Quando finisce un matrimonio: alcuni aspetti psicologici di una famiglia disgregata
La fine di un matrimonio rappresenta un momento di transizione molto delicato, un evento durante il quale i partner si trovano costretti ad affrontare il dolore derivante dal fallimento di un progetto di vita comune, mentre ai figli tocca fare i conti con vissuti d’abbandono, sentimenti d’angoscia e la perdita improvvisa di importanti punti di riferimento.
L’atto della separazione o del divorzio implica di fatto uno di quei cambiamenti non normativi ed imprevedibili ben delineati dalla teoria del “family stress and coping”, un turbamento improvviso in grado di influire direttamente sulle dinamiche relazionali della famiglia e dei suoi componenti: questi ultimi devono far fronte ad un forte stress non preventivato, davanti al quale sono obbligati a riorganizzare le proprie relazioni ed individuare nuove strategie di adattamento.
In tale contesto, occorre che ogni membro della famiglia elabori personalmente l’avvenimento e riesca a mettere in moto le risorse necessarie per superare il conflitto, così da poter contribuire alla ridefinizione del nucleo familiare e permettere il ritorno all’originale stato di equilibrio.
Si tratta in ogni caso di un processo lungo e penoso, assimilabile per molti aspetti all’elaborazione di un lutto: la separazione comporta l’effettiva perdita di una persona di supporto, con conseguenti cambiamenti significativi sul piano pratico, psicologico e sociale, proprio come accade nel caso della morte di una persona importante. Così come avviene nel lutto, i problemi sopravvengono quando l’individuo non riesce a superare in modo adeguato le varie fasi del processo di elaborazione, rimanendo ancorato ad un’immagine di sè e dell’altro non più contestualizzabile.
Nel caso specifico di una separazione coniugale, le cose si complicano ulteriormente se si considera come i due coniugi diventino al tempo stesso “soggetti” al lutto ed “oggetti” della perdita, implicando la necessità di una certa sincronia affinché essa possa essere elaborata correttamente da tutte le parti coinvolte: accade infatti molto spesso che solo uno dei due partner riesca ad elaborare il distacco (solitamente il partner che richiede la separazione), mentre l’altro resti invece vincolato ad un circolo vizioso fatto di sensi di colpa, vissuti di fallimento, sentimenti di disperazione e collera, tutti elementi in grado di alimentare dinamiche conflittuali e nocive per tutti i componenti della famiglia. Di fronte alla perdita dello status di “coniuge”, si affianca inoltre la necessità di ridefinire e mantenere il proprio ruolo genitoriale (qualora ovviamente siano presenti figli all’interno del nucleo famigliare), necessità che in qualche modo complica ulteriormente il quadro generale.
Muovendo da questi presupposti, diversi autori hanno cercato di elaborare dei modelli concettuali che illustrassero il processamento della perdita nel contesto della separazione.
Uno dei primi e più citati modelli comparsi in letteratura è quello di Paul Bohannan (1973), il quale concepisce il divorzio/separazione come un processo costituito da sei fasi ben definite:
1) il divorzio emotivo, caratterizzato dal graduale deterioramento del legame affettivo tra i due partner, i quali non riescono più a trovare passione, scopi comuni e, in generale, motivi per restare assieme;
2) il divorzio legale, che implica la presa di coscienza della situazione ed il ricorso al sistema legale affinché possano risolvere le questioni inerenti la divisione dei beni e l’affido dei figli (che può avvenire in modo consensuale o meno);
3) il divorzio economico, strettamente legato a quello legale ed alla garanzia di una sussistenza dignitosa per ambedue le parti;
4) il divorzio genitoriale, che rappresenta il momento in cui i due ex partner devono ridefinire la loro funzione genitoriale decontestualizzandola dal rapporto di coppia;
5) il divorzio dalla comunità, ovvero l’atteggiamento mentale necessario per poter abbandonare serenamente la comunità di appartenenza e riorganizzare la propria vita sociale in seguito alla separazione;
6) il divorzio psichico, che costituisce la tappa necessaria per ottenere la totale indipendenza psicologica dall’ex coniuge ed essere in grado di riprogettare la propria esistenza, pur mantenendo la propria funzione genitoriale ed il conseguente vincolo di alleanza con l’altro genitore.
Ciascuna delle fasi individuate da Bohannan rappresenta una problematica specifica, un ostacolo che entrambi i partner devono riuscire a superare per poter passare allo stadio di riorganizzazione successivo, prendendo gradualmente atto del fallimento della loro relazione e dei loro reciproci contributi ad esso.
Un “blocco” ad una qualsiasi di queste fasi determinerà un’impasse nell’intero processo, determinando nei coniugi l’impossibilità di “andare oltre”, con ripercussioni patologiche per tutti i membri del nucleo familiare.
La teorizzazione di Bohannan ha ispirato buona parte dei modelli sequenziali ad oggi maggiormente accreditati, quali ad esempio quello trifasico elaborato da Florence Kaslow (1991), modello che per ragioni di sintesi ho deciso di non approfondire in questa sede. Mi soffermerò invece sulla teorizzazione, a mio avviso molto interessante, elaborata da Robert Emery alla fine degli anni ’90, un modello che in buona parte si discosta da quello proposto da Bohannan.
Emery ha interpretato l’elaborazione della separazione non come la realizzazione di un percorso a più fasi, ma piuttosto come la conseguenza del processamento di tre tipologie di sentimenti: l’amore, che nel contesto specifico della separazione implica un forte senso di nostalgia ed il tentativo disperato di recuperare il rapporto andato perduto; la collera, che emerge dal senso di frustrazione per la relazione perduta e che si traduce in risentimento e nell’attribuzione delle colpe all’ex partner; infine la tristezza, che deriva dalla consapevolezza che il rapporto non sia più recuperabile, con conseguente senso di impotenza, di disperazione e di solitudine.
Secondo lo psicologo americano, la corretta elaborazione del “lutto” conseguente alla separazione avverrebbe solo qualora i coniugi (ma personalmente direi anche i figli) abbiano modo di sperimentare tutti e tre i sentimenti.
Affinché l’esperienza della perdita sia completa occorre dunque che le persone in via di separazione “si sentano tristi perché hanno perduto il loro matrimonio, si sentano in collera per tutto quello che è successo e, tuttavia, conservino anche qualche tenero ricordo del passato e qualche rimpianto per quel che avrebbe potuto essere e non è stato” (Emery, ed. ita. 1998, pag 54).
Purtroppo molto spesso ciò non avviene ed alcuni individui si fissano soltanto su uno di questi sentimenti: alcuni continuano a negare la realtà ed a sperare in una riconciliazione quando questa ormai non è più possibile (fissazione sull’amore), altri cercano costantemente un modo per vendicarsi del partner rivendicando ad oltranza i propri diritti (fissazione sulla collera), altri ancora giungono ad attribuirsi ineluttabilmente la colpa di tutti i fallimenti della famiglia, cadendo in depressione (fissazione sulla tristezza). A seconda del tipo di fissazione, avremo una diversa manifestazione di lutto non elaborato con differenti esiti negativi e patologici.
A prescindere dal modello di riferimento, è comunque bene sottolineare come il conflitto sia sempre parte integrante ed imprescindibile del processo di separazione e come una sua gestione costruttiva sia neccessaria per ottenere la riorganizzazione funzionale del sistema familiare.
Tuttavia, quando non adeguatamente mediato, esso può diventare fine a sè stesso ed interferire pesantemente con il ciclo evolutivo della famiglia, compromettendo le potenzialità dei suoi componenti: nei casi estremi, il conflitto diventa dunque patologico, andando a definire quelle situazioni nelle quali si configurano i presupposti necessari allo sviluppo di dinamiche altamente disfunzionali.
In questo senso, sarebbe sempre bene promuovere la presenza, all’interno del proceso di separazione/divorzio, di professionisti della salute mentale (psicologi, psicoterapeuti, ecc.) adeguatamente formati al contesto specifico, nonchè la loro concertazione con altre figure eventualmente coinvolte (avvocati, mediatori famigliari ecc.).
Riferimenti
Bohannan P. (1973). The Six Station of Divorce in Love Marriage e Family: a developmental approach. Lasswell ME e Lasswell TR (eds), Illinois: Scott e C, 1973;
Emery R.E. (1998). Il divorzio, rinegoziare le relazioni familiari. Ed. Franco Angeli, Milano;
Kaslow F.W. (1991). Divorce and divorce therapy, in Gurmand AS, Kniskern P, Handbook of family therapy. New York, Brunner and Mazel;
Scabini E., Iafrate S. (2003). Psicologia dei legami familiari. Mulino, Bologna;
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento