Alla ricerca della genitorialità: perchè non basta il desiderio per diventare genitori adottivi

La genitorialità adottiva

Alla ricerca di genitorialità perché non basta il desiderio per diventare genitori adottivi.

 di Donatella Guidi* e Donatella Cantù**

La definizione del concetto di genitorialità

L'argomento della genitorialità è diventato negli ultimi anni attuale, sempre più spesso evocato dall'amplificazione di fatti di cronaca che riguardano genitori e bambini, sia quando questi vivono in famiglie nelle quali interviene il tribunale per i minorenni, sia quando vivono tra genitori separati, sia quando vivono in istituto e aspettano di trovare una nuova famiglia. Per la dimensione che il fenomeno dell'adozione sta acquistando, è anche frequente sentire considerazioni sulla genitorialità adottiva da parte di molte persone che hanno avuto un'esperienza diretta o che, attraverso amici e conoscenti, si sono formati un'opinione in materia.

Il tema è tanto frequente, attuale ma anche antico nello stesso momento, da apparire scontato alla riflessione, perché ovvio e intriso di pregiudizi agli occhi della gente. Anche lo psicologo, nel suo lavoro clinico, non va alla ricerca di termini per la descrizione e condivisione delle capacità genitoriali, poiché a confermargli la loro presenza gli basta la percezione di doti empatiche nel genitore.

Pur essendo l'empatia il requisito principale sul quale lavorare in ambito clinico, la comprensione di alcuni significati è tuttavia resa possibile solo ricorrendo alluso della cultura specifica di riferimento. Quando gli operatori pubblici e privati che si occupano del minore attraverso il suo giudice trattano entro un preciso ambito, quello giuridico, l'argomento delle capacità genitoriali, sentono il bisogno di avere a disposizione strumenti idonei per delinearne le caratteristiche. Lo studio dei comportamenti genitoriali adeguati deve ricorrere a termini e concetti per essere decrittato e quindi comunicato in ambiti culturali che hanno altri lessici di riferimento. Ora diventa perciò indispensabile spiegare, rendere specifico, riproducibile e condivisibile l'ovvio e il buon senso, attraverso la definizione del concetto di genitorialità, un'esperienza che appartiene a tutti.

La consulenza in questa materia viene richiesta dal tribunale ordinario nei casi di affidamento del bambino nelle separazioni promosse dai suoi genitori, dal tribunale per i minorenni nei casi di limitazione, sospensione, decadenza della potestà genitoriale o dichiarazione di adottabilità, e, ancora dal tribunale per i minorenni, nelle domande di adozione. Il consulente deve tenere in vista a quale ambito è destinato il parere che esprime e quindi orientarsi a seconda dei requisiti specifici dei quali l'adulto dovrebbe disporre per continuare o iniziare a ricoprire il ruolo genitoriale. Infatti, alla capacità genitoriale si possono attribuire connotazioni a diversi livelli, secondo che si tratti di genitorialità naturale o che si tratti di genitorialità non sopportata dal substrato biologico, quella adottiva.

Seppure a livelli diversi a seconda dei casi, quello che comunque guiderà l'operatore è la verifica, nei genitori, della loro capacità di proteggere il bambino, di occuparsi e preoccuparsi del suo benessere fisico e psichico, farlo crescere[1]. Ciò deve avvenire sia singolarmente che in alleanza di coppia, usando la relazione in modo non ostile[2]. Infatti, la presenza di capacità genitoriali, in sé, non è garanzia di un adeguato comportamento accuditivo. L'attitudine genitoriale può tradursi o meno in capacità a seconda del tipo di relazione di coppia, che può andare dalla collaborazione in vista di un compito comune (crescere il bambino), alla fuga dal compito da parte di un membro della coppia, all'utilizzo uno contro l'altro del compito stesso.

Occuparsi, preoccuparsi e far crescere

    I concetti di proteggere, occuparsi, preoccuparsi e far crescere necessitano di essere meglio illustrati ed esemplificati in tipologie di condotte.

    Possiamo vedere il dispiegarsi del comportamento protettivo del genitore in diversi ambiti:

    proteggere il figlio dall'ambiente nel senso pratico‑fisico del termine, usando comportamenti accuditivi di tipo materiale e igienico; appartengono a questa tipologia di protezione i comportamenti volti a curare la salute del bambino, a rispondere adeguatamente per soddisfare i bisogni che vive, a controllare le situazioni ambientali o relazionali potenzialmente pericolose per lui;
    proteggere il figlio dai suoi stessi vissuti “penosi e dolorosi”; riuscendo ad accogliere e prendere su di sé paure, ansie, gelosie, invidie, ire e sofferenza data dal dolore fisico, finché la condizione infantile è tale da non essere gradatamente in grado di provvedervi;
    proteggere il figlio da se stessi, cioè dall'invasività patologica degli impulsi del proprio sé nello strabordare all'esterno di pulsioni incontrollate; si tratta di agiti di ira e aggressività, condotte fusionali incoercibili, ricerca preponderante della soddisfazione del proprio narcisismo; queste tre tipologie sostengono consuetudini maltrattanti, abusanti e trascuranti;
    proteggere il figlio dal vissuto "penoso e doloroso" del genitore stesso che potrebbe trovare nell'impossibilità ‑ incapacità della condizione infantile di porre argini alle invasioni, una via di scarico ai propri disturbi di comportamento e/o patologie mentali, dalle più lievi alle più gravi; quando l'attribuzione di significati distorti tipica di una patologia psichica genitoriale travasa nella relazione genitore‑bambino, si può strutturare man mano nel bambino una patologia analoga a quella del genitore.

    Possiamo poi trovare il preoccuparsi, l'occuparsi e il far crescere in alcuni esempi più comuni:

    - mantenere la costanza di affetti anche quando il figlio procura frustrazioni: finché la relazione è con un bambino piccolo le frustrazioni attengono maggiormente alla limitazione della propria libertà (tempo da dedicargli necessariamente e improrogabilmente), al di là della quota di deleghe accettabili e utili per il benessere di entrambi; nella relazione con un bambino più grande il genitore deve affrontare le frustrazioni inerenti all'eventuale insuccesso scolastico del figlio o alla sua inadeguatezza nell'acquisire competenze; nella relazione con l'adolescente la frustrazione viene al genitore dalla verifica dell'alterità del figlio rispetto a sé (riguardo a gusti, scelte di vita, opinioni);

    mantenere la stima di sé e la costanza dell'umore di fronte alla frustrazione che gli viene dalla constatazione di non essere più l'unico punto di riferimento per il figlio, quando questi incrementa il numero di relazioni sociali autentiche ed emotivamente significative, come necessario in ogni processo di crescita non infirmata da controspinte simbiotiche; mantenere la stima di sé e la costanza dell'umore di fronte all'invidia e al conseguente impulso di appropriazione o svalutazione delle realizzazioni del figlio, a risarcimento delle proprie frustrazioni esistenziali;
    fornire al figlio la gratificazione narcisistica utile a confermargli le proprie capacità, e la propria amabilità, ma anche la frustrazione utile a ridimensionarne l'onnipotenza, pur senza dargli mortificazioni; così il genitore favorisce nel figlio il consolidarsi del proprio valore/proprio limite, e permette al suo sé di strutturarsi sulle basi dell'autostima, ma dentro i confini dell'esame di realtà;
    realizzare un "contenimento", un "tener dentro" che rispetti il contatto mantenuto e privilegiato con il proprio sé e le proprie risorse per l'adulto che "contiene", poiché questo è l'unico modo di garantire al "contenuto", cioè il bambino, contatto con il se e le proprie risorse; ciò permette al bambino di vivere le proprie esperienze come tali, senza ricorrere a scissioni che impoveriscono lIo: un Io che si arricchisce sperimentando non solo vicende, ma le emozioni a queste collegate, potendo riferirle a sé, senza confondimenti o invasioni simbiotiche, è un Io che può crescere e uscire nel mondo.

    Far crescere emotivamente e fare uscire nel mondo è senza dubbio il traguardo del compito genitoriale. Come può convivere questa affermazione con la necessità di prestare cura, apparentemente l'antitesi della premessa all'autonomia?

    Attraverso l'uso della qualità, squisitamente genitoriale, di modulare le due istanze nello specifico dei diversi tempi della crescita. Ma, soprattutto, infondendo fiducia nelle potenzialità che il figlio può sviluppare, nelle capacità di lui di arrivare gradatamente ad occuparsi da sé del proprio benessere. Nel momento stesso in cui il genitore realizza un buon accudimento, avvia il processo di trasmissione al figlio del senso di sicurezza nelle proprie capacità e la possibilità di utilizzare mano a mano le competenze necessarie per proteggersi e prendersi cura di sé stesso.

    Quindi, il prestare cure è la stessa cosa di favorire l'autonomia: questa definizione può apparire paradossale solo ad un esame superficiale; in realtà è la sintesi stessa del paradosso della genitorialità: non solo tenere dentro e lasciare andare, ma tenere dentro per lasciare andare

    Lo specifico della genitorialità adottiva

    Veniamo ora alla genitorialità adottiva, che, oltre ai requisiti necessari per quella biologica, deve disporne di propri specifici, che non si esauriscono certo con le informazioni o gli apprendimenti offerti da corsi di preparazione previsti dalla legge di riforma dell’adozione internazionale.

    Quella adottiva si costituisce come famiglia con figli affrontando compiti più ardui rispetto a quella biologica. I suoi membri non vivono l'esperienza narcisistica e cementante del rapporto genitore‑figlio, che consiste nel rispecchiarsi fin dal principio nell'altro trovandovi parti di sé; inoltre, non sono favoriti dall'esperienza del "tenere dentro/essere tenuto dentro" fisicamente, e non sono favoriti dalla "continuità", poiché il cammino dell'adozione è costellato di fratture di progetti di vita, di tensioni e battaglie, sia contro madre natura, sia contro le istituzioni, sia contro il parere velatamente contrario delle famiglia adottiva allargata. I genitori adottivi intraprendono un percorso accompagnato dal dolore, che possono elaborare se sono capaci di tenere dentro ed accettare nello spazio interiore; perciò devono poter disporre di una maggiore capacità di "tenere dentro per fare uscire, alla quale il figlio possa attingere mentre compie il suo processo di filiazione

    Dal momento che qui sono richiesti livelli molto alti e complessi di esercizio delle capacità genitoriali, la prima avvertenza per il consulente che compie il lavoro sugli adulti è di non colludere con il loro pregiudizio/pretesa di uguaglianza tra i due tipi di genitorialità. È palese che non si richiede diversa qualità di coinvolgimento affettivo o di desiderio di ricoprire il ruolo genitoriale, ma una capacità genitoriale riparativa che un adulto dovrebbe sapere usare nel territorio che riguarda la protezione del bambino dai suoi vissuti dolorosi o penosi (separazioni, perdite, devalorizzazioni del sé, etc.) e l'analoga protezione dai propri vissuti dolorosi e penosi (sterilità, quindi fallimento, lutto e devalorizzazione del sé, anche quella che porta a volere essere "più buoni", etc.). Oltre a tale capacità riparativa/contenitiva, i genitori adottivi devono possedere anche la capacità di elaborare e raccontare al figlio la storia della sua nascita come figlio adottivo, strettamente collegata a quella della nascita biologica

    Non servono a farlo figlio né il disconoscimento del dolore che ha visitato tutti in famiglia, né l'informazione ricca di dati, fornita con la presunzione che la scelta di "non nascondergli la verità", solo in virtù della sua trasparenza, abbia il potere magico di sciogliere tutti i nodi emozionali ed affettivi dell'adozione. Nel momento della comunicazione e trasmissione a lui delle sue origini, gli permetteranno di vedersi nella continuità ed unità della propria esperienza, a prezzo della consapevolezza del dolore della frattura, che saranno pronti a contenere, operando la necessaria protezione. Presenteranno al bambino una storia che si dispiega attraverso nessi collegati, una storia che narra dell'amabilità del bambino, del desiderio di averlo come figlio, ma anche dei limiti, quelli riproduttivi dei genitori adottivi e quelli accuditivi dei genitori biologici. I capitoli della storia non si disperderanno nelle condizioni economico‑sociali dei paesi in via di sviluppo, o nei sentimenti soccorrevoli mediamente patrimonio di tutte le persone sensibili. Attraverso queste spiegazioni il figlio non può infatti riuscire a costruire la propria identità come appartenente alla sua famiglia adottiva, che, se deve diventare per lui unica, parlerà invece la lingua delle motivazioni uniche e specifiche che gli danno le ragioni della propria filiazione.

    La ricerca degli indicatori della qualità della relazione

    In conclusione, restando nell'ambito di ciò che può sembrare ovvio, il lavoro con il tema della genitorialità ha bisogno di strumenti professionali che possano guidare l'esame delle varie situazioni, come garanzia dal pericolo di facili scivolamenti e proiezioni nel sentimentalismo sovraeccitato ed esibito, se non addirittura solo messo in scena.

    Non è nell'intensità del legame genitore‑figlio, nel bisogno di "averlo", più spesso dichiarato che vissuto, che il consulente può trovare la garanzia di un'adeguata relazione genitoriale, ma nella ricerca e nell'esame di quegli indicatori che gli parlano della qualità della relazione stessa.

    Ma dove cercare? Nella storia del sistema familiare trigenerazionale e nella diagnosi di personalità individuale. Il consulente, a seconda della sua formazione e della sua inclinazione, può verificare la dimensione di questa capacità esaminandola da punti di vista diversi.

    Poiché la capacità genitoriale è in relazione con il vissuto esperienziale di attaccamento e la consapevolezza della eventuale dannosità di questo, è utile un'analisi più approfondita a livello trigenerazionale per esplicare il gioco familiare riproducibile o già riprodotto. Il genitore oggi in questione può non avere elaborato gravi manchevolezze di capacità, riscontrabili invece in episodi o consuetudini di relazione tra i suoi genitori e sé stesso figlio (o i propri fratelli/sorelle) connotate da ogni tipo di malaccudimento, mancato o difettoso accudimento, maltrattamento o abuso, questi ultimi sia fisici che solo emotivi. Spesso l'adulto denuncia la mancata elaborazione attribuendo la responsabilità dei fatti accaduti a cause/eventi esterni, e precludendosi cosi la possibilità di prendere atto della sofferenza che il comportamento dei propri genitori gli ha provocato e continua a provocargli.

    Nel colloquio condotto con strumenti tradizionali, focalizzato sull'indagine di personalità, è utile raccogliere alcuni segnali indicatori di una difettosa o insufficiente attitudine genitoriale: la confusione ricorrente nell'attribuire sentimenti o bisogni a sé anziché al figlio o viceversa; l’insistente introduzione di temi di natura lamentosa, accusatoria e rivendicativa, indirizzati ora al coniuge, ora alle istituzioni; la prevalente narrazione di episodi volti a confermare e valorizzare il proprio sé, anziché utili a delineare le caratteristiche proprie del figlio ed intuirne i sentimenti e bisogni. Utilizzando qui strumenti di indagine intrapsichica, quali i test di personalità, emergono strutture con rilevanti nuclei di narcisismo, o funzionamenti borderline sostenuti dal ricorso prevalente a meccanismi di difesa primitivi, oltre, ovviamente, alle personalità psicotiche. Anche in assenza di una sintomatologia psichiatrica e/o disturbi del comportamento, queste personalità dispongono di un’insufficiente capacità di riconoscere l’altro nei suoi bisogni, sia fisici che emozionali; generalmente tale difetto si incrementa passando dal funzionamento relazionale borderline a quello psicotico.

    Niente esclude che vengano usati entrambi i procedimenti di analisi e verifica, uno a suffragio e conferma dell'altro.

    Restando nel solco dell'ovvio, potrebbe sorprendere che non abbiamo parlato dell'“amore” come sentimento naturale del quale ogni genitore dispone, semplicemente in virtù del proprio ruolo e del desiderio di ricoprirlo, limitandoci invece alla descrizione di comportamenti ed attitudini. Utilizzando il concetto di amore genitoriale, rischiavamo di perderci nella nebulosa di quel tipo di amore che il genitore inevitabilmente prova per la parte di sé che ritrova nel figlio, vale a dire il facile amore per sé stesso. Non avremmo invece visto niente dell'altro tipo, quello tradotto in realtà attraverso i comportamenti adeguati che i genitori devono saper utilizzare nei momenti più difficili del proprio ruolo, quando si prendono cura sempre di quella stessa parte di sé che ritrovano nel figlio, ma per permetterle di crescere, separarsi ed essere diversa da sé.

    * Psicologa, psicoterapeuta, Milano.

    ** Psicologa, psicoterapeuta, Consultorio familiare di Monza.

    [1] D. W. Winnicott, Dalla pediatria alla psicoanalisi (1958), tr. it. Martinelli, Firenze, 1975; Id., Il bambino e la famiglia (1957), tr. it. Martinelli, Firenze, 1973; Id., Sviluppo affettivo e ambiente (1965), tr. it. Armando, Roma, 1976.

    [2] V. Cigoli, G. Gullotta, G. Santi. Separazione, divorzio, affidamento dei figli, Giuffrè, Milano, 1983.

    [3] S. Cirillo, P. Di Blasio, La famiglia maltrattante. Diagnosi e terapia, Raffaello Cortina, Milano, 1989.

    [4] M. Selvini Palazzoli e al., Giochi psicotici nella famiglia, Raffaello Cortina, Milano, 1988.

    [5] J. Bowlby, Attaccamento e perdita, Boringhieri, Torino, 1975; Id., Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, Milano, 1982.

    [6] D. Guidi, N. Tosi, “Genitori di bambini adottati: una sfida per costruire il nuovo romanzo familiare, ovvero una storia familiare condivisa”, in Famiglia e adozione internazionale: esperienze normative e servizi, Quaderni del centro famiglia, n. 15, Vita e pensiero, Milano, 1996; B. Prieur, "Le fratture del tempo nelle famiglie adottive" in Ecologia della mente, 1998, 1.

    [7] P. C., Racamier, Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi,1992, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 1993; V. Ugazio, Storie permesse, storie proibite, Bollati Boringhieri, Torino,1998.

    [8] L Cancrini, “Tossicomani e giocatori: a proposito di temerari”, in Ecologia della mente, 1998, 1; J Bergeret, La personalità normale e patologica, 1974, tr. it. Raffaello Cortina, Milano, 1984.

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    Dott.ssaDonatella Cantu

    Dott - Monza e della Brianza

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