come educare i nostri ragazzi?
Il problema dell’educazione, di quale educazione sia necessaria per formare bambini, adolescenti e i giovani, ha sempre investito tutte le società in ogni epoca.
Sappiamo che ogni pedagogia è sempre fondata su un’antropologia e questo sta a significare che per poter educare, dobbiamo prima sapere quale tipo di cittadino sia desiderabile, quali aspetti valorizzare e quali competenze formare.
Ogni società ha avuto il proprio impianto pedagogico, in sintonia con i valori dell’epoca, così da definire i parametri essenziali del futuro cittadino e i ruoli delle istituzioni, come la famiglia e delle diverse agenzie, come la scuola o la Chiesa.
Ogni epoca, inoltre, ha stabilito i propri parametri di “normalità”, prevedendo per chi non rientrasse nella definizione data, destini diversi: emarginazione, severe punizioni scolastiche, allontanamenti, attribuzione di colpe e di peccati morali.
Ma vi sono stati anche periodi, in cui si è lavorato per il “recupero” dei così detti “anormali”, cercando di riabilitare le funzioni lese, mettendo a punto metodi e strategie di riabilitazione specifici, basti pensare al lavoro di Itard o di Seguin o anche alla Montessori stessa[1].
Con il tramonto dell’800 e la progressiva industrializzazione della società, le persone hanno modificato il proprio stile di vita, le abitudini e i metodi di lavoro.
Si è passati dalle attività agricole a quelle sempre più industriali, determinando un passaggio importante nella vita dell’uomo, al punto da incidere sulla percezione stessa della società e della famiglia.
Tutto questo ha portato a modificare i rapporti stessi fra le persone e a rimettere in discussione la struttura della famiglia stessa[2].
I mutamenti legislativi, come l’approvazione del divorzio, hanno inoltre contribuito a dover ripensare la famiglia che, da chiusa, monolitica e ben strutturata è passata ad essere aperta e soggetta a cambiamenti continui.
Tutto questo ha avuto profonde ripercussioni sul concetto di “educazione” stesso, il quale, pensato e modellato sull’idea di una società statica e strutturata, si è dovuto confrontare con una realtà fluida, difficilmente definibile ed estremamente dinamica.
Insomma, gradualmente si è passati ad una società multiculturale, aperta, dinamica e complessa, una realtà difficilmente leggibile secondo un’unica ottica e da una sola prospettiva.
Anche gli affetti si fanno più labili e mutevoli e la scuola, agenzia deputata all’educazione e alla formazione si è trovata ad affrontare una realtà più complicata perché difficilmente leggibile; le domande da porsi riguardano il ruolo della scuola stessa, quali funzioni abbia, quale formazione dare e come essere di aiuto per favorire il processo formativo di ogni allievo, rispettandone i tempi di apprendimento di ognuno. La scuola, da trasmittente di saperi, è divenuta agenzia di promozione sociale, aiutando il soggetto a costruire le conoscenze e a valorizzare le esperienze soggettive.
Anche i genitori, si son trovati a svolgere un compito molto più complesso rispetto al passato; se un tempo era richiesta l’obbedienza e la passività del soggetto, ora al centro del processo formativo ed educativo c’è il bambino, con i suoi ritmi e tempi di apprendimento.
Gradualmente la sensibilità è mutata e le conoscenze relative alla psicologia dello sviluppo e dell’educazione si sono ampliate; è stata fatta luce sull’inutilità delle punizioni fisiche e sulle percosse, sul danno di un’educazione orientata verso l’umiliazione e la rigidità[3].
Ai genitori e agli educatori è richiesta ora la capacità di ascolto, attenzione ai processi maturativi, le strategie comunicative adeguate e molto altro ancora.
La società però pone anche molti rischi e insidie che danneggiano una sana formazione, basti pensare alle droghe e all’alcool, con i modelli televisivi che incitano all’abuso di queste sostanze.
Anche l’uso della rete stessa, senza una guida, può rappresentare un serio pericolo, così come l’adeguamento acritico verso modelli sociali imposti, come il dover essere perfetti fisicamente, il vestire necessariamente secondo canoni imposti, ecc.
Tutto questo non è assolutamente facile da gestire e per un insegnante, un genitore o un educatore, non è sufficiente la buona volontà perché occorrono anche competenze tecniche e strategie ben definite.
Pensiamo agli adolescenti ingestibili a casa e a scuola, ai soggetti in situazione di handicap o di svantaggio socioculturale, ai ragazzi dipendenti da sostanze.
Quali interventi fornire? Quali strategie adottare? Come intervenire efficacemente?
Da queste domande è sorta la necessità, per molti, di rivolgersi agli specialisti del comportamento umano, come appunto gli psicologi, per riuscire a ritrovare un equilibrio esistenziale e ridurre la sofferenza.
Per molti psicologi, il lavoro da svolgere non può basarsi unicamente sui colloqui individuali con il bambino o l’adolescente problematico ma occorre lavorare sulle competenze genitoriale, al fine di responsabilizzare i primi diretti responsabili dell’educazione dei figli.
I primi responsabili diretti nell’educazione dei figli, sono appunto i genitori e spetta appunto a questi gestire le dinamiche familiari necessarie affinché i figli possano crescere in modo equilibrato e in un ambiente che sappia rispondere in maniera adeguata alla richieste formative dei soggetti.
Per riuscire in questo intento non possiamo far leva unicamente sugli aspetti cognitivi o comunque tecnici del processo educativo, ma occorre affrontare anche la dimensione affettiva, ovvero, imparare a riconoscere le emozioni in se stessi e negli altri per saperle gestire e controllare.
La nostra cultura ha sempre sottovalutato il ruolo delle emozioni nel processo formativo, considerandole più un elemento di disturbo che non una risorsa, utile ad incrementare le competenze e a motivare il soggetto ad apprendere, non solo in termini puramente nozionistici, ma anche comportamentali ed adattivi[4].
La nostra cultura ha sempre considerato la dimensione intellettuale prioritaria e superiore rispetto a quella fisica. Il lavoro intellettuale ha sempre goduto un maggiore prestigio rispetto al lavoro manuale, come ad esempio quello artigiano; negli ultimi anni comunque, complice la cultura americana, il corpo ha subito un nuovo passaggio di grado, infatti, grazie allo sport competitivo, oggi l’individuo abile nel basket o nel football, non ha niente da invidiare al medico o all’ingegnere, anzi. Tuttavia, anche in questo caso puntare il riflettore solamente sulla dimensione fisica, strutturata solamente in termini di efficienza, funzionalità ed estetica, porta con sé tutta una serie di altre problematiche, tipiche della nostra epoca, che vanno dalla non accettazione di sé, all’anoressia, alla bulimia. Il punto cruciale è proprio questo: focalizzare l’attenzione su quella linea di confine che unisce e separa allo stesso tempo il corpo, con la mente ed il mondo esterno: l’emozione. Le emozioni rappresentano le reazioni fisiologiche a determinate situazioni o stimoli esterni e l’uomo spesso, troppo preso dalle distrazioni quotidiane, difficilmente riesce a distinguerle, riconoscerle e gestirle in maniera costruttiva. Le emozioni per l’uomo moderno sono un qualcosa del tutto sconosciuto e di difficile identificazione; sono un universo sommerso che condizionano i nostri rapporti interpersonali, con i colleghi, gli amici, il partner e sono tra l’altro, alla base della nostra disponibilità ad apprendere in maniera significativa. Le nostre esperienze di vita sono supportate dalle emozioni che fungono da motore motivazionale. E’ l’emozione che rende più o meno pregnante e significativa un esperienza ed è quella che permette di lasciare tracce nella nostra esistenza in maniera determinante o superficiale. L’emozione dà il tono all’esperienza e la forza con cui rimarrà impressa nella mente, l’apprendimento di determinate nozioni. Come chiarisce Goleman[5], ogni individuo è dotato di abilità intellettuali ed emozionali, che non operano su piani distinti ma interconnessi che lavorano in sinergia nelle diverse esperienze di vita umana: dal piacere al desiderio, dalla cognizione al processo di formazione e di apprendimento.
Ecco che allora questa visione condiziona anche l’atto di educare del genitore, che non può essere semplicemente fornito ma deve essere necessariamente costruito attraverso la mediazione di una relazione che sia significativa non soltanto sotto il profilo dei contenuti da trasmettere ma anche da un punto di vista affettivo perché senza la forza delle emozioni condivise fra adulto ed allievo, non si determina nessun apprendimento duraturo e realmente significativo.
Un genitore freddo sterile che si focalizza unicamente sulle raccomandazioni e sulla trasmissione di contenuti dall’emittente al ricevente, può solo dar luogo ad una relazione vuota, all’interno della quale difficilmente si manifesterà una crescita sana ed equilibrata.
E’ logico quindi cominciare a ripensare i processi formativi, ribaltando quella che da sempre è stata la consuetudine dell’educatore: reprimere gli impulsi emotivi, la vitalità, in modo da favorire l’apprendimento delle regole. Tutto sembra concordare con questa filosofia, ne è una prova tangibile la richiesta di obbedienza, nella convinzione che solo attraverso la repressione delle cariche vitali sia possibile formare il carattere e consentire ogni forma di apprendimento. Nuovi settori di ricerca indicano invece la possibilità/necessità di uscire da questa ottica, per adottare un diverso modo di lavorare, dove l’emozione non è più da reprimere ma da formare, considerato motore essenziale della pratica educativa. La crescita e la maturazione degli individui sono sempre state considerate in relazione al dominio delle passioni e al loro progressivo discostamento, a favore dell’attività cognitiva, che deve portare gradualmente ad una piena e totale razionalizzazione delle cose e dei fatti. Questo si verifica anche a scuola e non solo in famiglia: le attività di drammatizzazione e di gioco, le ore dedicate alla creatività e manipolazione, vengono del tutto abbandonate quando il bambino dalla materna, fa il suo ingresso nella scuola primaria. Tutto si gioca dietro il banco, il corpo è ormai dimenticato, si deve solo ascoltare, memorizzare e ripetere. Le moderne neuroscienze hanno ormai ben evidenziato come l’apprendimento dei comportamenti avvenga attraverso il rapporto che si stabilisce tra il sistema cerebrale umano e l’organizzazione delle informazioni, sotto forma di stimoli, che derivano dall’esperienza che il soggetto fa del mondo in cui vive. Il messaggio ha una duplice valenza: da una parte tiene in considerazione la struttura di base genetica, che è unica per ogni individuo, dall’altra il particolare legame che essa stringe con i diversi vissuti.
Partire dal corpo significa recuperare la sensorialità, l’emozione che è alla base del percorso di apprendimento, dando nuovo significato al sentire e al percepire. L’ottica Spinoziana per cui mente e corpo sono un unico e medesimo individuo, coincide con le dottrine orientali che vedono l’uomo come una sintesi mente-corpo e che solo una pedagogia negativa può scindere queste due parti, rendendo l’uomo incompiuto ed infelice. Tornare ad essere con il proprio corpo vuol dire allora cercare, attraverso il gioco, il teatro, di sperimentare, riconoscere e gestire al meglio le proprie emozioni, puntando i riflettori non più sulla sola produzione cognitiva, ma anche sulla dimensione gestuale e recitativa, dove sia possibile sperimentare come i due piani azione/pensiero siano intimamente connessi, grazie alla mediazione del “sentire”.
[1] Cambi F., Le pedagogie del Novecento, Laterza, Roma 2005
[2] Cambi F., Ulivieri S., Storia dell’infanzia liberale nell’Italia liberale, La Nuova Italia, Firenze, 1994, pp.23 e ss.
[3] Cambi F., Cives G., Fornaca R., Complessità, pedagogia critica, educazione democratica, La Nuova Italia, Firenze, 1995, pp. 54 e ss.
[4]Manucci A. (a cura di ), L’emozione fra corpo e mente: educazione, comunicazione e metodologie, Del Cerro, 2006, pp. 85 e ss.
[5] Goleman D., Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1996 pp. 32 e ss.
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