SEGUITO ALLA DOMANDA:Soffro di disturbi alimentari da tanti anni
Rieccomi qui, vorrei inquadrare meglio la mia situazione per dare maggiori informazioni essendo stata la prima volta poco esaustiva. Nel frattempo ringrazio gli specialisti che hanno dedicato un po' del loro tempo per rispondere al mio quesito. La mia storia inizia alla fine degli anni 90 quando decido, dopo aver sostenuto numerose diete fai da te, di iniziare un percorso diverso nel quale dovevo avere il controllo senza permettere più a niente o nessuno di farmi cadere. All'epoca ero una bambina che muoveva i suoi passi verso l'adolescenza uno dei momenti più delicati perché è lì che si decide il carattere. Ero circondata da amiche più magre di me, le mie sorelle erano più magre di me e oltre a covare un profondo sentimento di invidia cresceva la sensazione di inadeguatezza. Non ero eccessivamente grassa, anzi ero una bambina nella fase dello sviluppo e quindi il mio corpo stava subendo tutte le trasformazioni del caso, ma le parole della gente, soprattutto delle mie pseudo amiche -che in caso di litigio colpivano il mio aspetto fisico- erano diventate un tormento. Non mi piacevo, non mi accettavo e mi vergognavo per come ero fatta. Provavo imbarazzo nello stare con gli altri tutti troppo diversi da me, da me che invece ero un essere inferiore ed imperfetto. La mia ossessione è diventata tale nel corso degli anni quando iniziai a limitare la scelta dei cibi che potevo ingerire, ogni cosa era off-limits e il privarmi della possibilità di mangiare un pezzo di cioccolato o un po' di patatine costituiva un traguardo di cui andare fortemente fieri. La situazione precipita tra il 2001-2003 nel momento in cui dopo anni di lotta contro un male che non perdona perdo mia nonna, la mia ancora di salvezza. Quell'estate decisi che non contava più niente se non lei, decisi di annullarmi perché i miei bisogni non erano fondamentali, bisogni non ne avevo quasi più. Non percepivo la necessità di mangiare, non provavo stanchezza e non mi interessava niente al di fuori di mia nonna. Ricordo che i miei genitori mi riempivano di vitamine che facevo fatica a buttare giù convinta che mi potessero far ingrassare. Ad ottobre la mia battaglia termina ed io ne esco sconfitta, perdo quella che era per me una mamma e con lei perdo gran parte di me stessa. Mia mamma, l'espressione della sofferenza e dell'impotenza, nonostante il dolore per l'atroce perdita decide di fare qualcosa e di portarmi da una nutrizionista. Inizio questo percorso che mi porta inevitabilmente ad ingrassare, fino ad allora la mia mente era stata occupata da altri pensieri che avevano oscurato la mia malattia che ormai era diventata a mia insaputa ciò che mi animava. Comprendo la situazione e cerco tutti gli escamotages possibili per mantenere fermo il mio peso, per non ingrassare nemmeno di un grammo, e nel farlo mi scopro particolarmente brava nel dire bugie e nel raccogliere cibo inserire lo frettolosamente in un fazzoletto per poi eliminare il tutto senza lasciare traccia. La storia continua con questo ritmo finché non so come e non so quando decido di trasgredire e di assaggiare uno di quei cibi proibiti che mi avevano sempre trasmesso un timore smisurato. Da quel momento la vocina che mi ordinava di non mangiare e si complimentava con me per aver superato un altro limite cambia il tono, diventa sfrontata e mi sprona a mangiare tutto quello che non avevo mai toccato perché tanto avrei trovato il modo giusto per espellere ogni cosa dal mio organismo. Cambiava il metodo ma il fine era lo stesso. Mi abbuffavo e vomitavo, forse in quel momento i complessi e la mancanza di stima che mi caratterizzano hanno raggiunto l'apice, ho cercato invano di superare la pessima opinione che ho di me stessa, qualche volta ho anche creduto di aver fatto dei progressi ma poi al primo ostacolo sono riprecipitata nel baratro. Trascorrono gli anni e alla fine riesco a contenere quello stimolo irrefrenato, quella ricerca continua ed estenuante di cibo. Alterno cicli in cui sono eccessivamente magra ad altri in cui guadagno giusto un paio di chili per rendere felice chi mi è accanto ed evitare che si preoccupi troppo. Purtroppo adesso la situazione è degenerata, ci sono diversi motivi a cui attribuisco la causa scatenante, tra questi il mio percorso di studi finalizzato al superamento del concorso di magistratura, ma quello che mi ha spinto a punirmi e mi ha portato a vedere il cibo come unico amico che riempie la pancia e la testa cercando di sostituire persone che dovrebbero esserci ma non ci sono (il mio ragazzo) e di rendere meno profondo quell'enorme vuoto che sento dentro, è stata la recente dipartita di mio nonno, altra figura per me essenziale. Da quando ho appreso la notizia della sua scomparsa (ero in vacanza e facendo i salti mortali sono rientrata in Italia perché dovevo assolutamente essere presente al suo funerale) la mia vita non è più la stessa. Ho compreso che il mio attuale ragazzo, nonché la sua famiglia non nutrono affetto nei miei riguardi, non basterebbero fiumi di parole per spiegare il loro ignobile comportamento dopo la morte di mio nonno, accenno solo che la necessità di rincasare per loro non sussisteva, anzi il rimanere in vacanza “facendo finta di niente“ doveva essere un atto di amore nei cofronti del loro caro figlio. La carenza di amore e quella perdita improvvisa hanno risvegliato in me quella fame che in modo altalenante avevo messo a tacere con scarsi risultati. Attualmente sono ancora con il mio ragazzo con la consapevolezza che non sia lui la persona giusta ma nonostante quasi come proseguo la relazione quasi come se fosse un elemento da inserire nella mia esistenza per coprire un buco ed avere la parvenza di possedere ancora qualcosa e nel contempo vivo nel segreto della mia malattia ingurgitando quantità di cibi spazzatura per poi provvedere alla loro drastica eliminazione talvolta dannandomi quando non riesco con successo nel mio intento. Trascorro le giornate progettando abbuffate e rifiutando, quando ho l'occasione di guardarmi allo specchio, di posare lo sguardo su ciò che è rimasto di me, sempre se è rimasto qualcosa. Non ho più alcun tipo di interesse e lascio che gli altri o gli eventi mi trasportino verso qualcosa senza sapere dove voglio arrivare, non dormo più e ogni giorno ripeto che sarà diverso e sarò in grado di trovare lo strumento adeguato per agire e riprendere in mano le redini ma so bene che sono meri pensieri che già a fine serata sfumano per lasciar prendere il sopravvento a quella parte di me che è un mostro in grado di mangiare anche me stessa in un sol boccone. Non so quanto tempo ancora sarò capace di tollerare questo mio modus vivendi ma mi rendo che ormai sono agli sgoccioli e che potrei esplodere da un momento all'altro senza sapere cosa mi accadrà. Mi scuso per gli errori ortografici ma ho scritto di getto, tra l'altro utilizzando il cellulare e non una comoda tastiera, ma sentivo l'urgenza di sfogarmi con qualcuno anche se solo virtualmente.
Precedente: http://www.psicologi-italia.it/psicologia/bulimia/domande-psicologo/1671/disturbi-alimentari.html
Cara Valentina, mi fa piacere che sia tornata a scrivere, forse le parole mie e dei colleghi devono aver toccato qualche tasto che le ha fatto sentire una maggiore consapevolezza del suo profondo disagio.
Ho letto e riletto la Sua lettera e ogni volta percepivo una sfumatura diversa del Suo problema, tutto questo è normale quando si affronta il "disordine alimentare" ed è proprio questa una delle caratteristiche che rende così difficile il percorso terapeutico di questi disturbi. La sua storia, mi sembra di capire ha inizio nella pubertà con un forte senso di inadeguatezza e con sentimenti di invidia e gelosia verso chi percepiva come più adeguato di Lei.
I sentimenti che ne sono scaturiti, rabbia, impotenza forse sono diventati atti distruttivi diretti contro se stessi con effetti patogeni.
Nel suo scritto parla del rapporto con sua nonna, con suo nonno fa un cenno molto critico a sua madre ma non compare suo padre, mi chiedo se sia stato un padre assente e/o ipercritico come, mi capita spesso di vedere nella mia pratica professionale.
La complessità di questo disagio, non rende possibile per quanto mi riguarda essere esauriente in questa sede. Le domande e le riflessioni sarebbero tante e non avrebbero senso senza un dialogo.
Le rinnovo, pertanto, l'invito a fidarsi ed affidarsi ad un percorso terapeutico che possa accogliere, elaborare e trasformare con lei questo profondo malessere che non la fa vivere, ma solo sopravvivere.