accelerato, che ci permette di vedere nello spazio di pochi minuti i mutamenti somatici che avvengono in un certo individuo dalla sua nasci-ta alla sua morte, come in quei filma-ti che riproducono in maniera molto accelerata lo sbocciare o l'appassire di un fiore.
Questo filmato ipotetico rappresenta un messaggio, una comunicazione visiva condensatissima che contiene, in ogni fotogramma il resoconto di tutte le "passioni" ovvero di tutte le vicende, di tutti i fatti vissuti fino a quel momento.
Se noi consideriamo il corpo nella sua interezza ci rendiamo conto che il messaggio della nostra fantastica moviola, se pur ricco e condensato, altro non è che il pallido riflesso della infinita complessità e varietà di ciò che il corpo racconta in ogni momento della sua esistenza. Molto spesso questo aspetto comunicazionale implicito della nostra corporeità ci sfugge proprio per la sua enorme complessità, nella quale temiamo di perderci. È quanto succede quando ci ammaliamo: l'emergere di un sintomo sta a testimoniare uno iato più marcato fra un momento esistenziale e un altro, una transizione più difficile da effettuare, una presa di co-scienza più tormentata. Talvolta lo iato può durare tutta la vita, come nelle malattie croniche: la persona può non accorgersi mai di quanto le sta accadendo, rimanendo sorda a tutti i messaggi del corpo, il quale, da parte sua, non sa però tacere, rimanere fermo, e continua nella sua metamorfosi, disarmonica o meno. Oppure, magari con l'aiuto della realtà o di un terapeuta, che funzioni da feed-back, da specchio, e le riproponga quei mutamenti che essa da sola non riesce a vedere, la persona può prendere coscienza, come è successo a Roberta.
I putridi desideri inconfessati
Roberta soffre da anni di stipsi e alitosi, inoltre un incessante "mal di reni" la tormenta senza tregua. Al tera-peuta, che le chiede di descrivere con parole sue quello che le sta succedendo, dice: «È come se avessi dentro qualcosa di putrido, di marcio» e ancora «devo portare sulla schiena il peso di questa situazione» (l'insoddisfacente rapporto con il marito). Dalla sua storia emerge che un inconscio senso di colpa l'ha costretta a rinunciare alla storia d'amore della sua vita e a sposarsi, come voleva il padre, con un uomo per cui nutre un affetto profondo ma di tipo fraterno. La sua vita matrimoniale è una continua, inconscia, mortificazione dei suoi desideri sessuali, che in un colloquio successivo definisce "putridi". In concomitanza con l'avvio del processo introspettivo di Roberta e quindi della sua emancipazione, Il marito supera le ultime esitazioni interiori e si innamora, spiccando il volo verso la propria indipendenza e rompendo il legame collusivo con la moglie. Con l'appoggio del terapeuta, Roberta riesce a superare il terribile momento di crisi e a comprendere che in realtà una parte di lei, fino allora negata e tenuta rinchiusa, corre veramente il rischio di "marcire", di "imputridire", come stanno a testimoniare alitosi e stitichezza. Emerge cosi, nel corso della terapia, il comando implicito edipico e paradossale del padre di Roberta: «sposati pure, ma, poiché io non ti potrò mai avere, non innamorarti mai». Roberta si era rassegnata a non cambiare, a non accettare di essere diventata donna, abdicando a una parte importante del suo Eros.
La paura di volare, rinforzata dal comando paterno l'aveva inchiodata in un destino spento e sofferente ed essa portava il suo fardello dentro di sé, sulle proprie reni, nel proprio intestino, gemendo con tutto il corpo e manifestando con la sua alitosi i suoi occulti, inconfessabili "putridi desideri". Aveva trovato la possibilità di continuare a negare la sua mutata realtà — da bambina a donna —scegliendo un uomo che aveva nei suoi confronti un affetto fraterno. Ma, quando il marito rompe la collusione, essa si trova nelle condizioni di un paracadutista costretto a gettarsi dall'aereo da un sergente poco riguardoso. A questo punto Roberta può scegliere: o morire o accettare l'intervento del terapeuta: aprire il paracadute e vivere la propria essenza di donna, il proprio desiderio di innamorarsi. Sceglie quest'ultima strada e si innamora anch'essa, portando a termine con un'altra persona l'interrotta storia d'amore della sua adolescenza, mentre i suoi rapporti con il marito acquistano quella dimensione profonda e fraterna che ne costituisce la vera sostanza. Contemporaneamente, il suo quadro clinico migliora improvvisamente: la stipsi e l'alitosi scompaiono, e il dolore lombare diminuisce radicalmente di frequenza e di intensità. In questo caso il cambiamento esterno infrange il mondo torturato della paziente, mentre la guida terapeutica le permette di accorgersi della sua realtà da tempo mutata, di prendere coscienza di quella metamorfo-si che aveva tentato fino a quel momento dì nascondere a sé stessa. Possiamo dire più in generale che essere malati equivale a essere incapaci di seguire la propria evoluzione psicofisica, di "leggere" i messaggi del corpo-inconscio. Sembra però che, come nel caso di Roberta, la malattia abbia anche un significato di gestazione di faticosa preparazione al momento in cui è possibile "spiccare il volo". Guarire e innamorarsi sono stati per Roberta, come sempre accade, due aspetti della stessa medaglia, della stessa realtà interiore, tesa verso una continuità di comunicazione a se stessa della propria evoluzione personale, della propria profonda dinamica di identità.
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