MARGHERITA E LE FERITE NASCOSTE
MARGHERITA E LE FERITE NASCOSTE
Margherita è venuta da me profondamente scossa: ha gli occhi rossi e un evidente imbarazzo sul volto.
Parla con difficoltà. Appare reticente. Così ho il tempo di osservarla con calma; al primo impatto si presenta respingente. Sarà la pettinatura un po’ trasandata, o il vestito non particolarmente alla moda, è l’insieme a risultare strano. Forse sono i numerosi tatuaggi estesi a tutte le parti del suo corpo non coperte e che arrivano a spuntare in maniera invadente dal collo della camicetta e dalle sue maniche neanche troppo corte. L’età è un punto di domanda, ma certamente è una persona “vissuta”, non più giovanissima. E’ evidente la sua voglia di parlare, di raccontarsi e di essere ascoltata. Forse le pesa la solitudine, quella realistica, ma anche quella “sentita” nei suoi pensieri poco comunicativi. Le sue parole sembrano provenire da lontano, ed evocano un deserto di relazioni povere e poco rilevanti, adombrando un'unica compagnia possibile: l’angoscia.
Si fa strada un racconto doloroso dove le parole si snodano, seppure a fatica, tra i ricordi più recenti e quelli più in là nel tempo. Su tutto incombe l'Impronunciabile: il Male si è rifatto vivo.
Qualche tempo prima Margherita aveva subito un gravoso intervento chirurgico per una neoplasia importante.
Era ritornata a sorridere dopo l’intervento: le avevano detto che tutto era andato bene, e a “perenne” ricordo dello scampato pericolo aveva deciso di farsi tatuare sul braccio il volto del figlio cui aveva dovuto rinunciare per il manifestarsi della malattia. In effetti lo si nota, ma si è anche distratti da altre forme, colori e ghirigori che lo rendono percepibile solo soffermando lo sguardo sul suo avambraccio. Un figlio mai nato dunque, incarnato in quei segni sulla pelle, investiti dello strano potere di evocare la morte e la perdita, e nello stesso tempo di esorcizzarla.
Ha una bella voce Margherita. Il tono però è depresso.
Dice che la diagnosi del suo Male non l’aveva presa bene. Ancor meno bene aveva preso l’accenno all’inevitabile intervento chirurgico. Ricorda un po’ con rabbia quelle parole ma non vuole pronunciarle per paura del loro rimbombo in testa.
Aveva passato quella giornata nel tentativo di farsene una ragione: “Perché proprio a me?”. Non trovando alcuna risposta, si era accanita a cercare qualche segno premonitore trascurato per superficialità o negligenza. Incapace di trovare indizi significativi, si era lasciata andare alla disperazione, senza decidere se la parte più spaventosa dell'angoscia fosse riferita alla sua vita in pericolo o al futuro figlio senza madre (era incinta di poche settimane). Dopo lunghe ore di panico, inorridita dai fantasmi di morte dietro l'angolo, si era alzata, risoluta e pronta ad affrontare la prova impegnativa di un intervento chirurgico dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima. Anche le inevitabili chemioterapie successive le sono sembrate una prova alla sua portata.
Subito dopo si era attivata per capire meglio se fosse pensabile per lei portare avanti, e in che modo, la gravidanza, consapevole che sarebbe stata sola a lottare su due fronti, perché il padre del suo bambino non era una risorsa spendibile. Aveva cercato consiglio, ricavandone però più confusione che sostegno. Sarà stata la sua fragilità, sarà stato il suo ambiente o il suo isolamento, sarà stato il destino, aveva deciso per l’aborto terapeutico. Un intervento non pragonabile a quello che di lì a poco avrebbe dovuto affrontare. Eppure, da allora la sua mente non aveva avuto più pace. Avrebbe mai potuto perdonarselo? Comunque la girasse, malattia si, malattia no, un senso di colpa ottuso e insistente per quella decisione, l’ha perseguitata e la perseguita tutt'ora.
Tanti pensieri, tante ossessioni. E tanta confusione. E' stata proprio la confusione delle sue idee ad accompagnare Margherita fin da quando, da adolescente, aveva cominciato a interrogarsi sul suo posto nel mondo. I fatti della vita si erano incaricati poi di rendergliela ancor più difficile da gestire. Ricorda quando si guardava allo specchio dopo essere stata operata, e veniva presa da vertigine. Quella cicatrice, quel segno sulla pelle diceva più di mille parole. Le ricordava i suoi sogni finiti in frantumi, le aspettative di redenzione investite su quella gravidanza andate deluse; quel segno sulla pelle le rimandava una immagine di sé devastata nel corpo e nel morale. Rammenta che a volte negli alti e bassi dell'adolescenza le capitava di desiderare di essere invincibile ed eternamente sospesa in una sorta di immutabilità permanente: ecco, quella gravidanza avrebbe dovuto coronare questo sogno e istituire finalmente il suo posto nel mondo. Da questa esperienza la sua autostima ne era uscita invece assai malconcia.
Nel contempo quella cicatrice sembrava parlare anche al mondo intero come un libro aperto: di certo raccontava con inesorabile evidenza che sotto quella pelle, dentro quel corpo, si era svolta una battaglia, anzi una guerra spietata, subdola e incerta. Cosa ne era rimasto di quella battaglia? Chiunque avrebbe potuto chiedersi se l’aveva vinta lasciandosela alle spalle, o se ancora faceva sentire il suo alito pesante sul collo di Margherita. Intrappolata nei suoi sensi di colpa, lei stessa si chiedeva se poteva avere qualche motivo per essere orgogliosa del suo comportamento sul campo di battaglia, oppure se quell'aborto era stata una scelta così avvilente da doverla celare con vergogna. E poi c’erano i benpensanti, quelli che non bisogna spaventare, che non si possono mettere in difficoltà con le proprie magagne, perché altrimenti ti tolgono il saluto. Come conveniva muoversi con loro?
Ad ogni buon conto, senza un motivo preciso, le è capitato di formulare dentro di sé il pensiero di un tatuaggio come mascheramento della sua ferita corporea, pensiero che si è rivelato col tempo una sorta di ossessione, ripresentandosi ogni volta più invadente di prima nelle situazioni più imprevedibili. Le bastava uno sguardo casuale sulla copertina di un disco o cogliere una cantante in tv ad esibire i suoi tatuaggi, e si ritrovava a chiedersi se avrebbe potuto sedare la sua continua inquietudine e il suo orgoglio ferito con un bel tatuaggio capace di catalizzare gli sguardi del mondo. Rimuginare su questi pensieri la tranquillizzava. Del resto, non aveva già supplito alla perdita della sua gravidanza con un bellissimo bambino tatuato sul suo braccio? A suo tempo aveva trovato consolazione nell’idea che lo sguardo rivolto a quel volto l’avrebbe aiutata a seppellire i tormenti e i sensi di colpa seguiti all’aborto. Un pensiero un po' magico, se ne rendeva conto, un modo per pacificarsi con le anime dell'al di là. E poi, chissà, le sembrava anche un modo per condividere con gli altri le sue speranze in una possibile nuova gravidanza. Non è andata così. Sì, era riuscita a trovare una bella soluzione per mimetizzare quella cicatrice, ma non riusciva a sottrarsi al richiamo dello specchio continuamente in agguato, il cui riflesso rimandava al suo sguardo corrucciato un disagio emotivo di cui non comprendeva la natura. Si era risolta a pensare si trattasse di un suo difetto visivo, una lacuna percettiva in cui il tatuaggio risultava in un contrasto stridente col resto della superficie corporea.
Era consapevole dell'incoerenza dei suoi pensieri. Li sentiva scivolare via silenziosamente, spostandosi senza soluzione di continuità dal fuoco sul corpo infido che l'aveva tradita, alla superficie della pelle, sentita come un telo pietoso posto a coprire ogni cosa potesse avvenire lì sotto. Non vedere, non sapere, la metteva di fronte a un vuoto di senso molto opprimente. Un vuoto indistinguibile da quello sperimentato quando si era sentita in balia della diagnosi inaspettata e della sua malattia, di quel mostro dentro di lei, generato da lei stessa a sua insaputa, allora come ora, silenziosamente al lavoro con lo scopo di farsi beffe dei suoi sogni. A volte, in preda al panico, si era anche chiesta se era meglio non pensarci, e vivere la sua vita, andasse come andasse, senza preoccupazioni, o dichiarare guerra al mostro costruendo sistemi di controllo sempre più arditi per mettere in atto ogni possibile contrasto all'avanzare dell'Innominabile.
E così, un po' per trovare pace con sé stessa e un po' perché le aveva sorriso l'idea, aveva cominciato a domandarsi cosa poteva fare per tenere a bada i fantasmi del dilagare della malattia devastatrice del suo corpo e occupante abusiva della sua mente. Aveva sognato sé stessa avvolta da ombre oscure dove fauci gigantesche la dilaniavano inesorabilmente. Si era risvegliata dall'incubo pensando alla luce della bellezza come unica possibilità di scacciarle. Aveva sentito resuscitare la vita in quel sogno, dunque c'era un modo per sedare l'angoscia: avrebbe “esplorato mari e monti” per trovare il più bravo tatuatore del mondo per decorare il suo corpo con un abito di bellezza incomparabile. In questo modo, davanti allo specchio avrebbe potuto rimirarsi e ammirarsi, lasciandosi prendere dal sogno di luce al posto della paura del mostro. Un altro sogno? Un sogno ad occhi aperti? O solo un sogno per tenere a distanza la realtà inesorabile e ineliminabile del Male?
La strategia di recupero del controllo sulla sua mente e della ricostruzione della sua autostima, era stata messa in atto con meticolosa precisione. Non era stata un cosa facile e neanche tanto piacevole. Ancora si ricorda dell'ago e dei suoi tormenti. Solo il pensiero di una sorta di espiazione magica e necessaria insieme, l'avevano convinta dell'utilità del suo piano e sostenuta nel perseguirlo con determinazione. Per un po' aveva funzionato e l'aveva riconciliata con la speranza e la vita, senza però portarla fuori definitivamente dal gorgo. In effetti, è lei stessa a sospettare una successiva trasformazione di questo progetto in una sorta di mania, di ossessione: ogni tatuaggio, ogni decoro in più non sedava la sua angoscia, e reclamava una ulteriore aggiunta per costringere il suo sguardo rivolto al corpo a soffermarsi su una qualsiasi immagine potesse distrarla da quanto sospettava potesse avvenire sotto la superficie.
E proprio quando il sogno di una nuova gravidanza sembrava alla sua portata, di nuovo le ombre avevano oscurato il suo orizzonte. Il Male che sembrava domato dall'intervento chirurgico e raso al suolo dalla chemioterapia, aveva ripreso a lavorare in silenzio. Ora stava male, molto male, ma stava male più con sé stessa che col suo corpo, del quale, diceva “Poco mi importa!”. Una presa di distanza ingenua e inefficace, perché può essere una scelta sciagurata quella di non prendersene cura.
Eppure, era lei la prima a domandarsi il perché di una tale rabbia sorda e ottusa verso il suo corpo, accusato di essere infido e sopratutto guardato come il traditore dei suoi sogni.
Questo pensiero era di un certo interesse per noi: quando ci sono domande c'è anche qualcosa di insaturo che reclama attenzione, c'è un nodo da sciogliere, una responsabilità da assumere. C'è sopratutto un faticoso apprendimento da affrontare: là dove non ci sono certezze occorre imparare a tollerare di non sapere, e il sapere di non sapere ci deve guidare lungo l'incerta via della esplorazione della realtà se vogliamo modificare quest'ultima a nostro favore.
Un tale desiderio e la consapevolezza conseguente ci avrebbe potuto sostenere nel lavoro da fare insieme.
Riconciliarsi col proprio corpo come oggetto di cure è infatti indispensabile per affrontare la sfida per la vita profilatasi all'orizzonte con gli ultimi controlli a cui si era sottoposta Margherita. E che altro potevamo leggere nella sua richiesta di un colloquio, se non la speranza di poter riordinare in un qualche modo il caos dei pensieri e delle angosce connesse, uscire dalla solitudine dell'impotenza e rimettere in moto un processo di vita?. Quel corpo lì così disprezzato da Margherita, viene svalutato perché le fa paura in quanto sentito come alieno, come estraneo e quindi non conosciuto nel suo funzionamento incomprensibile, ma ha ancora tanta importanza ai suoi occhi da averla spinta a darsi una chance, ad affrontare l'incognita di un incontro con uno sconosciuto nel quale fissare la speranza di ritrovare con lui le capacità originarie di un rapporto premuroso e costruttivo con quel corpo, finalmente visto come oggetto d'amore e non più come fonte di ansie persecutorie.
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