Principio di solitudine
IL PRINCIPIO DI SOLITUDINE
la compensazione dell’infante inadeguatezza nell’essere vivi
Ho sentito la necessità in più occasioni di approfondire una mia personale dinamica interna che, sento, vedo, nel rapporto con pazienti, amici, familiari e che percepisco nell’osservazione saltuaria dei comportamenti di personaggi pubblici, artisti, scrittori, sportivi. Insomma in tutti.
Uomini e donne vivono abbracciati al tentativo di rivedere una parte di se stessi nell’altro, nel gruppo, anche in un animale domestico, in un libro, un film, una canzone ecc… In qualsiasi strumento cioè utile a far scorrere una parte profonda del nostro mondo più intimo e incompreso verso emozioni che possiamo sentire e delle quali, pertanto, comprenderne il sovra-pensiero emergente.
Dicevo, è da parecchio tempo, un tempo indefinito ma prezioso, che coltivo l’idea che dentro a una società multidimensionale, composta da differenti livelli di appartenenza (dimensioni), ci rapportiamo in una rete sempre più fitta e interconnessa, ma anche molto internet-connessa, media-connessa, social-connessa, definendo però sempre di più i confini del nostro elemento di riconoscimento.
Ad esempio: se soffro di attacchi di panico allora il mio gruppo sarà, su Facebook, quello relativo a chi come me soffre o ha sofferto di ansia, attacchi di panico. Già chi soffre di qualche sindrome affettiva depressiva è da considerarsi a un livello di consapevolezza differente dal mio.
Come dire:” Solo chi ha vissuto quello che ho vissuto io, potrà capirmi, aiutarmi”.
Ma poi, nella realtà dei fatti, accade che nessuno può vivere nello stesso modo quello che vivi TU. Possiamo immaginare quella persona in quella situazione ,ma non essere lei con il suo identifico vissuto. Possiamo empatizzare, certamente, ma spesso lo facciamo seguendo delle nostre teorie implicite che ci creano equivalenze errate.
Es: siccome lui ha sofferto d’ansia allora può comprendere la mia, solo una mamma che ha perso il proprio figlio sa quello che prova un’altra mamma che ha perso il proprio figlio, se non hai mai sofferto o gioito nell’amare allora non hai amato mai. Ma i casi in realtà potrebbero essere innumerevoli e riferibili in ogni campo vitale:amicizia, amore, famiglia, lavoro, ma anche sport, amicizie virtuali ed immedesimazioni letterarie. Queste ultime, ad esempio sono alquanto interessanti, perché leggendo un fumetto, un libro ma anche giocando a dei videogiochi, ci si può immedesimare nel personaggio e attribuirgli delle emozioni che in realtà non sono le sue ma le nostre. Accade infondo lo stesso nei rapporti interpersonali.
Quando lo stato emotivo suscitato dall’immagine o dalla situazione che si palesa è toccante, intenso ed entra in risonanza con elementi rimossi o dissociati del nostro passato, in quel momento, ci difendiamo proiettando un pregiudizio, applicando una nostra teoria che ci informa che: data una certa situazione la persona “normale” dovrebbe reagire in un certo modo per noi ben definito. Ogni cosa che esce dal nostro schema teorico diviene “non normale” in quanto non compreso. Non è compreso il nostro bisogno più profondo.
Pertanto tutto ciò che ci parla nel profondo suscita l’emersione di elementi del Sé sino a quel momento non compresi pienamente e, forse, che non saranno compresi nemmeno successivamente. Se l’emozione associata sarà piacevole allora permetteremo a una parte di quell’oscurità di farsi luce nel nostro vivere altrimenti la rispediremo in quel profondo dal quale è emersa o negheremo il suo valore di forza motrice del nostro Stile di Vita. Nel muoverci in una rete che è sempre in un movimento concettuale, fisico ed emotivo, cerchiamo allora di adattarci per non perdere il senso del Noi. Perché il senso del Noi diviene, a un certo punto del nostro procedere individuale, espressione del Sè. In situazioni personali di stress può divenire anche sostituto dell’espressione del Sé. Ma in questo modo sostituisce la consapevolezza dell’Io nella gestione delle interferenze che gli stimoli esterni possono provocare nella manifestazione delle pulsioni interne. Pulsioni intese come bisogni che pulsano per “obbligarci” a muoverci verso la nostra indipendenza .
Essere indipendente equivale a essere non-dipendente da schematismi personali e teorie del gruppo a cui omologarci perdendo il senso dello sperimentare le differenze tra l’Io e l’Altro.
L’individuazione delle differenze all’interno di un sistema agglomerante ed uniformante, richiede forte autostima, buon principio di realtà, empatia, capacità di discriminare tra i propri bisogni e quelli degli altri.
Quindi, quando pongo l’accento sulla capacita di osservare, valutare e comprendere le differenze tra le persone non mi pongo assolutamente la domanda “Lui è migliore di me, o lo sono io?”
È una domanda che verrebbe posta seguendo quelle teorie implicite del tutto personali su cui avevo. Sarebbe una domanda priva di una risposta perché qualsiasi risposta sarebbe una distorsione della realtà. La realtà oggettiva è che siamo differenti quindi non confrontabili e quindi nessuno è migliore di nessuno in quanto, tutti sono differenti da tutti. Ogni individuo è allora speciale tra gli speciali. Quindi “normale”.
È un ragionamento che appare forse sin troppo lineare ma la realtà viene sovra-strutturata per poterci perdere in finzioni, che permettano l’illusione del raggiungimento di mete che possano appagare il nostro bisogno di superiorità. Si cerca un qualcosa in noi che possiamo proiettare nel gruppo in modo tale che quest’ultimo possa rispondere con un feedback appagante e per noi confortante. Deleghiamo al gruppo la responsabilità del nostro comportamento perché è nella solitudine che creiamo le nostre teorie più “veritiere” ma è solo nel gruppo che possiamo renderle reali e possiamo verificarne l’attendibilità. Se il gruppo le confuta spesso la soluzione è cambiare gruppo, dopo aver negato il valore delle differenze, per salvare l’immagine sacra che ci siamo creati di noi stessi nel tempo. Se è sacra allora crediamo in quell’ideale incondizionatamente e siamo pronti a fare di tutto per sostenerlo.
Siamo anche pronti a sentirci “i più speciali”, quindi a tornare a essere soli.
Nel tempo, ho allora riflettuto sulla mia storia e sullo Stile di Vita che mi sono creato e che ho imparato a comprendere anche grazie all’ascolto, spesso sofferto, di critiche alla potente immagine sacra che mi ero, come un po' tutti, creato sin dall’infanzia. Mi sono poi domandato cosa rimaneva di me una volta eliminate le sovrastrutture più inutili per il raggiungimento di un equilibrio psico-fisico e individuale-sociale che mi mettesse davanti alle mie reali potenzialità e limiti. Nei limiti personali penso di aver trovato molto di quello che stavo cercando.
Sono questi ultimi che infatti definiscono la portata delle nostre potenzialità.
I limiti sono a volte reali, a volte funzionali ma sono tutti utili all’evitamento dell’annientamento dell’Ideale del Sé. I limiti ci permettono di conservare la nostra potenzialità e l’illusione di avere sempre una seconda occasione. Ci permettono anche, se osservati oggettivamente e, soggettivamente vissuti con la giusta frustrazione, di sperimentare soluzioni maggiormente adattive per il superamento del limite stesso. A volte può accadere che la finzione, costruita alla salvaguardia dell’immagine sacra del Sé, eluda la percezione dei limiti forniti dalla società e dalle sue regole, oltre che dal nostro corpo. Negando l’impatto emotivo sottostante l’azione creiamo piccole cicatrici nella “struttura muscolare del Sè”.
Portando il suo tessuto connettivo a ispessirsi e irrigidirsi. Si crea un Io ipertrofico nelle sue funzioni di analisi e sintesi dei dati che la realtà ci invia agli organi di senso. Questo comporta uno supremazia dell’individualità sulla cooperazione.
Intendo con cooperazione la possibilità di muovere il nostro Stile di Vita verso la condivisione di parti di Sé adattive in parti dell’altro ricettive.
L’accoglienza dell’Altro in Noi richiede l’apertura verso la possibilità di non essere potenti come l’infante che ci governa richiede e in certi momenti “vuole” essere considerato.
Quindi, percorrendo la strada tracciata dalla riflessione su cosa accade nella mia vita e nella vita delle persone quando quell’infante piange i suoi bisogni (dormire, mangiare, andare di corpo,essere accudito, ma anche sentirsi al centro dell’attenzione per evitare di trovarsi da solo di fronte al pericolo), lungo quella strada ho notato che potevo forse raccontare una nuova personale teoria implicita. Che rischiavo di cercare e di trovare delle equivalenze invece che delle differenze.
Allora mi sono posto una sola domanda, da dove nascono le nostre differenze? Perché se è vero che ognuno di noi agisce in modo differente allo stress o alle soddisfazioni della vita (in modo simile quindi non uguale), è anche vero che man mano regrediamo verso un Sé infantile (alle origini della formazione dell’Io) la nostra vita pensante, che pur esiste, si semplifica di molto e si arrivano ad esperire delle proto emozioni (bello, brutto, piacevole, spiacevole).
Quindi le differenze rimangono principalmente nel confronto tra le caratteristiche innate temperamentali e tra le influenze educazionale di chi si prende cura del neonato. Allora, forse da questo punto della formazione di un prototipo di Stile di Vita futuro possiamo scoprire come l’Io, in fase di maturazione funzionale, gestisce le differenze esistenti fuori dal Sé per rendere l’individuo un sistema funzionale col fine di integrare corpo e mente e renderlo socialmente adattato.
Ritengo esista sin dalla nascita, in linea con le teoria adleriane e biopsicosociali dello sviluppo dello Stile di Vita, uno stimolo interno, una pulsione/bisogno che spinge, in linea con le teoria motivazionale di Maslow, alla auto-conservazione , per passare dalla stima di sé alla auto-affermazione. Esiste una forza-stimolo che motiva il corpo a reagire alle richieste dell’ambiente ancor prima che la mente raggiunga un minimo livello di consapevolezza di sé (18 mesi-3 anni). Tale forza risiede in una sensazione. Qualcosa che non si può ancora sentire consapevolmente perché la memoria ancora non riesce a contenere e conservare l’esperienza emotiva.
Il neonato ha la sensazione che il nuovo l’ambiente è meno protettivo di quello uterino e richiama attenzione per poter vivere. Il neonato può vivere e mostrare tutto il suo disagio perché dentro di lui esiste il senso di inferiorità. Ma non basta. Occorre anche un altro elemento fondamentale, una spinta ad agire. A muoversi verso una proto-socializzazione che gli permette di ricevere gli aiuti necessari alla sua sopravvivenza. Sviluppandosi fisicamente acquisisce anche nuove capacità nella sintesi, analisi e gestione degli stimoli che il mondo gli invia. Crea cioè il suo mondo interno personale seguendo una linea di “condotta” che necessita dell’educazione alla cooperazione per giungere a mete positive di autoaffermazione.
Crea le proprie relazioni interne ed esterne, le proprie preferenze e teorie implicite, le proprie finzioni all’interno di un ecosistema maturo e coerente, che potrà subire in parte cambiamenti ma che troverà la sua fissa dimora nello Stile di Vita prototipico dei primi due anni di vita. Lo Stile di Vita adulto quindi continuerà ad organizzarsi in strutture che seguiranno le direttive di un Ideale personale. L’Ideale guida è sempre la compensazione o l’iper-compensazione del sentimento di inferiorità più o meno rafforzato all’interno della regolazione dell’equilibrio tra volontà di emergere (volontà di potenza) e il sentimento sociale. L’equilibrio, che deve avvenire per poter esistere un Sé adattivo, è regolato non tanto dal complesso di inferiorità (qui mi scosto con rispetto dalla scuola adleriana a cui appartengo ponendo un desiderio di apertura ad una discussione in merito) ma dal principio di solitudine. Ritengo si possa considerare il complesso di inferiorità a ragione una evoluzione patogena del sentimento di inferiorità. Ritengo però che possa anche esistere, all’interno di ogni bambino, un principio guida innato il principio di solitudine : il regolatore innato della capacità individuale di integrare gli stimoli esterni con elementi percepiti di sé, dei quali non si ha consapevolezza. È cioè solo grazie alla percezione proto emozionale e corporea delle esigenze di conforto, di care-giving, che il bambino sente l’assenza del tutor. È nell’assenza che vive il bisogno dell’altro. Ma è solo grazie alla presenza della regola emozionale (principio di solitudine) che l’Io immaturo sarà in grado, nel primo anno di vita, di vivere il rapporto assenza/presenza.
L’Io raccoglierà, analizzerà e creerà una prima sintesi dei dati dell’esperienza corporea ed emozionale in modo che il Sé del bambino possa interiorizzare un rapporto con l’altro come positivo o negativo , utile o non utile, spaventoso o non spaventoso. Sviluppando, in tal modo, il pensiero dicotomico che la teoria della psicologia adleriana inserisce nello schema di appercezione antitetico.
Aderire al principio di realtà permette di poter discriminare le differenze tra il dentro e il fuori, tra uno stato emotivo e l’altro, nel rapporto con una realtà percepita come inferiorizzante. Sarà però il principio di solitudine a tracciare il confine entro il quale il sentimento di inferiorità si vincola e ci vincola al principio di realtà.
Il principio di solitudine risulta allora antecedente al principio di realtà e al sentimento di inferiorità.
Nella teoria adleriana il sentimento di inferiorità che si sviluppa in ogni individuo nell’infanzia da origine a comportamenti volti al suo superamento. Tali strategie difensive hanno come guida una meta ambiziosa. Una meta personale di superiorità. Tale meta mette in movimento una serie di organizzazioni comportamentali che, coerenti con l’obiettivo, organizzano la realtà percepita in schemi di appercezione antitetici. Tali schemi già nei primi 4 anni di vita permettono la formazione del nucleo del nostro futuro e adulto Stile di Vita. Del nostro Sé. Quando allora, ad esempio, un bambino è spaventato dal buio può capitare che, in base al suo schema di appercezione, sia in una situazione di minus e voglia elevarsi superando il proprio limite. Questo perché magari quando fa il pisolino alla scuola materna si accorge che solo lui manifesta fortemente il desiderio di una luce. Allora questa esperienza può provocarli un senso di inadeguatezza. Se ha un temperamento energico attivante, non evitante, il bambino, con il supporto di una famiglia stimolante e incoraggiante, riuscirà brevemente a compensare positivamente la sua paura del buio rinunciando alla luce e magari trasformando il contenuto delle sue paure in una attività creativa.
Se il pensiero creativo di tale bambino è ben sviluppato allora potrà permettergli, ad esempio, di diventare magari (mi lascio trasportare un po' dalla immaginazione) un famoso scrittore di romanzi horror. In questo caso avrebbe raggiunto una iper-compensazione. La iper-compensazone risulta positiva poi se il successo personale non annulla il rapporto di condivisione con la società e se il bambino, oramai adulto, trova un giusto equilibrio tra il suo successo nel lavoro e gli altri compiti vitali.
Io ritrovo nella clinica privata e nel lavoro che svolgo in una comunità con numerosi residenti Nord africani che, quindi, hanno alle spalle numerose esperienze luttuose, ma anche nei rapporti di amicizia e più intimi, i contenuti organizzatori dello Stile di Vita definiti dalla scuola adleriana. Quindi in tutta i miei compiti vitali.
Però se il sentimento di inferiorità, compensato in modo più o meno consapevole, derivasse semplicemente dalla esperienza ripetuta del senso di inferiorità, nella società narcisistica moderna quel bambino che iper compensa diventando un uomo di successo troverebbe in quel successo il compimento del suo processo di crescita e il sentimento di inferiorità sarebbe addirittura controproducente.Sarebbe meglio avere un complesso di inferiorità! Cercherò di far luce sulla mia provocazione.
Vivendo in una società liquida, dove cioè la struttura famigliare non è più l’unico centro della formazione di un bambino (il bambino nasce in una società multidimensione e, aggiugerei qui, multicentrica) dove si vive in rete, connessi gli uni a gli altri, dove ognuno ha una opinione su tutto e ha desiderio di esprimerla ad un numero possibilmente esteso di persone, dove emerge il desiderio diffuso di avere un pensiero dominante ma non solitario, in una società fatta in questo modo, le persone possono affermare solo una parte di sé.
Nella formazione del carattere tendono a prevalere le sollecitazioni verso l’essere personaggi di una tragedia collettiva (la tragedia di Narciso). Mentre sarebbe più costruttivo in senso utile alla formazione della propria personalità riappropriarsi dello status di attore partecipe e critico.
Ma nello società liquida si parte troppo spesso da spettatore. Lo spettatore è solo nel buio della sala, mentre gli attori sullo schermo brillano delle loro fantastiche, a volte tremende, spaventose o intense vite. Lo spettatore quindi, che ha come potere la sua immaginazione, immagina di essere il personaggio non l’attore.
Un sano sentimento di inferiorità dovrebbe permettere allo spettatore di creare lui la sua storia uscendo da quell’angolo buio. Il problema è che quando prova a farlo non può provarci da solo ma ha bisogno della cooperazione degli altri.
Il neonato ha, per sua fortuna, intatto il potenziale per divenire Attore di una vita che però dovrà costruire superando molti ostacoli. Mettendo alla prova la propria resilienza. Il senso di essere inadeguato rispetto il mondo ha uno scopo primario. Come ho detto in precedenza: quello della auto conservazione. Cosa fare per sopravvivere all’entrata nel mondo?
Cercare in tutti i modi di non rimanere solo.
Se non ci fosse l’operazione “evitamento dello stato di solitudine” non si potrebbe avvertire un futuro sentimento di inferiorità in quanto mancherebbe quel principio basilare per la salvezza dell’uomo che è : “Cerco un fuoco per scaldarmi, per tenere lontano il pericolo e per riunirmi in gruppo.In gruppo si è più forti.” Esisterebbe solo :”Cerco un fuoco per scaldarmi e tenere fuori il pericolo”. In questo modo la società degli uomini e delle donne non si sarebbe evoluta. Non avremmo avuto successi come nella scienza, nella medicina, nello sport.
Nemmeno la psicologia sarebbe nata perché solo attraverso lo sviluppo di un complesso di inferiorità l’uomo avrebbe potuto, in quelle circostanze, sopravvivere alla propria solitudine. Il complesso di inferiorità avrebbe fatto selezione. Forse semplificando (ma la teoria lo richiede) si avrebbero forse avuti due tipi di compensazioni una “di attacco” e una “di sottomissione”. Una di conquista e una che avrebbe trovato nella malinconia il motivo della resa.
Entrambe le compensazioni, sono negative per la sopravvivenza della comunità.
Probabilmente il mondo sarebbe stato in mano a persone depresse e ossessive. Ma forse è quello che un po' accade anche ora.
Quindi a cosa serve possedere un principio di solitudine innato se esistono le stesse sofferenze? Partiamo da un dato di fatto, a un punto saldo della psicologia individuale comparata: è il sentimento sociale, che se sviluppato, porta gli individui a creare società sane. Dove i suoi partecipanti sviluppano un Sé adattato e sano.
Senza il sentimento sociale, che si intreccia con la volontà di emergere (volontà di potenza), il principio di solitudine mancherebbe della spinta necessaria per regolare l’esperienza emotiva e si cristallizzerebbe in un nucleo patogeno psicopatico (anaffettivo, protoemotivo, dove la distruzione sociale divine strumento per raggiungere il potere personale). Il bambino non potrebbe sviluppare un sentimento di inferiorità ne empatizzare con i sentimenti degli altri.
In questo complesso gioco e intreccio di forze innate e in via di sviluppo, ci può essere sempre un rafforzamento del sentimento di inferiorità sino a giungere a un complesso di inferiorità.
Senza un principio guida innato che fornisce la base per uno Stile di Vita adattivo sarebbe impossibile ricondurre un paziente a quel punto della propria esistenza in cui ha smarrito la strada verso la individuazione differenziata del Sé.
In conclusione, all’interno sistema teorico della psicologia adleriana contemporanea , che è collegata alle teorie biopsicosociali dello sviluppo psico-fisico dell’individuo, sospetto la presenza di una ulteriore e fondamentale forza di crescita che ho chiamato principio di solitudine. Una forza che si muove come principio guida che permette di interiorizzare le esperienze sociali significative nei primi tre anni di vita, che regola l’equilibrio tra volontà di emergere (volontà di potenza) e sentimento sociale e il cui funzionamento è fortemente dipendente dallo sviluppo del sentimento sociale.
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