Mio figlio non mangia
“Non si mangia mai da soli, si mangia sempre alla tavola dell’Altro.” (M. Recalcati)
La fame è un istinto fisiologico e in quanto tale è innato, mentre l’alimentarsi è un’abitudine che si apprende nel corso della vita e all’interno delle relazioni.
Nell’essere umano il concetto della convivialità legata al cibo esiste da sempre. Il mangiare quindi non è mai semplicemente assumere cibo e sfamarsi, ma è anche e soprattutto l’assunzione delle regole della convivialità, dello stare assieme, del gusto, della tradizione familiare e culturale.
L’alimentazione possiede un’enorme valenza simbolica: le dinamiche che si attivano tra il bambino e la figura di accudimento al momento del pasto, lasciano infatti filtrare sentimenti, emozioni e credenze reciproche che concorrono a formare i modelli mentali del bambino, ossia gli “occhiali” attraverso i quali guarderà se stesso ed il mondo che lo circonda.
Il cibo è spesso uno strumento visibile che il bambino utilizza per comunicare certe cose, che a voce non è in grado di esprimere o non vuole dire. Il comportamento alimentare può dunque fungere da simbolo, fenomeno o sintomo visibile per comunicare tutt'altro e sostituire in tutto o in parte sentimenti ed emozioni (ad esempio rabbie, aggressività, rifiuti, vergogne, desideri).
Ad esempio il cibo agisce da sedativo su molte persone, placa temporaneamente l'irrequietezza e attenua l'angoscia ed i genitori si servono spesso del cibo per questo scopo con i figli. Al figlio che chiede si dà di solito qualcosa da mangiare per calmarne l'irritabilità.
Accade così che il cibo possa talvolta essere investito di significati diversi da quello della soddisfazione della fame. Spesso può addirittura diventare l’unico canale di comunicazione affettiva.
In altri casi lo scambio nell’atto alimentare è il terreno dove l’adulto gioca il controllo e il potere a scapito del riconoscimento delle peculiarità proprie del bambino.
L’atto di nutrire un bambino rappresenta un'importante forma di comunicazione tra un figlio e i suoi genitori, importantissima per il suo sviluppo. Ma questa comunicazione può diventare difettosa se il genitore “anticipa” quelli che suppone essere i bisogni del proprio figlio, ad esempio se crede che il bambino sia affamato, abbia freddo o sia stanco quando in realtà non lo è.
Questa anticipazione non permette al bambino di imparare a gestire i suoi bisogni legati al cibo e più in generale a mettersi in ascolto di quelli che sono i suoi bisogni ed esprimerli.
Usando le parole sbagliate per descrivere un comportamento del bambino si può creare in lui confusione; ad esempio il bambino può sentirsi in colpa nell'esprimere la sua tristezza perché i genitori gli comunicano che interpreterebbero questo sentimento come un insulto alla loro bravura. In questa maniera il bambino avrà poca fiducia nelle proprie sensazioni ed esperienze.
Ovviamente anche le naturali predisposizioni caratteriali del bambino possono avere un ruolo nella creazione di problematiche alimentari, ma è compito dell’adulto assumersi la responsabilità di capire cosa succede e perché al fine di modificare i propri comportamenti per risolvere positivamente la situazione.
È importante quindi non concentrarsi sul cibo in sé, ma su tutto il contorno che ruota attorno al momento del pasto, non serve concentrare i propri sforzi sul cibo, ma sulla costruzione di un clima sereno.
Utilizzare la concessione o il rifiuto di certi cibi come premio o punizione è quasi sempre sconsigliabile, come dicevamo sfamarsi è un istinto, l’intervento educativo non deve usare il cibo come strumento, ma focalizzarsi sulle dinamiche, sul clima e l’atteggiamento che riguarda l’atto.
È necessario riflettere sui vissuti che entrano in gioco, il cibo come simbolo di un materno, in quanto fonte primaria del nutrimento e quindi come forma d’amore del genitore verso il proprio figlio, il nutrimento infatti viene identificato con l’amore dalla maggior parte dei bambini in età molto precoce.
Così il rifiuto del cibo può essere letto come una rivalsa verso il genitore e viceversa il mangiare come espressione d’amore.
Compito dell’adulto è quindi forse quello di sottrarsi a questa logica di “ricatto affettivo” per riportare alla luce il desiderio e il piacere della condivisione.
Stare a tavola insieme non è solo un rito da recuperare, è anche un modo straordinario per insegnare ai propri figli come interagire con gli adulti: un’autentica scuola di etica sociale.
Perché la tavola crea intimità, e condividerla implica fiducia e complicità.
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