Karma e Reincarnazione
1.I miti e il mito di Er
Il concetto di “mito” in Freud: La mia tesi vuole essere occasione per un confronto in chiave comparatistica fra psicoanalisi e buddhismo, due delle più potenti weltanschauung che la storia abbia generato, ma che non sono state sufficientemente avvicinate tra loro per un confronto alla ricerca di punti di contatto, di divergenze, di possibili strade terapeutiche comuni. Il mito platonico di Er, che tratta di aspetti come la morte e la reincarnazione prendendo spunto dalla filosofia orfico-pitagorica che a sua volta affonda le proprie radici nelle antiche dottrine indo-buddhiste, può fungere da ideale mediatore fra due culture e due civiltà tanto diverse quali quella indiana antica e quella occidentale contemporanea. Il mito di Er è infatti riconducibile all’interpretazione psicologica che Freud dà dei miti ne L’acquisizione del fuoco, quali “espressioni di processi psichici universalmente noti raffigurati in forma camuffata per il puro gusto della rappresentazione”. Come sottolineano Abadi e Mangini, il vocabolo mythos ha un’etimologia che potrebbe derivare dal verbo myo, il socchiudere gli occhi per vedere meglio: per guardare dentro di sé occorre non farsi accecare dal reale. Myo, quindi, implica il socchiudere gli occhi, accedere a una dimensione semi-onirica, passare neuropsicologicamente al ritmo delle onde alfa o teta. Sonno e morte, Hypnos e Thanatos, fin dai tempi della mitologia greca sono legati indissolubilmente. Non a caso, molti sono i miti che parlano di morte, poiché dare un significato alla morte significa dare un significato alla vita.
Il mito di Er: Nell’antica Grecia, il mito che descrive più esplicitamente il fenomeno della morte è il mito di Er, narrato da Platone nel X libro della Repubblica. Er, creduto morto in guerra, torna in vita 12 giorni dopo il suo apparente decesso per narrare ciò che aveva visto nell’aldilà. Qui le anime appaiono al cospetto di giudici ultraterreni che le indirizzano verso una nuova vita celeste, infernale o terrena a seconda dei meriti acquisiti e delle colpe commesse nella vita appena terminata.
Ananke e le moire: Le anime disincarnate passano sotto al fuso di Ananke, che rappresenta la necessità, il destino immutabile che lega l’uomo al cosmo. Ananke è – come riportato dal filosofo neoplatonico Proclo – la progenitrice delle Moire: Làchesi, la distributrice delle sorti individuali; Cloto, la filatrice del destino; Atropo, la ratificatrice dell’immutabilità del destino. Làchesi canta il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Non a caso, è proprio Làchesi, colei che canta il passato, a proporre alle anime disincarnate una serie di possibili destini e disegni di vita.
La scelta delle vite: Ogni anima, a seconda delle tendenze che le sono proprie e delle esperienze maturate nella vita appena conclusa, arriva a scegliere una nuova esistenza. La superficialità o la saggezza nelle scelte rispecchiano il grado di evoluzione spirituale.
Il daimon: Una volta che tutte le anime hanno scelto la propria vita, si presentano davanti a Làchesi; ancora una volta, la Moira sovrintendente il passato determina lo svolgimento immutabile e consequenziale del futuro, affiancando a ciascuna anima un daimon, uno spirito custode, che la accompagnerà per tutta la vita e che darà adempimento al destino prescelto.
L’incarnazione: Le anime, infine, si reincarnano, dopo aver attraversato una piana calda e desertica ed essersi dissetate con le acque del Lete e dell’Amelete, i fiumi dell’oblio e della noncuranza, che cancellano dalla memoria le esperienze vissute fra un’incarnazione e l’altra. Un terremoto segna quindi l’ingresso dell’anima nell’utero materno. Questo “millenario viaggio” narrato da Platone è interpretabile anche come la lettura del cammino che ogni essere umano compie non tanto dopo la morte, quanto all’alba della propria vita. Il mito di Er racconta mitologicamente ciò che accade a ogni essere umano nei primi anni o mesi della propria vita. E lo racconta in termini che, oltre la cortina fumogena dell’esposizione simbolica, non sono dissimili da quelli utilizzati, due millenni dopo, da Freud.
2. L’oblio delle vite passate come simbolo della rimozione
Il concetto indo-buddhista di reincarnazione: Il concetto indo-buddhista e platonico di reincarnazione – secondo cui ogni anima si reincarna, dopo la morte, in una nuova vita condizionata dalla vita precedente andata dimenticata – corrisponde al concetto freudiano per cui l’esistenza conscia di ogni individuo è indelebilmente segnata da quanto vissuto nei tempi remoti dell’infanzia, dunque da esperienze rimosse, di cui non si è più consapevoli.
Retribuzione causale karmica e influenza del rimosso: il dukkha: I traumi infantili vengono rimossi perché insopportabilmente spiacevoli, così come le vite precedenti vengono dimenticate in ragione della loro dolorosità: va ricordato a tal proposito il concetto buddhista di dukkha, termine sanscrito traducibile con “sofferenza”, una sofferenza pervasiva dell’intera esistenza umana e con essa coincidente.
Le vite passate come contenuto della rimozione e del “primo tempo del trauma”: Se la dimenticanza delle vite precedenti simboleggia il meccanismo della rimozione, le esistenze pregresse stesse – quali contenuto di tale dimenticanza – simboleggiano il contenuto traumatico della rimozione, quello che Freud ha chiamato “il primo tempo del trauma”.
Il caso di Katharina: Freud ha teorizzato tale concetto nel 1894, trascrivendo, negli Studi sull’isteria, il caso di Katharina. Mentre il primo tempo del trauma è caratterizzato dalla non rappresentabilità, il secondo tempo riattualizza il primo, gli conferisce parola e significato, attiva la sua patogeneticità. Le vite precedenti vissute e dimenticate dalle anime disincarnate e reincarnate che popolano il mito di Er sono “primi tempi del trauma” consumati nel passato lontano e rimosso dei nostri primissimi anni di vita; e tuttavia irradiano i loro effetti nel presente, laddove il “secondo tempo del trauma” riattiva e rivivifica le paure, le angosce, i turbamenti sessuali sperimentati nell’infanzia o in una metaforica vita anteriore.
3. La giustizia retributiva come simbolo della coazione a ripetere
La legge del karma: non punizione, ma apprendimento e conflittualità interna: In Oriente, l’idea di retribuzione causale è centrale ed è stata teorizzata con il nome di karma, termine sanscrito traducibile letteralmente con azione volontaria, che produce degli effetti. Un karma (atto volontario) positivo produce effetti positivi, un karma negativo effetti negativi. Tali effetti possono prodursi anche in un’esistenza successiva, e perdureranno finché l’anima non avrà compreso l’errore commesso. Le sofferenze non sono, quindi, delle punizioni, ma delle lezioni d’apprendimento: l’anima, nel corso delle vite, andrà ad imparare – per migliorarsi – ciò che nelle vite precedenti ha dimostrato di non essere stata in grado di apprendere.
La coazione a ripetere nel mondo onirico e nella realtà quotidiana: Questo aspetto migliorativo piuttosto che punitivo è il vero significato dell’idea di karma. Ciò implica però che l’individuo andrà a cozzare perennemente contro le stesse situazioni problematiche finché non avrà risolto il conflitto interiore che è loro sotteso: e questo è lo stesso concetto espresso nella teorizzazione freudiana della “coazione a ripetere”. Freud parla della coazione a ripetere in Al di là del principio di piacere, facendo in particolare riferimento ai sogni delle nevrosi traumatiche. Ma la coazione a ripetere non si limita al solo mondo onirico, pervadendo anzi anche la realtà quotidiana: ecco così che, come descritto ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica, una ragazza che è stata oggetto di seduzione sessuale da bambina piccola, può indirizzare la successiva vita sessuale in modo da continuare a provocare attacchi simili.
Il non-pensiero e l’ansia anticipatoria nella nevrosi traumatica: La coazione a ripetere è codeterminata da una situazione di “non pensiero” che impedisce all’angoscia di proteggere l’Io e che favorisce la produzione di un’angoscia primaria, che scalza le difese piuttosto che favorirle. Analogamente, nel pensiero indo-buddhista e platonico, non ricordare gli errori e gli insegnamenti karmici porta a sperimentare ripetutamente la lezione da apprendere. E le persone, seppur inconsciamente, creano attivamente lo scenario in cui possono, alternativamente, rivivere il loro trauma o apprendere la loro lezione: è il concetto freudiano di paradosso nevrotico, secondo cui i problemi individuali si perpetuano tramite l’ansia anticipatoria.
4. La dinamica dell’incarnazione come simbolo dell’indwelling
La voragine della terra come simbolo dell’ambiente uterino: Diversi passi della narrazione platonica sembrano indicare ciò che accade nel corso della nascita fisica e del successivo processo d’insediamento e integrazione della psiche nel soma, definito da Winnicott “indwelling”. Nel mito di Er, le anime, prima di nascere, sono racchiuse, quasi imprigionate, in una “voragine della terra”, simbolo dell’ambiente uterino che contiene il feto. Questa voragine della terra, infatti, si espande e contrae, promette al nascituro di consegnarlo al mondo e subito dopo lo racchiude nuovamente in sé, costituisce un rifugio nel quale accoccolarsi o un luogo di paura in quanto è il ponte che conduce ai pericoli e alle sofferenze della vita.
Custodi infernali e angoscia primaria: Gli esseri infernali degli inferi platonici e indo-buddhisti sono una proiezione di queste paure, del terrore di nascere, di quella che Rank definirà “angoscia primaria”.
Il processo mahleriano di individuazione-separazione: narcisismo e psicosi: Le sofferenze maggiori, secondo il mito di Er, toccano a quelle anime che vengono continuamente ricacciate nella voragine della terra, ossia nell’utero materno: fuor di metafora, a quei bambini a cui viene impedito il districarsi dallo stato di fusionalità che li lega alla madre, ai quali non è dato di completare il processo mahleriano di individuazione-separazione. Una delle possibili conseguenze è la formazione di una personalità narcisistica o di quei disturbi derivanti dal mancato riconoscimento del bambino come persona a sé, dal mancato rispecchiamento materno del piccolo, dal considerarlo semplicemente un’appendice narcisistica. Un’altra conseguenza della non risolta fusionalità tra madre e bambino è il possibile arresto della struttura di personalità del bambino al livello psicotico.
Nascita e “collusione psicosomatica”: La meta delle anime provenienti dal cielo visitato da Er è il congiungimento col corpo del bambino a cui sono state destinate. Il processo di congiunzione fra anima e corpo, al di là del linguaggio mitologico, è quello che sfocia nella nascita psicologica del bambino: è il processo d’insediamento della psiche nel soma definito da Winnicott indwelling o collusione psicosomatica e che è alla base della personalizzazione, il sentimento che si ha della propria persona nel proprio corpo.
5. Il daimon come simbolo dell’inconscio
Il daimon nel platonismo e nel buddhismo: Il daimon è, secondo il mito di Er, lo spirito custode che affianca l’anima nel suo nuovo cammino terreno. Analoghi spiriti custodi esistono anche nelle tradizioni indo-buddhiste: lo testimoniano ampiamente i Canoni Buddhisti o il Libro tibetano dei morti.
Il daimon come primo nucleo dell’inconscio: il daimon è colui che porta nel presente gli effetti del passato, le conseguenze del karma delle vite precedenti dimenticate: è quell’alterità presente in noi che attualizza le conseguenze del rimosso, dei traumi sepolti e scordati; è il primo nucleo dell’inconscio che si forma in seguito alla rimozione primaria e verso il quale convergono tutte le rimozioni successive.
Il daimon come potenziale numinoso nel buddhismo e come inconscio creativo in Jung: Nel daimon si può ravvisare anche quell’inconscio che Jung intendeva non solo come ricettacolo di traumi e desideri rimossi, ma anche come scrigno segreto, fonte creativa, Alter Ego dotato di vita e decisionalità proprie, amico o nemico. Anche nel buddhismo si trova un concetto simile, per cui l’inconscio è avvicinabile a un “potenziale numinoso”, celeste, ultraterreno, che precede il destino dell’incarnazione individuale.
Hillman e la “teoria della ghianda”: Hillman non si limita ad affermare l’esistenza del daimon come simbolo dell’ineluttabilità del destino umano e del senso di vocazione ad esso intrinseco; addirittura lo reifica, attribuendogli una volontà e un’ontologia propria. La sua “teoria della ghianda” afferma che siamo tutti venuti al mondo con un’immagine che ci definisce, che ciascuno di noi incarna l’idea di se stesso. La sua teoria, inoltre, attribuisce all’immagine innata, un’intenzionalità angelica, o daimoniaca, come se fosse una scintilla di coscienza.
6. Una visione olistica
De Santillana e Von Dechend: Il Mulino di Amleto: Sarebbe presuntuoso dire che questa è l’interpretazione più realistica della narrazione platonica sull’aldilà. I miti parlano, infatti, un linguaggio simile a quello dei sogni, e soggetto alle stesse loro leggi: la condensazione, la simbolizzazione, lo spostamento, la drammatizzazione. L’interpretazione psicologica con cui si possono leggere i miti non è allora più o meno corretta rispetto, ad esempio, ad un esegesi cosmologica, secondo cui i miti descriverebbero fenomeni di meccanica celeste. Una tale interpretazione è sostenuta ne Il mulino di Amleto, di Giorgio De Santillana e Hertha Von Dechend.
La precessione degli equinozi: In tale saggio si sostiene che, in qualche momento imprecisato dell’antichità, in numerosissime parti del mondo diverse e distanti tra loro, “nacque” una serie di miti destinati a trasmettere un’ingente quantità di dati tecnici riguardanti fenomeni di meccanica celeste, in primis la precessione degli equinozi[1], ufficialmente “scoperta” da Ipparco nel II secolo a.C., diversi secoli dopo.
L’asse, la catastrofe, l’eroe, il codice numerico: I “miti di fondazione” sono riconoscibili per la presenza di costante di tre punti cardine: un asse (un pilastro, una struttura lignea, un albero) che funge da vincastro di sostegno per il mondo; una catastrofe (nella maggior parte dei casi un diluvio) spesso di proporzioni cosmiche; un eroe, chiamato a ripristinare l’ordine universale. Un quarto punto comune a tutti questi miti, individuato dall’archeoastronoma Jane Sellers, è la presenza di un codice numerico, un ristretto gruppo di numeri legati al fenomeno della precessione. Tutti questi punti sono reperibili nel mito di Er.
Il mito come mediatore tra piano psicologico e cosmologico: L’interpretazione psicologica con cui si possono leggere i miti non è più o meno corretta rispetto all’esegesi cosmologica. I due livelli di lettura possono semplicemente coesistere, perché così è nella natura dei miti. Secondo una visione olistica, che richiami il famoso detto gnostico per cui “come in alto, così in basso”, ciò che accade sul piano psicologico riflette ciò che accade sul piano cosmologico e viceversa: il mito è un buon mediatore fra i due piani!
Religione, scienza, psicoanalisi e mitologia come vie verso la verità: I miti sono un gioco di specchi che forse dicono più verità di quanto siamo disposti loro generalmente ad attribuire. Una verità forse più esperibile proprio socchiudendo gli occhi, come suggerisce l’etimologia di “mythos”. Può darsi che la psicologia occidentale non sia che una mitologia contemporanea che tenta di approssimarsi ad una verità inattingibile, mediante nuovi dogmi e paradigmi di riferimento – la biologia, la sessualità, le fasi di sviluppo – ritenuti più veri in quanto accreditati della fede e dalla devozione post-moderne verso la scienza.Ben venga, tuttavia, questa nuova mitologia, anche se – come tutte quelle che l’hanno preceduta – continuerà ad arrogarsi il diritto di esegesi definitiva. L’interpretazione ultima ai fenomeni dell’esistenza non c’è e non ci sarà mai. O se c’è, è posseduta solo da chi, come Er, ha compiuto il suo viaggio conclusivo, stavolta senza il transito di ritorno. Da chi, come Er, ci sorride guardandoci dall’alto, forse a sua volta socchiudendo gli occhi per vederci meglio.
7. I punti di contatto tra psicoanalisi e buddhismo
La meditazione e la scoperta di sé: Il nostro viaggio nella Grecia antica e nell’Estremo Oriente sarebbe un mero e sterile esercizio intellettuale se non conducesse anche a padroneggiare degli strumenti utili per migliorare il benessere psicologico proprio e altrui. Bisognerà tuttavia capire se alcuni degli strumenti del buddhismo possono concorrere ad impostare un cammino terapeutico in accordo con la visione psicoanalitica, o se le due weltanschauung possiedono più punti di frizione che di accordo fra loro.
Il determinismo psichico: Nella filosofia buddhista è ravvisabile un rigido determinismo, simile a quello che si trova nel pensiero freudiano. Secondo Freud, la vita psichica individuale è inflessibilmente determinata dalle esperienze passate rimaste indelebilmente impresse nell’inconscio. Lo stesso determinismo è, secondo il buddhismo, alla base della legge karmica di retribuzione morale.
La resilienza: Un altro aspetto comune a psicoanalisi e buddhismo è l’idea della significatività della sofferenza, legata alla consapevolezza di dover amplificare la propria resilienza, intesa come capacità di trarre profitto dai dolori della vita, dando loro un significato.
L’orientamento etico: Erich Fromm, nel suo saggio Psicoanalisi e Buddhismo Zen, ravvisa, quali punti di convergenza fra i due sistemi: un comune orientamento etico; una ricerca di autonomia da qualsiasi genere di autorità; un rifuggire da un’eccessiva intellettualizzazione; e soprattutto la finalità decisiva di rendere conscio ciò che è inconscio.
L’autonomia dall’autorità: Un altro elemento in comune tra Psicoanalisi e Buddhismo è il rifuggire dall’ipse dixit, l’insistere sulla necessaria autonomia da qualsiasi autorità. Questo è uno dei motivi per cui Freud critica la religione, la cui essenza starebbe nell’illusione umana di poter sostituire la dipendenza da un padre soccorritore o punitore, con la dipendenza da Dio: con la fede, l’uomo perseguirebbe a vivere in uno stato di dipendenza infantile, anziché maturare facendo leva sulla propria forza.
Il rifuggire dall’eccessiva intellettualizzazione: È tipico dei maestri Zen il mettere in difficoltà i discepoli sottoponendo loro dei quesiti senza soluzione, i cosiddetti koan, che mettono il discepolo nell’impossibilità di cercare rifugio nel pensiero intellettuale.
L’autoconsapevolezza come percorso dall’Es all’Io, dall’inconscio al conscio: Proprio il diventare consapevoli di qualcosa che precedentemente era inconscio, e, in generale, l’intero progressivo passaggio dall’inconscio al conscio è, secondo Fromm, il più importante punto di contatto fra psicoanalisi e buddhismo, la finalità superiore comune ad entrambe. Infatti, lo Zen si pone come obiettivo la conoscenza della natura propria di ognuno: ricerca, insomma, il 'conosci te stesso'. Analogamente, l’elemento più caratteristico dell’approccio psicoanalitico è il suo tentativo di rendere conscio l’inconscio, ovvero, in termini freudiani, di trasformare l’Es nell’Ego.
8. Le differenze tra psicoanalisi e buddhismo
Il concetto psicoanalitico di “individuazione” e la concezione buddhista di “anatta”: La scoperta del sé è la più importante una finalità comune a psicoanalisi e buddhismo. Ma proprio dal raggiungimento di questo scopo si dipanano le successive differenze fra i due pensieri. Se, infatti, per la psicoanalisi, l’individuazione del sé personale e della propria separatezza sono dei fondamentali porti d’approdo, questi concetti sono, per il buddhismo, pur se indispensabili, meramente propedeutici allo sviluppo di una filosofia che non crede nella realtà ultima di tale sé individuale, considerato illusorio e integrabile in una visione olistica in cui esso è solo un’eco dell’armonia del Tutto.
Il riconoscimento psicoanalitico e il controllo buddhista delle emozioni: Un’altra differenza tra psicoanalisi e buddhismo sta nel fatto che la prima mira al riconoscimento e alla denominazione delle emozioni, il secondo al controllo consapevole delle stesse.
Il non falsificazionismo della psicoanalisi e il relativismo buddhista: Un’ultima, fondamentale differenza, fra psicoanalisi e buddhismo è riscontrabile nel fatto che la prima è un “pensiero forte”, resistente al falsificazionismo popperiano, il secondo è un pensiero apertamente “debole”, relativistico, dichiaratamente non in grado di descrivere – se non metaforicamente – la realtà.
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[1] Movimento della Terra dovuto al fatto che l’asse di rotazione è inclinato rispetto alla perpendicolare al piano dell’eclittica, e ruota attorno ad essa, descrivendo un cono in senso opposto a quello di rotazione del pianeta; il ciclo completo di tale movimento è di 26.000 anni. Tale movimento è il responsabile del fatto che, ogni 2.160 anni, cambi la costellazione zodiacale sulla quale si può osservare il sorgere del sole equinoziale o solstiziale.
psicologo, psicoterapeuta, ipnologo clinico - Milano - Roma - Padova
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