Ipnosi Regressiva. Odissea fra le vite
L’ipnosi regressiva
Tale tecnica è diffusa su scala ben maggiore negli Stati Uniti, dove esiste una letteratura specializzata che ha fatto breccia anche nel nostro Paese, grazie alle opere di autori divenuti presto noti non solo al pubblico specializzato, quali Brian Weiss, Raymond Moody, Jim Tucker, Carol Bowman, Joel Whitton e Joe Fisher.
L’ipnosi, lungi dall’essere una pratica sciamanica o misterica, è un semplice stato di coscienza “alternativo”, una condizione di mirata concentrazione e al contempo di profondo rilassamento, che può tradursi in uno stato di trance più o meno profondo. Mediamente, solo due o tre persone su dieci riescono ad entrare in una trance profonda, spettacolare, e priva di ricordi al “risveglio” come quella troppo spesso pubblicizzata nei film e negli show televisivi; ma è sufficiente un grado di trance media (ottenibile dal 60 per cento delle persone) per accedere alla visualizzazione spontanea di memorie o immagini.
A partire da questo stato mentale, l’ipnosi regressiva consente l’emergere di ricordi altrimenti nascosti che possono far luce sul passato dell’individuo. Tali ricordi possono risalire sino al periodo della prima infanzia, o andare ancora più indietro, permettendo di tornare alla vita intrauterina, o addirittura a ipotetiche vite precedenti.
Benchè l’ipotesi della reincarnazione sia sostenuta da molte religioni o dottrine filosofiche, in primis induismo e buddhismo – e pare che lo stesso cristianesimo la ammettesse, fino al Concilio di Nicea del 325 d.C. – non è certo scopo di questo libro fare proselitismi in favore o contro tale weltanschauung.
Come psicologo, mi limito a rilevare, in primo luogo, che tale tecnica ha il vantaggio di coniugare la ricerca individuale di scoperta di sé, a cui la psicologia cerca di dare risposte, con l’altrettanto nobile aspirazione alla spiritualità presente in ogni uomo, anche se spesso rimossa nell’odierna società individualistica e consumistica.
In secondo luogo, non ho alcuna pretesa di affermare la veridicità delle ipotetiche vite precedenti che emergono durante l’ipnosi (anche se alcuni pazienti assicurano di aver trovato riscontri concreti a conferma dei loro ricordi): mi contento di dire che, anche se le presunte esistenze pregresse fossero solo delle simbolizzazioni metaforiche delle esperienze infantili vissute dalla persona ipnotizzata, ciò non muta il potenziale terapeutico di tali visualizzazioni.
Ciò che conta è, per il paziente, dare risposta alle difficoltà del presente trovando un senso o una spiegazione che ne collochi la radice nel passato, che permetta di inserirle in un disegno esistenziale più ampio: cambia poco che tutto ciò avvenga in un piano reale o simbolico.
Non è importante decretare se quanto evocato dal paziente sotto ipnosi sia una verità storica o una simbolizzazione del passato della vita presente: è una questione di fede, di scelte! Si può credere nella reincarnazione come scelta fideistica, o si può pensare che anche i racconti di chi, in ipnosi, asserisce di ricordare delle vite precedenti, siano solo racconti simbolici, metaforizzazioni dell’infanzia. Non importa, va bene lo stesso! Non cambia nulla che si tratti di vite anteriori o, piuttosto, di vite interiori! Provengono comunque dall’interiorità dell’individuo, dalla sua psiche, da quella che una volta non si aveva paura di chiamare anima! L’importante è che evocare quelle immagini funziona, porta luce interiore, porta benessere!
In effetti, è assolutamente evidente che tutte le esperienze che, in ipnosi, vengono fatte risalire alle vite precedenti, hanno un legame inscindibile con il presente individuale: ma questo può essere considerato sia come una prova a favore dell’ipotesi meramente simbolica delle “esistenze pregresse”, sia come un implicito sostegno alla teoria indo-buddhista del karma, secondo cui tutto ciò che ci accade nel presente è il risultato delle nostre azioni passate, e i dolori che sopportiamo non sono altro che il faticoso tentativo di assimilare lezioni di vita che in passato non siamo riusciti ad apprendere.
E proprio la necessità di capire quali lezioni doveva ancora imparare, qual era il senso di certe sue sofferenze, è stata la molla che ha spinto la paziente di cui si parla in questo libro a chiedere di approfondire la conoscenza di sé proprio grazie all’ipnosi regressiva.
Una delle esperienze più entusiasmanti che, come ipnologo, ho potuto vivere, si è imperniata intorno a un ciclo di sedute di ipnosi a cui si è sottoposta una donna, che ho ribattezzato “Odissea”; ciò, sia perché il suo viaggio fra le diverse esistenze da lei rievocate ha presto assunto i connotati di un drammatico ritorno verso le proprie origini e verso se stessa, sia perché certi tratti caratteriali emersi come denominatori comuni a molte delle sue personalità precedenti, ne fanno a buon diritto un novello Ulisse al femminile.
La storia di Odissea
Conobbi Odissea quando avevo cominciato già da diverso tempo ad approfondire le potenzialità terapeutiche dell’ipnosi regressiva. Avevo sperimentato prima su me stesso un percorso di guarigione quanto meno singolare, se non apertamente straordinario, e avevo poi iniziato ad applicare questo metodo anche sui pazienti che ne facevano richiesta, riscontrando ottimi risultati.
Odissea sembrava molto incuriosita dalla possibilità di esplorare le proprie vite precedenti: la conobbi proprio in occasione di un corso di visualizzazione regressiva di gruppo, che sono solito tenere per avvicinare alle tematiche della regressione e della reincarnazione le persone che ne sono attratte, ma che sono ancora troppo timorose o titubanti per chiedere una seduta individuale. Odissea, oltretutto, era mortificata, o francamente infastidita, dal fatto che negli incontri di gruppo non fosse mai riuscita ad accedere a visualizzazioni soddisfacenti. Eppure i problemi da risolvere non le mancavano: più parlavo con lei, più mi rendevo conto che non era semplice curiosità quella che la spingeva a chiedere di poter ricordare le proprie vite anteriori; era piuttosto il sincero desiderio, o addirittura il pressante bisogno, di risolvere delle problematiche che forse non osava ammettere neppure a se stessa.
Odissea si presentava come una donna di una cinquantina d’anni, sposata e apparentemente realizzata nella vita, sia dal punto di vista affettivo che professionale, capace di coniugare una pragmatica concretezza con un vibrante anelito spirituale. Apparentemente, quindi, non c’erano particolari disagi nella sua vita. Eppure avvertivo un malessere serpeggiante dietro la scusa, quasi banale, che mi portava come per giustificare la sua richiesta di regressione: mi parlava, infatti, dell’emergere di una confusa difficoltà relazionale che avrebbe provato nei confronti del marito.
Analizzando la storia pregressa di Odissea, tuttavia, mi sembrava che il presente delle sue vicissitudini affettive fosse molto più roseo rispetto al passato. La donna era infatti arrivata al matrimonio in età non giovanissima, dopo una serie tutt’altro che felice di traversie sentimentali, fra le quali poteva tristemente annoverare una lunga serie di tradimenti subiti, di relazioni intraprese con uomini che si rivelavano essere già impegnati, di amori giovanili terminati drammaticamente.
Il matrimonio con Giulio, avvenuto dopo un lungo periodo di tentennamenti, sembrava invece aver portato, pur con i normali alti e bassi della vita coniugale, una serenità prima sconosciuta nella vita di Odissea, una serenità che non si era mai trasformata in autentica gioia forse solo per il mancato coronamento della vita di coppia in vita genitoriale: Odissea non aveva mai avuto la felicità di diventare madre, e attribuiva parte della causa del suo disagio di coppia proprio a questo motivo, nonché al timore di restare incinta ad un’età non più verdissima: “ho 50 anni – mi confidava mestamente – e un bambino ha bisogno di una mamma, non di una nonna”.
Eppure le occasioni per diventare mamma non le erano mancate: per ben quattro volte Odissea era rimasta incinta, nel corso degli anni, ma tutte le gravidanze si erano tristemente concluse con degli aborti spontanei.
Questo sicuramente era un dato quanto meno insolito, che meritava di essere approfondito proprio con l’ipnosi regressiva. Ma c’erano dei drammatici antecedenti anche nell’esistenza attuale: infatti, già nella giovinezza della vita presente, Odissea aveva dovuto affrontare un aborto. Stavolta si era trattato di un’interruzione “volontaria” di gravidanza, un’interruzione a cui, in realtà, era stata costretta.
Odissea, all’epoca, viveva in un piccolo paese delle campagne dell’Italia settentrionale, e, a 19 anni, stava iniziando a conoscere le gioie dell’amore. Non era un’esperienza facile per la ragazza di allora, visto che il padre, un uomo burbero, possessivo, manipolatore, le impediva di fatto ogni uscita: “mio papà non voleva che frequentassi persone dell’altro sesso: le ragazze che si vedevano con gli uomini erano considerate da lui praticamente alla stregua di prostitute”.
Ma all’amore, si sa, non si comanda, e nemmeno i divieti paterni possono arginare la forza dei sentimenti. Odissea ebbe così il suo primo ragazzo, Roberto, un giovane che lei adorava, e con il quale sperimentò per la prima volta anche la potenziale gioia dell’unione fisica; ma quella che avrebbe potuto essere una delle esperienze più felici e coinvolgenti della vita di Odissea si tramutò repentinamente in dramma. La giovane restò infatti immediatamente incinta e Roberto, saputo dello stato interessante della sua ragazza, non esitò un attimo ad attuare uno dei comportamenti più nefandi che un uomo possa compiere nei confronti della propria “amata”: la abbandonò, scrollandosi semplicemente dalle spalle tutte le sacrosante responsabilità a cui la paternità l’avrebbe chiamato.
Odissea viveva in un tempo e in una cultura contadina, bigotta, dove non c’era nemmeno lo spazio mentale per immaginare analisi genetiche per determinare scientificamente la paternità del nascituro: “il paesino dove vivevo era minuscolo – si lamentava la donna – e tutti avrebbero parlato male di me, accusandomi di essere una poco di buono”. Naturalmente questa era una situazione che il padre della 19enne Odissea non poteva tollerare: dimostrandosi una volta di più un padre-padrone, la costrinse all’aborto. Obbligò la giovane figlia non solo a perdere il bambino, ma implicitamente, a portarla a realizzare la profezia genitoriale più volte vaticinata dall’uomo che, quasi a lanciare un macabro anatema, ripeteva come un mantra ossessivo che “le ragazze che escono con gli uomini sono tutte puttane”.
Il padre continuò a tentare di manipolare Odissea e di dirigerne la vita fino a quando non incontrò la morte, che lo colse quando la figlia aveva da poco compiuto 25 anni; nemmeno un anno dopo, Odissea, finalmente libera, lasciò la casa genitoriale e andò a vivere da sola, stavolta sconfiggendo le dicerie di paese che ritenevano perlomeno poco opportuna una simile scelta di vita da parte di una giovane non sposata e nemmeno fidanzata.
Catastrofe a Santorini
Nel corso di diversi mesi di ipnosi, Odissea aveva rievocato molteplici esistenze passate, tutte intrecciate con la storia del suo presente. Il resoconto dettagliato è riportato fedelmente nel libro di Andrea Napolitano (2011) Odissea fra le Vite, Padova: ed. Il Torchio, presto reperibile anche presso la libreria Feltrinelli di Padova.
Durante le molte regressioni, Odissea aveva perdonato il padre e stava cominciando a perdonare se stessa. Non era un percorso facile: dentro di sé celava peccati, o presunti tali, per i quali era terribilmente difficile assolversi. Era purtroppo più facile, per Odissea, rodersi in un intenso senso di colpa entro il quale stava inconsapevolmente annegando.
E proprio la scena di un possibile annegamento fu quella che si presentò per prima, in una delle regressioni che si rivelò essere risolutiva: “Sono distesa su una spiaggia”, ansimò Odissea; “faccio fatica a respirare, le onde marine sferzano il mio corpo, l’acqua mi entra nel naso. Può darsi che stia per morire, anzi… sento che la morte sarebbe un sollievo!”.
“Come sei arrivata fin qui? Qual è il tuo nome?”, la interruppi. “Non so”, si lamentò; “Non ricordo… non ricordo niente”.
La invitai ad approfondire la trance e a regredire fino al momento in cui quella disavventura aveva avuto inizio. “C’è acqua, acqua dappertutto! È una tragedia!”, urlò Odissea. Si stava vedendo nei panni di una donna che stava invocando angosciosamente il proprio Dio perché la salvasse da un’immane e imminente catastrofe.
La donna stava per essere inghiottita dai flutti. Le chiesi di tornare ulteriormente indietro nel tempo, anche solo di poche ore, per circostanziare meglio la situazione. “Mi trovo in un’isola”, spiego Odissea: “Un’sola che ora dicono essere Santorini; il sole si è improvvisamente oscurato, si è eclissato dietro una nube nera. Il mare, come impazzito, si riversa sulle terre e sulla città. Mio marito… mio marito viene portato via dalle onde…”.
La tragedia di Santorini è un fatto storicamente avvenuto: nel 1627 avanti Cristo, l’isola, nel cuore del Mediterraneo, fu squassata dalla più violenta eruzione vulcanica mai registratasi in Europa; l’eruzione fece parzialmente affondare l’isola, ponendo fine a una civiltà che si dice essere stata progredita e fiorente.
Odissea stava rivivendo quel dramma: fra le lacrime, la donna non poté far altro che osservare il mare portarle via il suo compagno, corrispondente al suo attuale marito, vanamente salito al di sopra dei gradoni di una costruzione simile ad una piramide. Ma non era tutto: “Mio figlio! Mio figlio!”, gridò disperata; “L’acqua me lo sta strappando dalle braccia! Non riesco a tenerlo con me, non riesco a salvarlo!”.
Era la prima volta, in tutte le vite passate finora rievocate, che Odissea percepiva se stessa nel ruolo madre. Purtroppo, però, subito dopo aver assistito inerme alla morte di suo marito, fu costretta a vedere anche il suo bambino di quattro anni annegare inesorabilmente fra i flutti.
La donna era ormai rassegnata al peggio anche per se stessa. Anzi, anelava la morte: “Non sono riuscita a salvare mio figlio. Voglio morire anch’io! Che senso potrebbe mai avere sopravvivere?! Voglio tornare dal mio bambino, da mio marito! Voglio annegare!”.
Un destino beffardo o clemente decise però per un finale diverso. Probabilmente la donna finì con l’aggrapparsi, grazie ad un inconsapevole istinto di sopravvivenza, ad un qualche relitto galleggiante che la depositò sulle rive di una terra lontana: nei suoi ricordi, forse distorti, venne “salvata da una figura luminosa, forse un angelo”. In realtà, la donna era stata colta da amnesia, come conseguenza dello shock subìto.
Ritrovata distesa e svenuta sull’arenile, fu accolta da una famiglia di contadini. Solo nel tempo avrebbe potuto recuperare la memoria: “Il mio nome è Electra. Io e mio marito facevamo parte della famiglia regnante di Santorini; insieme avevamo voluto restare nell’isola, nonostante buona parte della popolazione fosse fuggita, perché in qualche modo consapevole del disastro imminente”.
Effettivamente, pare che trascorse del tempo fra l’iniziale pioggia di pomici e ceneri, e la successiva esplosione del vulcano: può essere che, in questo intervallo, qualche abitante dell’isola avesse provato a mettersi in salvo, anticipando ciò che Wikipedia descrive come “un getto di materiali compressi e di gas surriscaldati [che] raggiunse la stratosfera ad una velocità di 2000 Km/h facendo udire i suoi boati dall’Africa alla Scandinavia, dal Golfo persico a Gibilterra. Le ceneri furono sparse per molti chilometri e trasformarono il giorno nella notte più cupa e alterarono, probabilmente, albe, tramonti e condizioni meteorologiche”.
Electra raccontò di una civiltà evoluta, in cui la gente viveva pacificamente coltivando la terra, grazie a terrazzamenti a gradoni irrorati da un complesso sistema di irrigazione. La donna riportò altresì di maestose cascate artificiali che bagnavano lastroni di marmo disposti in modo da far defluire l’acqua nelle direzioni desiderate. “L’agricoltura era regolata anche dall’attento studio delle stelle, di cui tutta la mia gente si faceva un vanto. Un complesso sistema di rifrazione della luce del sole, che si rifletteva su colonne o piramidi di cristallo, permetteva di aumentare la luminosità dell’astro per illuminare meglio le zone del centro abitato e per accrescere la fertilità della terra. Chissà se è stato proprio l’eccessivo sfruttamento della terra a causare il disastro”, si dolse Electra, tentando di dare una qualche spiegazione all’arcano disastro che lei e il suo popolo avevano dovuto subire.
La donna, dopo la catastrofe, sarebbe rimasta fino alla morte con la famiglia di contadini che l’aveva accolta, probabilmente sulle coste africane. “Ormai sono vecchia, sento le forze mancarmi. Finalmente arriverà anche per me l’agognata fine… Ho passato tutti i miei ultimi anni, questi anni lunghissimi e desolati, cercando di spiegare alla popolazione rurale che mi ha ospitato le mie nozioni di agricoltura e di astronomia. Poter tramandare qualcosa del mio passato, delle mie conoscenze, mi ha aiutato a trovare la forza per sopravvivere. Ma il cuore della mia vita è rimasto grigio, segnato per sempre dalla morte del mio bambino: mio figlio Abram era nato dopo diverse gravidanze non portate a termine, e la sua nascita era stata motivo di grande gioia per me e mio marito”.
Electra non aveva mai più saputo darsi pace per la sua perdita: “Una buona madre non si lascerebbe mai strappare dalle braccia un figlio, nemmeno dalla forza di un mare impazzito e in tempesta”.
La donna era rimasta talmente sconvolta da lasciarsi andare a un terribile voto: “Ora, benché sia ormai anziana, ricordo bene i tragici momenti successivi a quelli in cui Abram si è inabissato. Non solo volevo morire, ma ho giurato a me stessa che, se disgraziatamente fossi sopravvissuta, non avrei mai più avuto nessun altro figlio, per non provare più un dolore simile! Non voglio più essere madre, non ne sono degna! Come può essere una buona madre colei che lascia morire il proprio figlio?! Mai più, mai più! Ogni giorno che sopravvivo rinnovo a me stessa questo giuramento!”.
Questo impegno drammatico e triste fu portato avanti dall’anima di Odissea anche in tutte le sue vite successive, visto che in nessun’altra regressione la donna si era mai visualizzata come madre o padre.
Riflettei che solo l’attuale consapevolezza avrebbe potuto portare Odissea a capire che la morte non è mai veramente una fine, che ci sono dei fili invisibili che permangono e che mantengono unite le persone o le anime; quel figlio che lei aveva perso e che non avrebbe più voluto mettere al mondo avrebbe incrociato nuovamente il suo destino con quello dell’anima di Odissea, facendole, in vite successive, da maestro, sacerdote, mentore: solo ora Odissea riconosceva la sua presenza anche in alcune delle esistenze che aveva precedentemente rievocato.
Ma quel che mi colpiva, e che trovavo singolare se non mirabilmente paradigmatico, era soprattutto il parallelismo fra la vicenda raccontata da Odissea e da lei attribuita alla vita a Santorini, e quanto accaduto nella giovinezza della vita attuale della donna: a 19 anni, infatti, Odissea era rimasta incinta, e non aveva saputo combattere a sufficienza per tenere con sé quel figlio, strappatole via dai flutti della vita, impersonati dal padre che l’aveva costretta ad abortire, allo stesso modo in cui Abram le era stato strappato via dalle onde.
Ora come allora, Odissea si era sempre colpevolizzata per la perdita di quel bambino e inconsciamente aveva rifiutato di averne altri, tanto che tutte le successive gravidanze si erano interrotte per cause “naturali”. Forse solo ora, con la consapevolezza da poco maturata relativamente al fatto che nessuno davvero muore mai né mai si separa dalle persone amate, Odissea avrebbe potuto perdonare se stessa e pensare, in un futuro più o meno lontano, di sciogliere il suo antico giuramento e di permettersi di avere un figlio.
Un primo passo verso il perdono di se stessa fu la giusta redistribuzione delle responsabilità. Non solo la diciannovenne Odissea non aveva certo deciso da sola di restare incinta, ma di tutto si poteva parlare, fuorché di una decisione consapevole. Anzi, non c’era stata nessuna decisione, nessuna volontà. La verità era ben altra: “Ho 19 anni; io e Roberto siamo a casa da soli. Lui mi bacia, mi piace come mi bacia… Ma poi mi prende, mi sbatte sul letto quasi con forza. Cosa sta facendo?! No, non così, non così!”.
Odissea era stata stuprata – finalmente lo poteva ammettere – dal fidanzato dell’epoca. Era la prima volta che riusciva a confessarlo, forse anche a se stessa. E come ogni confessione, anche questa esigeva un’assoluzione. Non tutte le colpe erano di Odissea. Non tutte le colpe erano di Electra. Ora Odissea poteva cominciare a perdonarsi.
Un bianco fra i pellerossa
Perdonarsi non è però un compito facile. Odissea visse numerose altre esperienze ipnotiche. La toccò, in particolare, un’esperienza di progressione spontanea in un futuro caratterizzato da freddezza, vuoto emotivo, che l’aveva molto turbata.
“Non ce la faccio più”, sbottò un giorno Odissea, “Voglio tornare lì!”.
Odissea mi stava chiedendo con insistenza di tornare a vedere l’esistenza “futura” da lei visualizzata. Era spaventata, sbigottita da quella vita apparentemente priva di sentimenti, dove tutto appariva grigio e asettico.
Speranzoso che le ultime regressioni avessero potuto contribuire a cambiare qualcosa, provai a condurla in una trance progressiva, ma il risultato fu sorprendente: Odissea si ritrovò in uno stato paragonabile a quello di Bardo, una condizione di esistenza celeste e disincarnata, collocabile fra due vite terrene. In questo stato osservò se stessa maneggiare un cristallo luminoso, simile a quelli che, nella sua vita a Santorini, aveva visto rifrangere la luce solare.
Forse per Odissea quella pietra luminescente poteva essere il simbolo di un’illuminazione interiore? Di qualunque cosa si trattasse, la luce emanata dal cristallo fu per lei come un portale che la scaraventò immediatamente e inaspettatamente nel passato, in un’esistenza collocabile fra il 1600 e il 1700: “Sono un uomo di oltre una quarantina d’anni; porto una folta barba nera che tende ormai al grigio. Vivo nel nord America, e, per vivere, commercio pelli”.
Odissea vide quell’uomo scendere con una canoa lungo un fiume: “Mi pare si chiami River Creek”, propose, forse senza nemmeno sapere che diversi fiumi portano davvero quel nome fra il Colorado e il Texas. “La vendita del pellame procede, come sempre, senza intoppi, sto facendo buoni affari”. Le cose però non sembrarono andare altrettanto lisce quando l’uomo entrò in un saloon per bere qualcosa: “Vedo venire verso di me un energumeno alticcio e iracondo; capisco che mi vuole aggredire, e preferisco andarsene per evitare la rissa”.
“Come mai voleva prendersela con te?”, sondai. “So che quell’uomo mi odia da tempo; mentre esco dal saloon, lo sento ringhiare alle spalle: ‘Vattene, amico degli indiani!’”.
Chiesi a cosa si riferisse quell’appellativo, e Odissea rispose rivivendo la giovinezza di quella sua vita trascorsa nel West: “Sono un bambino, e vivo con i miei genitori in una piccola fattoria vicina ma non troppo all’insediamento dei bianchi. Mio padre non va molto d’accordo con loro, e frequenta molto più volentieri l’accampamento degli indiani, dai quali siamo ugualmente distanti. Più cresco, più mi rendo conto che mio padre ha ragione, e che anch’io mi trovo meglio con gli indiani. Mi piace il loro stile di vita, il loro fare le cose insieme, lo spirito di gruppo quando vanno a caccia, il rapporto d’amore che hanno con la natura e con la vita. Nel paese dei bianchi, invece, mi pare che tutti pensino solo a fare soldi, ad ubriacarsi, a cercare la rissa”.
Dopo aver rievocato la propria infanzia, Odissea tornò velocemente a quando, in quella vita, aveva già passato i quarant’anni: dopo essere sfuggito alla provocazione dell’energumeno del saloon, si stava dirigendo al villaggio indiano. Lì era ben accetto, tutti lo conoscevano da quando era piccolo, e c’era qualcuno in particolare che lo stava attendendo con trepidazione; si trattava di una splendida ragazza: “non avrà forse neppure 18 anni, è bellissima, e io sono innamorato di lei!”. “E lei ricambia il tuo sentimento?”, domandai. “Sì”, fu la risposta accompagnata da un vago rossore; “E anche i suoi genitori sono d’accordo con la nostra unione. Presto ci sposeremo!”.
Odissea raccontò delle nozze e della felicità da novelli sposi vissuta con la sua donna. Una felicità che trovò il suo coronamento in un evento tanto naturale quanto inaspettato: la giovane donna partorì un bimbo!
Rimasi sconvolto: era la prima volta, in una serie di esistenze che copriva un arco temporale di oltre 3.500 anni, che Odissea mi raccontava della nascita di un suo figlio!
Ma non c’era gioia nelle sue parole: “Osservo la mia giovane sposa felice col suo bambino in braccio; la amo, e so che dovrei provare qualcosa anche per lui, ma non ci riesco. Lo guardo con distacco, non lo sento mio, non lo voglio sentire mio! Anzi… mi sento in colpa! Ma perché?!”.
Incapace di sopportare la vista di quel bambino, l’uomo montò rabbiosamente a cavallo. Gettò un ultimo sguardo alla sua sposa, presagendo che avrebbe potuto essere l’ultima volta che la vedeva, e poi scappò, in direzione del paese dei bianchi. Poco prima di arrivarvi, vide, lungo il fiume, un piccolo assembramento: “Ci sono diversi uomini bianchi, fra cui il tizio nerboruto che aveva cercato la rissa con me al saloon; se la sono presa con un giovane indiano… l’hanno picchiato a sangue… l’hanno ucciso!”.
Odissea era visibilmente inorridita alla vista del giovane trucidato. “Cosa gli hanno fatto?! Come hanno potuto?!”. Ma non era finita. “Sento i bianchi dire, guardando nella mia direzione: ‘Ecco un altro di quei bastardi!’. Si stanno avvicinando a me, la loro aria è minacciosa, le loro intenzioni chiaramente bellicose”.
Nonostante l’evidente pericolo, l’uomo non fuggì, non andò a chiedere aiuto, a chiamare rinforzi. Scese da cavallo. Forse ne era quasi consapevole: era la morte ciò che anche lui cercava. E la morte non tardò a venire, per mano di quegli assassini dalla pelle bianca.
Odissea non capiva ancora perché aveva cercato la morte, né perché la nascita di suo figlio l’aveva fatta sentire così in colpa. “Forse è perché hai tradito un giuramento”, suggerii. “Santorini!”, esclamò, rendendosi conto della situazione. “Proprio così”, rimarcai; “E non è certo un indizio casuale il cristallo che avevi visualizzato all’inizio della trance. Dopo la perdita di tuo figlio in quell’esistenza, avevi giurato di non mettere più al mondo alcuna creatura. Con l’aver generato un figlio, alla tua anima è sembrato di venir meno a quel giuramento, di aver mancato all’amore che dovevi a quell’unico figlio al quale volevi continuare a sentirti legata. E questa morte, così simile a un suicidio, così pregna di tanti sentimenti di rimorso e di autoaccusa, spiega anche la vita cronologicamente successiva: quella di Bernadette, chiusa nel suo guscio, incapace di amare e di osservare il mondo e la sua luce. Ma tu ora sai, Odissea, che nessuno muore davvero mai, che ogni anima sopravvive e si evolve, che i fili luminosi che legano coloro che si amano non si spezzano davvero mai, che ogni apparente tragedia è progettata dall’Amore Cosmico, è guidata dall’invisibile mano di Dio, dell’Assoluto, dell’Uno, comunque ti piaccia chiamarlo. Ora che sai tutto questo, puoi smetterla di colpevolizzarti per la vita di Electra a Santorini, per non essere riuscita a salvare tuo figlio Abram. Nessun braccio di madre può essere più forte della furia degli elementi, della rabbia di maremoti ed eruzioni, del disegno divino che ancora non sappiamo comprendere. Ora che lo sai, puoi perdonarti, liberandoti da quel giuramento e dal suo karma. Dì che ti perdoni!”.
“Non ci riesco”, balbettò Odissea in lacrime, “non ne sono capace”.
“Certo che ne sei capace!”, affermai: “Ora sei molto più consapevole di come si dipana il disegno universale!”. Sul volto di Odissea scese una lacrima, ma le sue labbra non accennarono a muoversi. Capii che il momento era cruciale, e insistei: “Perdonati, Odissea! Pensa che forse stai decidendo ora il tuo futuro: se non ti perdonerai, andrai davvero incontro a una vita futura asettica, priva d’amore, grigia, come quella che hai visualizzato; forse quella è solo una possibilità di vita! Forse, se sceglierai il perdono di te stessa, ti si schiuderà una possibilità completamente diversa, all’insegna del colore e dell’Amore!”
“Dì che ti perdoni!”, continuai, anche di fronte all’addolorato silenzio che sembrava l’unica risposta di cui Odissea fosse capace. “Anche se non ci credi del tutto, dillo! Lascia fluire le parole anche se non hai piena fiducia in loro! Pensa che anche la parte spiritualmente più evoluta di te non aveva certo piena fede nel giuramento fatto millenni or sono con cui t’impegnavi a non avere più figli, e ciò nonostante quelle parole sono state sufficienti a impedirti di avere altri bambini per tutto questo tempo! Lascia allora che altre parole, a cui analogamente dai ora poca fede, sanino la ferita di quell’antico giuramento: queste nuove parole saranno come un seme che germoglierà dentro di te nel tempo, permettendoti di acquisire pian piano fiducia in loro, e producendo comunque effetti positivi”.
Le labbra di Odissea finalmente cominciarono a muoversi, quasi insicure su cosa dire. Poi, un filo di voce, quasi un sussurro, sancì la liberazione da un karma ormai troppo pesante. “Mi perdono”, disse Odissea, e un pianto sommesso e liberatorio sottolineò la catarsi.
Odissea aveva scoperto il sentimento di cui non voleva o non riusciva a parlare, che era incapace di descrivere, esattamente come l’ominide scampato all’eruzione vulcanica nella vita precedente, il quale non era in grado di parlare di emozioni per lui ancora troppo complesse. Il sentimento finora taciuto da Odissea era il senso di colpa, l’incapacità e al tempo stesso il profondo desiderio di perdonarsi.
Ora tutto questo non aveva più motivo di tormentarla. Il senso di colpa, il giuramento ingiusto erano stati sciolti dal peso di nuove parole, di parole di perdono che dopo secoli e secoli Odissea aveva trovato il coraggio di pronunciare. Non era più un ominide privo di parola. Odissea poteva finalmente parlare liberamente dei suoi sentimenti, poteva abbandonare vecchie terre o vecchie abitudini per veleggiare verso nuovi territori dell’anima. Poteva lasciare il mondo infernale di un giuramento iniquo per approdare alle terre del perdono. Poteva insegnare agli altri, ora che l’aveva finalmente appreso, il potere dell’amare e del perdonarsi. Il suo futuro non era più quello vuoto e asettico che aveva visualizzato poche sedute prima: era transitata attraverso un bardo che le aveva trasmesso la necessità di riconnettersi simbolicamente a un’antica e preziosa luce smarrita a Santorini, per sostare poi in un passato che le aveva rammentato quanto potesse essere per lei pesante la crudele promessa a cui si era vincolata, approdando infine a un presente in cui nuove parole di perdono potevano dischiuderle un futuro completamente diverso, un futuro in cui lasciar esprimere, in tutta la loro potenza guaritrice, sentimenti di amore, di condono, di comprensione.
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psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico - Milano - Roma - Padova
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