Storie di cui non si vuole sapere più nulla: a proposito di adozione in casi particolari
La legge 184/83, che disciplina l’adozione, negli articoli 6 e 7 descrive le condizioni che permettono l’adozione di bambini in stato di abbandono. Oltre a queste situazioni, più frequenti e conosciute, la legge ne prevede altre regolate dall’articolo 44, il quale permette l’adozione dei minori “in casi particolari”. Anche per questo tipo di domanda il Tribunale per i Minorenni chiede ai servizi psico-sociali di svolgere un’indagine e di inviare una relazione descrittiva su chi chiede l’adozione, oltre che sul minore e il suo ambiente di vita. Ai consultori familiari affluiscono prevalentemente le situazioni individuate nella lettera b dell’articolo 44, e cioè quelle in cui uno dei coniugi chiede l’adozione del figlio dell’altro; se poi il Tribunale accoglie la domanda, il bambino prende il cognome dell’adottante, sostituendolo o aggiungendolo a quello che già ha, secondo i vari casi previsti.
Le domande relative all’articolo 44 non sono numerose, ma nemmeno una cifra insignificante, dal momento che interessano circa il 5-10% del totale di famiglie che chiedono di adottare. Tuttavia, per la modalità con la quale si presentano, potrebbero suscitare scarso interesse professionale nell’ operatore. Questi, se condivide in maniera acritica la visione che la famiglia presenta di sé, è indotto a ritenerle poco più che la ratifica di una situazione già di fatto definita e un passaggio burocratico subito più che voluto dai protagonisti, incluso sé stesso chiamato ad occuparsi delle vicende della famiglia.
Dall’ esperienza di lavoro su questa problematica si può invece dedurre che spesso si tratta di situazioni difficili, che richiedono un’attenzione particolare. Analizzando le caratteristiche ricorrenti, seppure non costanti, incontrate durante questo tipo di lavoro, cercheremo di approfondire alcune riflessioni e delineare ipotesi per utilizzare al meglio il colloquio di indagine. L’intervento possibile, professionalmente mirato, avrà l’obiettivo di trasformare, almeno in parte, la domanda della famiglia, e dare una restituzione che comprenda una rilettura della situazione, pur tenendo fede alla consegna istituzionale.
QUANDO IL PESO DEL PASSATO E’ INTOLLERABILE E IL PADRE ADOTTIVO E’ IL REDENTORE
Famiglia Mancuso Marco Mancuso, operaio trentasettenne, è sposato da tre anni con Veronica, commessa ventinovenne. Due anni dopo la nascita del loro figlio, Andrea, chiede l’adozione di Laura, figlia della moglie. Laura, che ha nove anni, è stata riconosciuta solo dalla madre, che l’ha avuta all’età di diciotto anni, quando era nubile. Poco dopo la nascita di Laura il padre naturale non si fece più vedere; Veronica disse alla figlia che il papà era morto, convinta di evitarle un dispiacere. Poi non ha più affrontato l’argomento pensando che Laura non avrebbe capito; quando sarà grande, ma non sa dire quando, conta di dirle la verità. Laura non domandò mai niente di più del papà e la signora continuò a vivere con la bambina e la propria famiglia, fino a quando con il matrimonio ha messo su casa con il signor Marco. Entrambi i coniugi sono alle prime nozze; il signor Marco é convinto di avere formato una famiglia serena. Quando lui e la moglie si sono conosciuti Laura aveva due anni; questa situazione non ha suscitato nessuna perplessità nel signor Marco che ha subito accettato la bambina. Per lui fare l’adozione significa regolarizzare la loro situazione: così Laura potrà essere uguale ai compagni di classe, ed essere nelle stesse condizioni del fratello. Marco dice di sentirsi a tutti gli effetti padre della bambina; la signora pensa che dopo la pratica potranno essere anche loro una famiglia normale.
Ai colloqui entrambi i coniugi parlano con difficoltà delle loro vicende, e rispondono brevemente alle domande. Senza emozione la signora riferisce di non avere mai cercato il padre di Laura; solo dopo avere tergiversato e minimizzato, racconta di come si sentisse a disagio quando da nubile aveva il pancione. Laura dice che sono venuti perché lei deve cambiare cognome; potrà avere il cognome del papà, come suo fratello e i suoi compagni di scuola. Con questo papà si diverte, gioca con lui.
Famiglia Ferrari Luigi Ferrari, chimico trentottenne, è sposato da tre anni con Svetlana, casalinga trentasettenne. Chiede l’adozione di Andrea, di diciassette anni, e Vladimiro, di nove anni, figli della signora e solo da lei riconosciuti. I coniugi sono entrambi al primo matrimonio; la coppia si é conosciuta in Russia dove il signor Luigi é andato più volte per lavoro, mandato dalla sua ditta. Un anno dopo il loro incontro si sono sposati (in Russia) e poi sono venuti ad abitare in Italia.
Il primo figlio della signora ha padre russo, il secondo francese. La nonna materna ha disapprovato le gravidanze della figlia; in seguito alla nascita del primogenito Svetlana si allontanò dalla casa dei genitori proprio per i conflitti con la madre, alla quale comunque lasciò da crescere il figlio maggiore. Non dice nulla intorno alle proprie emozioni in quegli anni vissuti lontano da casa, senza l’appoggio di un compagno.
Benché Luigi solleciti i tempi dell’indagine, tutta la famiglia é restia a parlare di sé. Svetlana in particolare, forse anche per la scarsa padronanza della lingua, dice pochissimo di sé. Dice però che il figlio minore non conosce con precisione la ragione per la quale sono lì, e che lei, piuttosto che affrontare questo argomento con lui, rinuncia alla domanda fatta dal marito. Sostiene che Vladimiro ritiene il signor Luigi il suo vero padre, perché lei glielo aveva presentato così e in casa tutti si comportano di conseguenza.
Luigi afferma che adottando i ragazzi potrebbe occuparsi di loro sotto ogni profilo: ora li segue in particolare modo per la scuola. Svetlana pensa che la vita dei suoi figli qui in Italia sia più sicura e tranquilla e che l’adozione da parte di suo marito sia una garanzia per il futuro dei ragazzi, se lei dovesse morire. Qui lei si sente sola, isolata, e non le piace il clima; appare triste e depressa. Ad Andrea l’idea di venire in Italia é piaciuta subito, perché questo é l’Occidente, anche se non proprio come se lo immaginava lui; da grande sogna di diventare un gran calciatore. Vladimiro si trova bene qui e vuole diventare chimico; vorrebbe cambiare anche nome, per esempio Matteo. Entrambi condividono l’idea di essere adottati, perché il nuovo cognome sarà più facile di quello che hanno ora. Ritengono che Luigi come padre vada bene.
Famiglia Picciolo Vincenzo Picciolo, postino trentacinquenne, è sposato da otto anni con Rosalia, casalinga trentacinquenne, e con lei ha avuto un figlio, Federico, che ha ora sette anni. Chiede l’adozione di Marco, di tredici anni, regolarmente riconosciuto dal proprio padre, primo marito della signora. Questi, poco dopo la nascita del bambino non ha più dato notizie di sé tanto che il Tribunale per i Minorenni ha pronunciato verso di lui il decadimento della patria potestà.
Rosalia e Vincenzo sono entrambi di origine calabrese, ma si sono conosciuti al Nord, dove la signora si era trasferita dopo la precoce fine del suo primo matrimonio contratto al Sud. Poco dopo il suo arrivo qui, Rosalia si é legata a Vincenzo. Entrambi nutrono nostalgia nei confronti della Calabria, dove vorrebbero tornare se Vincenzo ottenesse il trasferimento.
La raccolta di notizie sul nucleo risulta alquanto difficoltosa per la resistenza dei membri la famiglia a parlare di sé. Al primo appuntamento Vincenzo si presenta di fretta, dicendo che se c’è bisogno la moglie “é giù in macchina” e che lui non deve fare nessuna visita dalla psichiatra perché quello che ha chiesto é solo “un’aggiunta di cognome “. Durante i colloqui Rosalia dice che Marco crede di essere figlio di Vincenzo; dal momento che non ha mai fatto domande sul suo cognome diverso, loro hanno ritenuto opportuno non dargli alcuna spiegazione, in quanto non richiesta. Credono che il ragazzo sia ancora immaturo, “bambino”, e che se sapesse la verità si troverebbe davanti ad una realtà troppo difficile da affrontare. Rosalia non é disposta a dire molto del suo primo matrimonio, e il poco che dice é normalizzante. Sostiene di non aver trovato nessuna difficoltà nell’esperienza di divorziare con un bambino di pochi mesi e venire al Nord, dove non conosceva nessuno.
Vincenzo dice che vuole adottare il ragazzo per far sì che si senta uguale al fratello Francesco; Marco non sa dire molto dell’“aggiunta di cognome”, se non che é d’accordo.
Osservando le storie di queste famiglie, notiamo delle costanti. Alcune, come la separazione dalla famiglia di origine, l’allontanamento dalla propria terra, la vicenda emarginante della madre e l’occultamento delle origini del bambino appartengono al passato; altre al presente e al futuro, come l’idea di famiglia felice e l’aspettativa di adeguamento sociale. Il marito, con il matrimonio prima e con l’adozione poi, redime la moglie e il figlio di lei; chiudendo il cerchio della normalità cancella il passato e garantisce alla famiglia che ha formato e a sé stesso una rinascita socialmente approvata [5].
Attraverso questi romanzi familiari incentrati su una finta morte o una verità non dicibile, la famiglia costruisce un segreto, condiviso benché non deliberato e legato al diniego di un dolore indigerito. La famiglia così costituita, attraverso l’inaccessibilità alle notizie sulla nascita del bambino, propone a questi un’identità in parte falsa, privata della possibilità di fantasticare sul terzo, ma riesce anche a mantenere il silenzio sulla perdita subita dalla madre, lontana dalla propria famiglia e abbandonata dal padre di suo figlio, la prima ad essere rimasta orfana. Il mito della famiglia, costruito sulla meritata felicità, continua così a essere protetto, anche se a prezzo della mistificazione.
L’operatore potrà meglio avvicinare queste storie immaginando e dando voce ai sentimenti dei loro protagonisti. Le famiglie che ha davanti temono di venire etichettate come sbagliate a causa delle loro vicende inusuali e diverse; di venire tuttora, con questi stessi colloqui, trattate da diverse, proprio mentre si sforzano di diventare, se non di essere già, normali.
Se sarà loro riconosciuta la fatica di entrare a far parte di un mondo di regole che fino ad ora non hanno seguito, se vedranno riconosciuto il paradosso di un controllo messo dallo Stato sulla loro vita privata, avranno più possibilità di accedere alla percezione che quello che stanno facendo è un lavoro anche per loro e non il mero disbrigo di una pratica, e forse condivideranno l’idea che i colloqui possono diventare uno spazio da utilizzare anche per sé.
QUANDO IL DOLORE DELLA MORTE E’ INCOMUNICABILE E
LA MADRE ADOTTIVA E’ LA SALVATRICE
Famiglia Viganò Adriana, commerciante di quarantacinque anni, chiede di adottare Elena, figlia tredicenne del marito Giorgio Viganò; contemporaneamente Giorgio, artigiano di quarantatrè anni, chiede di adottare Roberto, figlio diciassettenne di Adriana. Entrambi i coniugi sono al secondo matrimonio, dopo essere rimasti vedovi: Adriana da tredici anni, Giorgio da tre.
E’ Adriana che si attiva per la domanda di adozione, cinque anni dopo il matrimonio. Racconta di avere scoperto da alcuni certificati che lei non è automaticamente diventata la mamma di Elena, come credeva, e ritiene invece di esserlo ormai a tutti gli effetti, anche perché di lei si è occupata a lungo ed intensamente. Parallelamente Giorgio ha fatto domanda per adottare Roberto, perché i due ragazzi potessero avere una situazione familiare anagrafica uguale.
Nella storia precedente a questo secondo matrimonio, Elena è stata in pericolo di vita. La bambina, rimasta orfana della madre, si stava lasciando morire di fame e nessuno riusciva a guarirla; il padre parlava di questo suo grave problema ad Adriana, con la quale in quel periodo aveva frequenti rapporti di lavoro. La signora si offrì di occuparsi della bambina, che poco a poco, grazie alle sue attenzioni, rifiorì. Poi Giorgio e Adriana si sposarono.
La famiglia è disposta a parlare delle proprie vicende personali, familiari e lavorative; Adriana è precisa e dettagliata nel racconto, il marito gentile e collaborante. Gran parte dei colloqui sono occupati dalla descrizione della “rinascita” di Elena, che i medici disperavano di salvare, mentre c’è un blocco emotivo davanti al dolore del signor Giorgio. Descrivendo gli eventi legati alla malattia e morte della giovane moglie, emerge la sua commozione ancora viva, come se il tempo non fosse passato. Riporta numerosi episodi dove i propri parenti, quelli della prima moglie e la seconda moglie si sono preoccupati della sofferenza di Elena; sembra invece che non ci sia mai stata e non ci sia tuttora un’accoglienza per la sua. Racconta una storia dove il dolore dei bambini può trovare un posto, quello degli adulti no.
Giorgio esprime soddisfazione per questa sua nuova famiglia; stima molto la moglie per il rapporto che ha saputo instaurare con Elena e per le sue capacità professionali.
Elena dice di essere molto contenta che Adriana diventi la sua mamma; con lei parla di tutto e le vuole bene. Roberto è invece piuttosto distante da questo evento, che mostra di accettare più che desiderare, dichiarando di sentirsi parte della famiglia del padre che ha perso da bambino.
Famiglia Pagani Marcella, pedagogista quarantenne, sei mesi dopo il matrimonio con Ferruccio Pagani, biologo trentanovenne, chiede l’adozione dei due figli di lui: Nadia, di dieci anni, e Marco, di sette. Un anno prima di questo matrimonio Ferruccio era rimasto vedovo, mentre Marcella è alle sue prime nozze.
Nella coppia Marcella é la più attiva: parla diffusamente e con termini appropriati e competenti delle necessità per i bambini di avere un punto di riferimento sicuro e qualcuno al quale rivolgersi con fiducia, dopo avere passato anni di provvisorietà educative causate dallo scombussolamento familiare conseguente alla drammatica morte della madre per un incidente domestico. Produttiva e decisa, ha già impostato tutta l’organizzazione familiare in modo funzionale; ripetutamente parla dell’impegno che ha messo nel ridare un moto regolare alla vita dei bambini che, fa capire, avrebbero potuto subire dei danni psicologici se fossero rimasti più a lungo allo sbando come erano e a contatto con alcuni parenti della madre che soffrono di disturbi psicologici. L’adozione è per lei il logico completamento burocratico di quello che loro sono a tutti gli effetti, cioè una famiglia. Durante i colloqui Ferruccio interviene raramente ed esprime pochi pareri. La morte della prima moglie, poco più che trentenne, è da lui citata solo per dare ragione delle difficoltà organizzative e della privazione che hanno comportato per i bambini. Nulla viene detto della perdita che ha vissuto Ferruccio.
Nadia e Marco si sono subito affezionati a Marcella ed il rapporto sta diventando sempre più importante. Nadia e Marco si dicono d’accordo con l’adozione, la trovano “una cosa bella”.
Anche nella storia di queste famiglie troviamo delle costanti. La morte della madre, le relazioni interpersonali incapaci di contenere il dolore del vedovo, la funzione salvifica della seconda moglie che si prende cura dei figli, la creazione di un’altra famiglia che l’adozione deve sancire nella sua normalità. Il nuovo genitore, mentre si occupa con dedizione dei bambini, sembra autorizzarsi a non ascoltare il dolore del proprio coniuge, colludendo con la difficoltà di questi a fare i conti con una morte che arriva in un tempo dedicato alla crescita, e perciò troppo precoce per essere sopportata.
Se il figlio diventerà come “tutti gli altri”, il passato sarà completamente cancellato e anche loro avranno (o ri-avranno?) quello che tutti gli altri hanno. La resistenza a parlare occulta bisogni importanti nella coppia, che affida ad una pratica burocratica il risarcimento della perdita e della sofferenza, senza doverle ripercorrere. Il bambino, attraverso la rinascita filiale, deve diventare colui che fa rinascere la famiglia; ma, non essendo questa una richiesta esplicitabile, il figlio riceve un bagaglio del quale non è dichiarato il contenuto. lutto, rimasto non riconosciuto come appartenente alla famiglia, è destinato ad essere inelaborato, fissato ed espulso .
Si può cercare di avvicinare queste famiglie riconoscendo l’importanza che ha avuto, e che ancora ha per loro, il tentativo di seppellire il passato; allo stesso modo va valorizzato lo sforzo, che loro presentano come prioritario, di dare una presenza serena al figlio, di risparmiare almeno a lui angosce e dolori. Possono così sentirsi maggiormente comprese in un compito molto impegnativo, che ha richiesto tutte le forze che avevano a disposizione.
CONCLUSIONI
Le persone che aprono una domanda riferita all’articolo 44 vogliono essere legittimate a diventare genitori e vogliono essere riconosciute socialmente “normali”. Le loro storie appaiono completamente diverse da quelle raccontate nelle indagini più frequenti, cioè quelle condotte con coppie che desiderano un figlio che non hanno e che non conoscono. In realtà, la problematica e la motivazione nascosta spesso non sono molto differenti: in entrambi i gruppi spesso troviamo persone che, attraverso la conquista della normalità, pretendono dall’istituzione un risarcimento per ciò che hanno perso nonchè la riparazione dell’immagine di sé. Benché i protagonisti delle storie qui narrate portino motivazioni differenti, hanno aspettative simili a quelle di molte coppie sterili che, sentendo la loro condizione un’ingiusta privazione imposta da Madre Natura, rivendicano come un diritto l’idoneità all’adozione.
di tacitare il dolore di una o più perdite, l’ultima delle quali è stata la fertilità.
Dott - Monza e della Brianza
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