Il nemico invisibile e la tristezza che non ci fa respirare
Una lettura dello scenario esistenziale al tempo dell’emergenza covid-19
A cura di
Dott.ssa Anna Rita Cerrone – psicologo clinico, psicoterapeuta
Dott. Gianfranco Inserra – psicologo clinico, psicoterapeuta marzo 2020
Pandemia. Contagio. Morti. Soffocamento. Sopravvissuti. Isolamento. Uomini in prima linea, esposti al pericolo. Immunità di gregge. La minaccia del contatto umano. Negazione o panico. Paranoia. Il corpo esposto. Il nemico invisibile. Ecco le parole-chiave di questo tempo storico che, inevitabilmente, si stanno sedimentando nell’inconscio collettivo dell’umanità, si associano alle “imago ancestrali” (Jung) che popolano il nostro mondo interno e a tracce antiche, minacciose, che riguardano le nostre paure e angosce più profonde. Siamo più o meno consapevoli che questo evento di proporzioni mondiali cambierà il profilo umano, una sorta di svolta epocale nello scenario interno dell’umanità, ma non sappiamo in che modo. Viene da chiedersi come ne usciremo, quando ne usciremo, pagando il conto altissimo del lutto, pagando il debito collettivo di un trauma prolungato che ha bisogno di essere significato nella psiche, se non vogliamo che si insedi dentro a governare le nostre vite. Viene da chiedersi quali siano i presupposti di questa “vulnerabilità di genere” con cui ci stiamo confrontando, nel “qui ed ora” di una lotta che non si gioca solo sul piano socio-sanitario ma che si alloggia internamente a livello simbolico-emotivo e che ci confronta con vissuti che generalmente schiviamo. Vissuti che hanno bisogno di attenzione consapevole se non vogliamo “sentirci soffocare” dall’angoscia, prima ancora che da un virus, dall’immobilità e dall’impotenza che il vuoto dalle consuete abitudini può provocare.
Immersi nei misteri dell’universo, messi in scacco dallo stravolgimento della nostra vita, sentiamo perciò la necessità di riflettere sulla natura del nostro essere e del nostro esserci in un mondo che, a prescindere dai nostri ruoli sociali, atteggiamenti o stili di vita, ci mette — tutti, inesorabilmente — di fronte all’inconosciuto, alla precarietà del vivere, alla vulnerabilità dell’esistenza. Siamo esposti al contagio, ma lo siamo sempre e lo sappiamo, virus e batteri circolano intorno a noi abitualmente eppure in questo caso siamo confrontati ad un contagio pericoloso. Assistiamo al passaggio che trasforma un banale raffreddore nella complicanza di una polmonite interstiziale. Evidentemente il virus è più insidioso ma i virus, che mutano, non lo sono sempre? Certo, le conoscenze mediche sembrano al momento insufficienti di fronte ad un organismo patogeno nuovo ma il punto forse è un altro. Sta di fatto che le nostre difese immunitarie non riescono a reggere adeguatamente l’assalto e dunque la minaccia è superiore alle risorse. Non siamo forse responsabili delle nostre risorse? È evidente che il nostro stile di vita indebolisce le difese organiche di cui disponiamo, in particolare quelle del nostro sistema respiratorio, con complicanze importanti perciò siamo indifesi, incapaci di reggere, con l’assetto fisiologico, l’impatto dell’esposizione. Perché siamo in queste condizioni? Per provare a capire, crediamo non si possa prescindere dalla complessità della nostra natura bio-psico-sociale.
Quando parliamo di essere umano, infatti, sappiamo bene che siamo identità indivisa corpo-mente e che siamo parte integrante di un ecosistema dove materia ed energia sono parimenti uniti, come manifestazioni della stessa realtà. Il singolo uomo rappresenta un microcosmo che vive in relazione al macrocosmo, non divisibile al suo interno tra corpo e spirito e non divisibile dalla realtà circostante. La visione olistica affonda le sue radici nell’antico sapere filosofico e trova riscontro nella medicina integrata, non solo occidentale, già da moltissimo tempo. Basti pensare che l’antico sapere della medicina cinese, che ha oltre quattromila anni di tradizione, applica l’approccio olistico, energetico e globale alle cure mediche. Perciò ogni sintomo viene inquadrato nell’ottica di una disarmonia di sistema, di uno squilibrio fra materia ed energia. Nella medicina cinese, infatti, la mente è in tutto il corpo e si caratterizza in modi differenti nei diversi organi, perciò ad ogni organo è attribuibile una specifica emozione, legata al tipo di intelligenza di cui l’organo è dotato. In quest’ottica, se l’energia delle emozioni influisce sulla salute degli organi, uno squilibrio nella rete organica è sempre correlato a disfunzioni significative sul piano emozionale.
La psicanalisi insegna che quando sotterriamo un’emozione, quando la reprimiamo, impedendole di esprimere le proprie funzioni adattive, inevitabilmente si convoglia, si accumula in modo massiccio, convertendosi dall’assetto sano a quello patologico. Dal momento che le emozioni sono incarnate e il sistema è unitario, quando questo accade, l’espressione del malessere è sempre psico-somatica e il linguaggio simbolico del sintomo organico racconta le specifiche vicissitudini emotive della psiche. Perciò sentiamo il bisogno di riflettere sulle funzioni degli organi che oggi sentiamo più vulnerabili, perché ci informino sui possibili moventi dello scacco che stiamo vivendo, come esseri umani di fronte al nemico invisibile. Il contagio viene dal contatto. La pelle, i fluidi corporei, la respirazione con le complicanze polmonari. Non a caso la pelle e i polmoni sono legati da un filo sottile poiché svolgono la stessa funzione a livelli diversi: gestiscono il rapporto fra noi e l’esterno, fra ciò che siamo dentro e quanto riceviamo dall’ambiente. Ecco perché la medicina cinese li ritiene strettamente connessi. I polmoni hanno la responsabilità di prendere aria pulita, ricca di ossigeno e di espellere anidride carbonica. Le funzioni della pelle, dei peli, delle ghiandole sudoripare ci informano della nostra capacità di rimuovere tossine e materiali di scarto, nonché della capacità di proteggerci dall’esterno, da fattori patogeni. Nel cerchio dell’interazione, interviene anche l’intestino, poiché anch’esso è coinvolto nell’assorbimento dei nutrienti e nell’espulsione degli scarti.
Seguendo questa logica, ci ritroviamo dunque sul piano della dinamica del dare e del ricevere e sui vissuti che entrano in gioco nello scambio vitale, nel nostro rapporto con la realtà. Questa triade funzionale chiama in causa le emozioni legate allo stile relazionale di un’intera civiltà. È interessante notare che l’antico sapere cinese collega la tristezza, la pena, il dolore all’attività polmonare e ritiene che molti disturbi respiratori e intestinali siano radicati in un ristagno di tristezza e afflizione. Infatti, se l’energia dei polmoni è debole, si è suscettibili di raffreddori e influenza e se questi non si risolvono velocemente, penetrano profondamente nel corpo e possono trasformarsi in bronchiti e polmoniti. Come nel caso del nostro tempo. Ma qual è il dolore che non riusciamo ad attraversare o a digerire? Qual è il significato esistenziale di questa fragilità che stiamo vivendo? Proviamo a pensarci. L’attività polmonare è rappresentativa della dinamica di comunicazione dell’uomo con il mondo. D’altra parte, il ciclo costante della vita comporta la responsabilità di accogliere il nuovo e lasciare andare il vecchio. La circolazione d’aria funziona come il libero fluire delle emozioni, che vanno accolte e attraversate, liberate e poi lasciate andare, nello scambio vitale con l’altro. Ma se non possiamo cogliere ed esprimere i vissuti legati al nostro rapporto con il mondo, magari perché spiacevoli o troppo intensi, siamo in squilibrio, non possiamo orientarci in piena armonia con le cose che sono e i vissuti perdono il loro carattere di fluidità e utilità nel loro ciclo naturale. In altre parole, ci soffocano.
Ci soffocano i dolori che non sappiamo riconoscere e affrontare, quelli che si massificano dentro di noi, come macigni, proprio perché ci impegniamo a scansarli. Quegli stessi che ci insegnerebbero come orientarci, cosa scegliere nella vita, per il nostro bene. Ci soffoca la paura di entrare in contatto con i nostri sentimenti, quando sono penosi e il corpo simbolizzante esprime la falla di un sistema che indebolisce se stesso attraverso l’alienazione. Forse non vogliamo avere niente a che fare con la tristezza. Non siamo abituati a respirarla, quando accade, la respingiamo e lo facciamo soprattutto oggi, mettendo mascherina e guanti anche di fronte alla paura, alla pena, alla preoccupazione che impenna e magari ci aggrappiamo allo scambio virtuale forsennato. L’incontro con la tristezza, quando non lo evitiamo, rivela invece messaggi preziosi: ci confronta con il nostro bisogno di contatto con l’altro, di conforto, di amore, che nutra le viscere del Sé e che evidentemente manca. Se dedicassimo tempo all’ascolto dei nostri vissuti, specialmente adesso, potremmo forse raccogliere il senso e usarlo, spargere i semi della consapevolezza nel terreno di un nuovo rapporto con la nostra stessa natura, riguadagnando ciò che abbiamo perso e usando questo tempo per restituirci a noi stessi.
Diciamo sempre che “il tempo è denaro” e nella sua accezione simbolica, questo indica che il tempo è prezioso come moneta d’oro, ci ricorda che spendere o investire il nostro tempo è azione serissima che ha un suo costo importante. Ma il tempo della nostra civiltà è diventato denaro in senso stretto, nel senso concreto del termine. L’imperativo intrinseco è quello di usare la nostra vita per produrre beni, per assicuraci il sostentamento. Il lavoro inarrestabile è diventato necessità e la necessità comporta un sentimento di inettitudine quando non ci si allinea al mandato collettivo. Non ci possiamo fermare. Non ci ferma il discioglimento dei ghiacciai, l’aumento dell’inquinamento globale, il disboscamento planetario. Non ci ferma la corruzione dell’ecosistema di cui facciamo parte, continuiamo a correre e neghiamo le conseguenze e la nostra responsabilità. Ma sembra che la negazione, oggi, sia saltata. Abbiamo arrestato la corsa di fronte al pericolo che sentiamo incombente. Fermi, di fronte alla spaccatura dei riferimenti fondamentali della nostra epoca e ci sembra di percepire questo tempo come dilatato, immobile e irreale, solo perché ha capovolto i suoi connotati abituali. Ma forse non è un male questo senso di smarrimento perché ci impone la ricerca di un nuovo senso di valore da assegnare al nostro agire. Perls direbbe che siamo nella necessita di “riempire fertilmente il vuoto”, la solitudine, il silenzio interiore, ascoltandoci, scegliendo consapevolmente di nutrire ciò che manca, di accogliere ciò che è necessario, sia pure a partire dalla tristezza, che ci racconta l’aridità interiore come conseguenza di bisogni inespressi e inappagati. Possiamo raccogliere la possibilità che viene dalla crisi. Abbiamo oggi l’occasione di restituirci alle fonti del nostro essere, di ritrovare il nostro posto nel mondo perché ci pare che tutto ciò che conti sia tornare all’interezza perduta.
Psicologa, Psicoterapeuta psicoanalitica - Salerno
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento