La madre castrante e la difficoltà di amare
In questo scritto voglio spiegare come un rapporto conflittuale del figlio maschio con la madre possa portare in esso una corrispondente difficoltà nell’instaurare rapporti adulti e maturi con una donna, ovvero incentrati sull’amore e non solo sull’innamoramento, l’infatuazione, l’appagamento sessuale e del proprio ego narcisistico.
Dalla letteratura sul rapporto madre bambino, a cominciare da Bowlby, abbiamo appreso che la madre che sa creare una base sicura, una “madre sufficientemente buona”, per dirla con Winnicott, è la madre che sa emancipare il figlio, che costruisce i suoi modelli operativi interni (MOI) basati sulla fiducia, sulla presenza discreta, sulla capacità di fornire radici ma anche ali. Sulla scorta di tali MOI il bambino imparerà ad avere fiducia in sé stesso e anche nella madre, imparerà a comprendere che egli esiste come essere separato da lei ma che potrà comunque farvi affidamento nel momento del bisogno. La madre divorante, castrante, simbiotica, è invece tutto l’opposto della madre buona ed emancipante.
Questue due figure sono due archetipi che ricorrono con frequenza nell’inconscio collettivo dei popoli, e le ritroviamo nei miti e nelle fiabe sottoforma di strega, mostro, drago, la donna-vampiro, l’arpia ecc. Ma, oltre a risiedere nell’inconscio collettivo, questa madre risiede anche nell’inconscio personale di tutti quei figli maschi dai quali essa non si è mai realmente voluta separare, fagocitandoli. Questa madre, infatti, non è la buona madre che dona libertà al figlio, essa prende da esso, succhia il sangue, ne ha bisogno in modo quasi ossessivo e viscerale: e così facendo fagocita il nascente sé del bambino.
L’amore vero, difatti, è una relazione liberante: proprio per questo oggi assistiamo a tanti amori malati, perché l’amore, quello vero, è una relazione che dona radici ma anche ali, è liberante, dona respiro al sé. Gli amori di queste madri, così come i falsi amori di tante coppie di oggi, sono invece amori castranti, bloccanti: imprigionano dentro uno spazio angusto, costringono la persona “amata” a vedere solo quell’orizzonte che l’altro è disposto a dare, ma capiamo bene qui che questo è un donare falso, perché in realtà si tratta di un prendere: chi “dona” una visione parziale del mondo all’altro, si serve di lui per confermare sé stesso egoisticamente e narcisisticamente.
Chi ama realmente invece mostra il mondo in tutta la sua ampiezza, anche a costo di perdere la persona amata, il figlio amato, che magari sceglie un altro orizzonte per sé stesso, invece che quello scelto da altri per lui. Mi viene a mente a tal proposito lo scempio di tanti figli che inseguono il sogno del genitore per la sua vita, piuttosto che il loro sogno personale.
È così inevitabilmente aperta a queste menti la via della nevrosi, o prima o dopo, quando la vita mette di fronte a inevitabili crisi. Vediamo quindi come la relazione con la madre sia il corrispettivo delle altre relazioni affettive che saranno vissute in futuro: vivere bene la prima e fondamentale relazione sarà quindi basilare per far si che un figlio possa vivere realmente bene la sua relazione di coppia futura.
Quali sono quindi le madri castranti? Esse sono le madri iperprotettive, inibenti, ansiogene, preoccupate, simbiotiche. Quelle che vedono il figlio come un eterno bambino anche se è già adulto, spesso riferendosi a lui con vezzeggiativi tipici di una relazione infantile. Sono in genere madri che hanno bisogno che il figlio segua la loro visione del mondo e delle cose: hanno già in mente tutto il loro futuro dispiegato in un attimo, sono costantemente in ansia anche se il figlio sta semplicemente facendo il suo mestiere di figlio, ovvero esprimere la sua turbolenza infantile, fare dispetti, disubbidire. Le sfumature possono andare dalla freddezza della madre-soldato, alla fusionalità della madre simbiotica, ma in ogni caso abbiamo a che fare con relazioni malate e castranti. La madre simbiotica, in particolare, ha bisogno del contatto fisico con il figlio, gli piace stropicciarlo, baciarlo, averlo per sé: ma un contatto così esasperato non è mai un reale istinto di donazione: è un modo per fagocitare, prendere, succhiare l’anima del figlio per farla tutta sua. Stiamo qui fornendo un ritratto di madre castrante-tipo, genericamente parlando, ma è evidente che vi sono varie tipologie che potrebbero essere validamente esplorate.
Così come, ovviamente, esistono diversi temperamenti del figlio che andranno ad interagire con la relativa tipologia di madre: gli esiti possono essere variegati, ma per citarne alcuni possiamo riferirci a: il figlio ribelle e disorientato; il figlio “castrato” incapace di vivere la sua sessualità con una donna e che potrebbe sfociare in impotenza o omosessualità; il figlio “simbiotico” ovvero colui che ricercherà la mamma e il suo livello di fusionalità in una futura relazione di coppia; il figlio “mentale” ovvero totalmente rivolto alla sfera della ratio, in cui non è avvenuta una integrazione tra la parte maschile e femminile, che Jung definisce rispettivamente “Animus” e “Anima”.
Deriva da ciò una inevitabile distorsione dell’amore e del rapporto di coppia, che può andare da totale incapacità di viverlo, come nel caso degli impotenti/inibiti, alla disorganizzazione affettiva del figlio disorientato che rischia di ricercare in altre attività la sublimazione di un amore mai ricevuto; andando poi per la dipendenza del figlio simbiotico, che vedrà nelle relazioni sentimentali un qualcosa a cui aggrapparsi come al cordone ombelicale da cui ricevere nutrimento; per arrivare al distacco del figlio mentale, che vive i rapporti sentimentali in modo totalmente razionale, che ha una concezione del mondo razionale. Sono questi tutti stili di difesa derivanti dal rapporto malato con la madre castrante: in tutti i casi la corretta integrazione del sé non è avvenuta, mancano delle parti, non si è liberi di essere, perché si è imprigionati nella rete della madre invischiante.
Di fatto essa ha ristretto gli orizzonti vitali del figlio, il quale non sarà mai veramente adulto in quanto ricerca ancora quell’appagamento materno “sano” che non ha mai avuto, quell’amore liberante che non ha mai sperimentato. Vediamo spesso degli eterni bambini in questi uomini non cresciuti, che hanno paura di assumersi responsabilità adulte, che rifuggono da una relazione seria perché ancora sono bambini disorientati alla ricerca dell’abbraccio liberante della madre. Perché i troppi baci della madre simbiotica non donano libertà, la tolgono. Essi identificheranno l’amore , a livello conscio, con quello che la loro madre gli ha donato: se gli ha donato una prigione vedranno nell’amore una prigione da cui fuggire, vedranno nella donna quella stessa madre-vampira, madre-carceriera, che ti butta dentro una gabbia e butta via la chiave. Nessuna relazione futura sarà per loro veramente liberante se non si esporranno al rischio di soffrire, riaprendo così la vecchia ferita di quell’amore non ricevuto.
La ferita va richiusa, ma visto che indietro nel tempo è impossibile tornare, è necessario esporsi nel presente al rischio della delusione narcisistica: se questo non succede rimarrà divorato dalla madre e perennemente un figlio la cui capacità di rapporto è fissata all’incubo della dipendenza infantile. Quando supera le passate ferite del rapporto con una madre simbiotica e invadente, l'uomo è libero di sviluppare il lato femminile della sua natura, che Jung ha definito Anima.
Essa mette l'uomo in contatto con i suoi lati più profondi. Solo così l'uomo potrà stabilire un rapporto maturo con una donna: fintantoché ciò non avverrà si avrà o una fuga dal mondo delle responsabilità adulte, ovvero un rifugiarsi nel mondo dei balocchi e della spensieratezza adolescenziale anche ad età in cui ciò è oramai fuori luogo, o, addirittura, nei casi più gravi, una totale incapacità di avere rapporti sani con le donne, vissute o come autentiche castratrici (come lo è stata la propria madre), o come esseri pericolosi sempre pronti a fare un tiro mancino, quindi da usare solo in senso narcisistico, di appagamento sessuale e del proprio ego. E' proprio così che alcuni uomini si sottraggono alla loro madre-drago (madre divorante): si costruiscono una specie di regno solo maschile, solo mentale, razionale, difeso e sicuro, dove le madri non possono seguirli.
E rifiutano il lato femminile, intuitivo, romantico e un pò irrazionale, per la paura di essere sopraffatti dalla madre-drago...un drago che preferiranno continuare a combattere magari nei loro giochi, piuttosto che affrontare davvero il drago crescendo e reintegrando il lato femminile nel loro sé. Del resto, come il mito di Edipo ci dice, non è affatto sufficiente un atteggiamento intellettuale, tipicamente maschile, per sconfiggere il potere divorante dell’archetipo della madre castrante.
La lotta deve essere condotta attraverso la vita, l’integrazione delle parti, maschile e femminile, razionalità e intuizione, sentimento e ragione. L’uomo che non ha sviluppato la sua parte femminile infatti, è generalmente narcisistico: è innamorato della sua idea di amore, delle sue fantasie, del suo eros, della sua capacità di dare piacere erotico, ma non sa amare nel senso adulto del termine, che invece implica la capacità di esporsi alla vulnerabilità del rischio e della ferita narcisistica.
L’amore non è quello distorto ricevuto dalla relazione con la madre, ma deve divenire una relazione che dona radici e ali, dove non esistono ristretti orizzonti, non esistono gabbie, bensì un donare una visione autentica del mondo pur correndo il rischio di perdere la persona amata: nessuna madre, del resto, che non sappia concedersi il rischio di perdere il figlio, potrà mai affermare di averlo amato davvero.
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Leggo la intima verità del regno che mi sono costruito.
il 25/05/2019
Questo articolo mi sta dando un quadro piu completo a quelli che erano i miei dubbi in rapporto con un marito tornato adolescente da un momento all'altro. Mio marito, lo riconosco in questi casi. Mi trovo a vedermi come sua madre che li parla e vuole farlo ragionare perché lui tornato adolescente ed irresponsabile verso nostra figlia, non sente più alcun istinto paterno. Lui mi vede come la madre strega che vuole impedirlo di rifarsi una vita, vuol essere lasciato in pace di farsi le sue esperienze, per imparare dagli errori. Mi vede come la madre rompipalle e fa adolescente ribelle. Peccato che ha 44 anni e con il secondo matrimonio alle spalle e stavolta c'è di mezzo una bambina di 8 anni. Gli jo detto diverse volte di rivolgersi ad uno specialista, ma mi dice "va bene" giusto per accontentarmi e non ci va. Si attacca morbosamente alle donne. Non sente più alcuna responsabilità verso la figlia ne affettiva ne economica. Sua madre è la donna castrante descritta in questo articolo. Lo si sa, ma lei non ammette colpe, è convinta di essere perfetta e guai se lo si dice qualcosa. Prevale il narcisismo ed ego in ogni caso. Non so come fare a convincerlo a rivolgersi ad un psicologo. Questo continuerà a combinare casini in giro e non si rende conto della gravità della sua situazione psichica. Mi dispiace più che altro per la bambina, perché non se lo merita. E molto brava e matura e cerco di starle vicina per aiutarla a non reprimere sentimenti dentro. Non vorrei un giorno trovarmi con una figlia con questi problemi cm con il proprio compagno.
Ola il 25/11/2019
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Purtroppo in questi casi non abbiamo molta scelta. Non può vedere la situazione dal punto di vista di un altro, né può costringere qualcuno a comportarsi come lei vorrebbe. Quello che può fare è occuparsi di se stessa, di quel che le piace fare, senza aspettare necessariamente suo marito. Si concentri su di lei, e se poi si rendesse conto di non riuscire più a sopportarlo, allora le cose andranno come devono andare e lei prenderà le decisioni che deve prendere con più consapevolezza.
Grazie per la chiarezza e la fluidità del suo scritto.
Il mio primo matrimonio è fallito anche per questo, tuttavia ho salvato un rapporto bellissimo e irrinunciabile con mio figlio ora trentenne.
La mia seconda relazione ora è di nuovo in crisi, sempre sul tema dell'amore non dato.
Mi chiedo però a 54 anni quale sia il metodo per valutare l'amore dato e ricevuto e perché io sia sempre quello che non si accorge di questo dono del femminile. Ho sempre pensato che amarsi fosse una cosa semplice e istintiva priva di prove e di test di livello...quando mi trovo di fronte alla valutazione, alla quantificazione del sentimento io mollo la presa e fuggo via. Non so dare risposte a : quanto ti amo, quanto mi ami, quanto ci sei o quanto manchi.
Non ci riesco, mi viene ansia.
Grazie per l'ascolto.
Luca il 03/12/2019
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Ci credo che ti viene ansia...è inevitabile dal momento che l'amore non si può valutare su un piano razionale di dare/avere, può solo essere vissuto. Ma in primis verso sè stessi. Innamorarsi di sé vuol dire mettere in atto tutto quell’insieme di attenzioni, di ammirazione e di rispetto che normalmente siamo disposti a concedere quando ci relazioniamo con qualcuno che ci interessa molto ma questa volta direzionandolo verso noi stessi. A una donna in seduta chiesi quante voltesi era sforzata di cambiare per cercare di non perdere l’uomo con cui stava. Lei disse “Sempre, con tutti, senza limiti. Con ognuno di loro si era impegnata a diventare ciò che credeva di dover diventare per non perderli. Le dissi “sai quale potrebbe essere la novità? Forse nessuno di loro ti ha mai lasciata, forse ogni volta hanno abbandonato una donna diversa, che non eri tu, ma quella che eri divenuta al solo scopo di essere amata. Sei solo tu che in realtà ogni volta hai abbandonato te stessa”. Amare sé stessi è la stessa differenza che passa tra il preparare una cena con amore per qualcuno che hai invitato e prepararsi due uova al tegamino giusto per mangiare qualcosa e non morire di fame
Buongiorno Dott.ssa,
credo che la situazione che sto vivendo abbia molto a che vedere con il suo articolo.
Abbiamo vissuto una lunghissima splendida storia d'amore, durata ben 15 anni, di cui 6 di convivenza. Siamo cresciuti insieme. Non c'erano particolari ombre nella nostra vita, eravamo una coppia serena, oserei dire felice. Eravamo l'uno il centro del mondo dell'altra. Fino a che l'anno scorso ci siamo sposati, cosa che a me sembrava naturale all'interno di un rapporto ormai collaudato.
6 mesi dopo le nozze, ha iniziato a non dormire, a sviluppare sintomi ansiosi, a cercare fuori dalla nostra coppia nuove relazioni (cosa mai avvenuta prima), a dirmi che non stava più bene all'interno del nostro rapporto e che sentiva che casa nostra non era più il suo posto. Ha messo in discussione ogni cosa, dai nostri ricordi, al nostro futuro. L'ho visto rivolgersi a me in modo sprezzante, attaccandomi ferocemente per qualsiasi cosa. Mettendo in discussione ogni mio aspetto caratteriale. Critiche gratuite che a volte mi sono sembrate anche un po' infantili. Come se cercasse a tutti i costi di trovare delle scuse a cui appigliarsi. Ho comunque provato a dirgli che avremmo potuto trovare un nuovo equilibrio, che non mi spaventava partire da ciò che lui aveva sollevato... ma niente è servito, mi è sembrato di avere davanti un muro e soprattutto una persona che non riconoscevo.
Ha provato ad andare da due psicologi ma senza benefici immediati, fino a decidere di andarsene di casa.
Lui ha perso il padre all'età di 9 anni ed è cresciuto con una madre poco disponibile - da diversi punti di vista, tra cui quello emotivo - e una sorella di cui si è sempre sentito responsabile. E' diventato adulto presto ed è cresciuto con l'idea di dover contare su di sé. Pensavo però che il fatto di aver trovato me, e la mia famiglia solida e presente, avesse in parte sanato questa ferita.
Il modo in cui si è rivolto a me in questi mesi di crisi mi ha ricordato esattamente quello con cui lo avevo sempre visto rapportarsi con sua madre: non paziente, rabbioso, poco affettuoso. Come se la relazione si basasse sul dovere più che sull'affetto.
Io chiaramente sono distrutta. Mi chiedo cosa devo fare. Non voglio perdere la persona che ho amato 15 anni per questo.
Grazie.
LP il 18/12/2019
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Salve. Tutte le ferite non chiuse che ancora sanguinano continueranno a farlo dentro una relazione strutturata. Anzi, in particolare in quella. Molte persone iniziano a sentirsi in gabbia proprio quando una relazione si ufficializza: e questo accade per svariate ragioni: 1) Ferite ancora aperte con le figure genitoriali 2) Incapacità di staccarsi dal ruolo di figlio 3) Sostanziale incapacità di stare dentro una relazione o per propensione caratteriale o perchè qualcosa di irrisolto nella persona lo impedisce. Il punto però è che lei purtroppo non può farci niente. Una relazione non potrà mai lenire e sanare le ferite personali che solo la persona stessa può rimarginare affrontando un serio percorso di crescita personale. Prenda quindi atto ahimè che lei purtroppo non lo può "salvare". Ma per se stessa si che può fare qualcosa: riprendere possesso della sua vita, delle sue priorità e dei suoi bisogni
Salve , come molto spesso mi accade cerco anche su internet una possibile soluzione, e oggi ho letto ciò che già sapevo. Ho avuto una madre morbosa, instabile , insicura , nevrotica, che poi quando avevo circa 12 anni ha iniziato a dare i primi sintomi depressivi che sono poi stati diagnosticati o evoluti come disturbo bipolare. Oggi ho 40 anni e lei attualmente è invalida all100% per questa maledetta malattia. Ho avuto un padre incapace di dimostrare affetto a noi figli (ho un fratello), che ha sempre usato gli schiaffi per “educarci “ e con un insicurezza di fondo che lo portava sempre ad ingigantire il suo operato e a distruggere quello dei figli. una relazione con mia madre che non ha mai Del tutto accettata , ovviamente poi la malattia ha fatto il resto ma solo adesso si non separati. All’età di 17 anni dopo avere sopportato una croce che ancora non capivo , ma sentendomi insicuro , triste , e con i primi problemi con l’altro sesso , ho trovato il coraggio di rivolgermi da uno psichiatra, che mi ha aiutato lentamente a capire tutto (o quasi tutto) il groviglio dentro di me . Ho iniziato a prendere dei medicinali (Anafranil 75) oltre che fare visite settimanali e poi mensili fino a 5-6 anni fa , dove ho percepito che la terapia aveva si dato i suoi frutti, ma oltre non sembrava andare , dopo tre o quattro tentativi falliti di scalare e togliere per sempre il farmaco , dissi al medico che mi ero stufato all’età di 35 di vivere alti e bassi in continuazione causati dalla sospensione e somministrazione del farmaco. Lui mi disse che avevamo fatto tanta strada e che probabilmente ero diventato psicologicamente dipendente dal farmaco, trovandomi d’accordo sul fatto che oramai nelle sedute non avevamo più niente da dirci.e’ vero , sono riuscito a realizzarmi nel lavoro, dopo tante peripezie e tante esperienze con il sesso femminile nell’età giovanile , mi sono sposato, con una donna meravigliosa in tutto come madre (ho due figlie) come moglie e come amante : tutto questo non sarebbe stato possibile senza il farmaco e soprattutto senza la terapia , tassello dopo tassello, mi ha dato un immagine dei miei affetti e di me stesso talmente diversa Da come la vedevo in principio, ma talmente reale ,e metabolizzata da potermi salvare . A questo punto lei direbbe: qual’e allora il problema? Il problema, dottoressa , è che non sono mai stato capace ad amare nel senso pieno della parola, perché non ho sviluppato questa capacità, quindi tutti i miei rapporti sono sempre stati affettivamente distaccati , non mi sono mai sentito appagato da un amore, o perché scappavo , o perché lo vivevo con distacco, anche oggi che con mia moglie sto bene , sento l’angoscia che mi pervade di inappagatezza , sono sempre alla ricerca di quell’amore platonico (idealizzato sulla base di quello materno sano) che non troverò mai perché sono io a non essere capace di viverlo e di vederlo , le risparmio le sfumature di questo discorso, che può immaginare sono tante , la ringrazio per avermi letto .
Ale il 11/04/2020
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Se misuriamo tutto sulla base di un modello ideale non vivremo il momento reale per quello che è, così come arriva. Se riempi di ideali mentali una relazione la rovini: quando invece non fai alcun progetto vieni guidato solo dal mondo interno che non ti porta mai su strade sbagliate o verso persone che non ti sono affini. Capita di trovarsi dentro relazioni di coppia molto diverse da come le avevamo immaginate nei nostri ideali. In questi casi ci sentiamo sempre in attesa di qualcosa. Aspettative che non si realizzano e frustrazione quotidiana sono due facce della stessa medaglia. E così non viviamo né il presente né il futuro. In realtà ogni relazione, se vissuta così com’è, è lei stessa lo strumento migliore per scoprire lati nuovi di sè e una volta scoperti esprimerli e aprirsi a una nuova dimensione esistenziale. Ricorda che nessuna relazione del presente potrà sanare una ferita del passato. Il passato non esiste più e va lasciato dove sta se si vuole vivere un presente appagante
Gent.le Dott.ssa Pica, grazie per il lavoro che svolge.
Le sue parole mi toccano nel profondo, in un momento in cui sto cercando di fare chiarezza dentro di me sul rapporto con la mia attuale compagna. Da un paio di mesi abbiamo smesso di utilizzare precauzioni e abbiamo condiviso il desiderio di avere dei figli. Sono quattro anni che stiamo insieme. Tre che conviviamo stabilmente. Mi sento molto confuso e impaurito per le seguenti ragioni: con lei vivo simbioticamente. Lavoriamo insieme, sia in una realtà nostra indipendente, sia all'interno di una compagnia più allargata. Quando lavoriamo insieme un buon 40% del tempo c'è una tensione sgradevole di competizione che spesso sfocia in conflitto. Seppure si tenti sempre di essere collaborativi. Ma temo che certe sue richieste, che magari non condivido, le veicoli attraverso la forza di un rapporto affettivo di coppia, più che attraverso un ragionamento, un prendere in considerazione i pro e i contro di entrambe le nostre posizioni al fine di raggiungere una via intermedia comune. Sento che non vuole discorrere. Ma vuole che le dice sì. Mi fa molto male quando chiude il dialogo dicendo: "tu la vedi così, io non la penso come te" e indicando con la mano una separazione tra le opinioni così come tra noi. Insomma, parliamo moltissimo, soprattutto quando riguarda lei. Mi chiede continuamente consigli, mi prodigo e poi però è sempre insicura e io non so più che dire che fare.. Mi sembra sempre di essere obbligato a correre dietro alle sue esigenze, alla sua tristezza, al suo entusiasmo.. e poi quando io vengo colpito nella mia sensibilità e mi sento offeso da un suo atteggiamento provocatorio o sarcastico nei miei confronti e magari reagisco con stizza e mantengo il distacco come fa lei con me, mi sento rimproverare di non essere abbastanza forte, di non essere abbastanza uomo per ricucire e ritrovarsi. Lei ritiene che debba essere io a farlo.
A volte temo non mi ami. Sento che mi manca che mi dica quel che prova per me. Cosa pensa di me. Quando glielo faccio notare, mi risponde che quello che conta sono i fatti. E che a parole è una forzatura. A volte temo di non essere in grado di renderla felice. Lei è molto indipendente, figlia unica abituata ad avere TUTTO da suoi genitori, che la venerano. Anche ciò che loro vagamente intuiscono come un suo desiderio, lo soddisfano quasi prima ancora che lei possa esprimerlo. Al centro del mondo. Io ho una madre che da bambino, mi nascondeva la confezioni dei biscotti e diceva che era una porcheria (sono sempre stato segaligno, come lei) mi costringeva a parlare in inglese con lei (è madrelingua, ma quando c'era mio padre non potevo farlo altrimenti lei dice che lui si sentiva tagliato fuori e si irritava). Se, durante il pomeriggio, preso dall'entusiasmo, iniziavo una frase con lei per raccontarle qualcosa che mi aveva colpito mentre giocavo fuori con i miei amici o altro, lei mi imponeva di raccontarle in inglese e ad ogni errore mi correggeva e mi chiedeva di riformulare. Ora che arrivavo a dire una frase completa correttamente, avevo perso l'entusiasmo e non avevo più nessuna voglia di raccontare. La prima volta che ingenuamente a 11-12 anni le chiesi se potessi accettare l'invito di una mia amica ad andare a raccogliere e mangiare le ciliegie mature a casa sua, lei mi rispose sconcertata:"Luca, ma non ti sembra un po' presto?!" E non si riferiva alle ciliegie.
Ora da circa 10 anni, ne ho 36, sento di poter raccontarmi molto a mia madre e a mio padre. Sento che si fidano del mio discorrere e percepisco la loro stima. È come se il nostro rapporto fosse cresciuto dopo aver ricucito una frattura che si era creata quando avevo 19, quando ero uscito di casa. Ma con il tempo abbiamo ricostruito. E ora abbiamo un dialogo aperto.
Temo però che l’esperienza che ho avuto da bambino e il fatto che tuttora vedo mia mamma comportarsi da superdonna, testarda, insoddisfatta, offesa per non essere stata ascoltata a sufficienza da mio padre, mi perseguiti e io debba continuamente correre dietro alla sensazione di dover compiacere e soddisfare ogni richiesta della mia compagna sbilanciando il rapporto e mettendo da parte le mie di esigenze e sogni e desideri. Mi sembra di dover faticare molto ad avere un dialogo aperto, maturo franco ed equilibrato con lei. Penso che raramente riconosca i propri errori. Mi sento di contro spesso giudicato da lei. Glielo dico e lei mi ribatte dicendo che non mi si può dire niente. Mi trovo perciò ad agire nei suoi confronti oscillando tra momenti di arrendevolezza e altri di rifiuto e imposizione del mio punto di vista e delle mie necessità.
Desidero trovare un equilibrio.
La ringrazio sentitamente,
Luca.
Luca il 04/05/2020
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Salve Luca. Sicuramente qui, come in qualsiasi situazione di coppia, c'è un bel gioco di proiezioni. Tuttavia, se in coppia è impossibile non proiettare, bisogna tuttavia stare attenti a COSA si proietta.A tale scopo sicuramente è bene risolvere le proprie problematiche personali per evitare di buttarli nella relazione. Ma questa non è la sede per parlare di proiezioni in modo approfondito: mi pare invece opportuno sottolineare un concetto: ovvero l'importanza di sviluppare una sana indipendenza dalla coppia. La simbiosi spesso comporta che si rinunci ad aspetti importanti del proprio carattere in cambio dell’illusione dell’appartenenza e dell’armonia reciproca. Il modo migliore per evitare questo rischio è imparare a conoscersi, accettarsi, rispettarsi e amarsi come individuo prima che come partner. Se riusciamo ad amare il nostro corpo, a stare bene con noi stessi, a non proiettare sull'altro tutte le nostre aspettative, tutti i desideri, impareremo ad amarlo per quello che è. Per arrivare a questo tipo di relazione ci vogliono due persone ugualmente autonome e mature; infatti se anche solo uno dei due è possessivo e insicuro non sarà possibile creare quell'atmosfera di rispetto soprattutto per sé stessi
Gentile dott.ssa
La ringrazio infinitamente dell’articolo che ho appena finito di leggere. Mi è stato illuminante. Mi spiego io non vivo in prima persona questo tipo di rapporto, perché non ho una mamma e un papà così. Hanno anche loro i loro difetti ma di certo mi hanno sempre permesso di sbagliare e vivere la mia vita. Il problema l’ho riscontrato nell’ultima relazione di due anni con un mio coetaneo (32 anni!), dove la madre ogni volta che eravamo assieme doveva sempre chiamare per cavolate e quindi tra virgolette minare quelli che erano i nostri momenti. All’inizio pensavo che la cosa fosse normale, poi quando la madre chiamava ad orari improponibili e quindi sentivo minata la sfera privacy della nostra relazione sono insorta con il mio ex ragazzo. Non solo lui è una persona molto ansiosa, con bassa autostima e molto diffidente verso il prossimo. Lavora con la madre quindi figuriamoci. E abita ancora in casa. Non è una persona indipendente. Dopo vari litigi, i genitori si mettono in mezzo ed iniziano a far pressione psicologica dicendogli che da quando siamo assieme lui è cambiato, che non hanno piacere che io vada in casa loro e persino sono arrivati a mettergli un out out sul fatto di una mia non presenza ad una comunione di due settimane fa. Morale l’ho lasciato perché non potevo vederlo soffrire così. La sera che ci siamo lasciati mi ha detto che odia i genitori e un domani quando riuscirà ad andarsene di casa vuole chiudere i rapporti con loro. Al che gli ho detto che la cosa non la deve fare perché son sempre i suoi genitori, ma che non possono metterlo di fronte al fatto o loro o la ragazza di turno (perché è successo anche con la precedente!). Ora mi domando perché mi sento sbagliata io in tutto questo?
Grazie
LISA il 27/10/2020
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Probabilmente perchè sei di fondo insicura e quindi ti giudichi in questa tua scelta. Ricorda che non esistono scelte giuste o scelte sbagliate, bensì solo scelte. Quelle giuste sono solo quelle che ci fanno sentire liberi
un articolo puntuale centrato doloroso nella speranza. grazie.Massimo
massimo tucci il 14/11/2020
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Grazie infinite :-)
Un messaggio solo per esprimere la mia gratitudine in quanto trovo questa analisi perfetta.
Grazie
Paolo il 28/12/2020
la Dott.ssa Chiara Pica ha risposto al tuo commento:
Grazie infinite :-)
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