DAP - ATTACCHI DI PANICO come superarli rapidamente
DAP - ATTACCHI DI PANICO come superarli rapidamente
INTRODUZIONE
“Non esiste il coraggio in natura. In natura esiste la paura. Per questo è più facile avere paura che avere coraggio; la paura viene da se, non occorre andarla a cercare”. (V. G. ROSSI)
Definire chiaramente che cosa è utile sapere a riguardo delle patologie basate sulla paura è, dal nostro punto di vista, il primo fondamentale passo per dare un contributo davvero utile al lettore interessato, poiché, come vedremo nelle righe successive, sono diffuse tutte una serie di presunte conoscenze, ritenute dal senso comune utili, che non solo non servono ma il più delle volte sono fuorvianti e controproducenti, in quanto, invece, di aiutare a trovare soluzioni al problema conducono a ulteriori complicazioni.
Pertanto, nei paragrafi che seguono saranno esposte quelle forme di sapere, direttamente derivate dalla esperienza sia clinica che di ricerca applicata, che possono far chiara luce su quel complesso fenomeno psicologico, biologico e sociale che è la paura come patologia. Del resto già Jiddu Krisnamurti affermava “la paura è la incertezza in cerca di sicurezza”.
La prima davvero importante forma di conoscenza che il lettore interessato deve fare sua, è il fatto che le patologie fobiche in tutte le loro forme, da singole paure a fobie generalizzate, possono essere curate e risolte efficacemente ed in tempi brevi. Le ricerche di Isak Marks (1978-1998), ad esempio hanno dimostrato fin dagli anni 70, come una terapia ben costruita fosse in grado di risolvere nell’arco di circa 6 mesi il 70% circa dei disturbi fobici; i lavori di Barlow (1990), attualmente noto come uno dei massimi studiosi nel settore dimostrano chiaramente come l’83% dei casi di disturbo fobico possa essere risolto efficacemente con una terapia che non superi i 12 mesi.
Le ricerche-intervento svolte presso il Centro di Terapia Strategica sotto la direzione del prof. Nardone dimostrano ripetutamente come, mediante una forma di trattamento costruito ad hoc, l’88% dei casi di patologia fobica generalizzata (Nardone, 1993,1997,1998) sia stata risolta in una durata media di 7 sedute (2 o 3 mesi). Addirittura per alcune forme di disturbo fobico, come agorafobia e attacchi di panico, si raggiunge il 95% dei casi risolti (Nardone-Watzlawick,2000) sempre nell’arco di pochi mesi.
Questi dati non vogliono certo essere, ancora una volta, un’esibizione delle capacità d’illustri studiosi e terapeuti, ma un’importante dichiarazione rivolta a chi sulla scia di credenze o peggio, mistificatorie pubblicazioni sul tema ritiene che sia impossibile guarire definitivamente, dagli attacchi di panico o da un disturbo ossessivo-compulsivo, poiché tali false conoscenze conducono chi affetto da un tale tipo di disturbo, oltre tutto, alla disperata rassegnazione connotata dalla perdita della speranza di poter mai guarire e vivere libero dalle catene della paura. Pertanto, rendere noto che la ricerca scientifica di tipo empirico-sperimentale in campo clinico, dimostra inequivocabilmente che è possibile guarire sia da singole paure, sia da disturbi fobici generalizzati, sgombra il campo dalla disperazione dell’impossibilità di cura ed apre a tutte le persone affette da tali patologie la possibilità di superare i limiti entro i quali la paura li blocca.
A tal riguardo, l’American Psycological Association nel suo ultimo rapporto relativo ai risultati delle terapie sui disturbi psichici e comportamentali (Hubble-Miller-Duncan,1999), riporta chiaramente come il 50% circa dei pazienti possa essere curato mediante terapie di durata tra 5 e 10 sedute (2-3 mesi); il 25% con terapie tra i 10 e 25 sedute (3-8 mesi); solo il rimanente 25% richiede terapie più estese nel tempo. Gli autori affermano con chiarezza che tali dati ufficiali non sono certo una presa di posizione a favore delle cosiddette “terapie brevi” ma, al di la delle pregiudiziali ideologiche e degli interessi corporativi, dichiarare come stanno i fatti reali. Ciò sta a significare che la maggioranza delle patologie può essere curata rapidamente e non necessita, dunque, ne di psicoterapie che durano molti anni, ne di permanente dipendenza da psicofarmaci, ma di pragmatiche e chiare terapie psicologiche costruite a hoc. Questa ulteriore e netta dimostrazione apre quindi anche la possibilità, alla maggioranza delle persone affette da tali disturbi, di poter essere curate senza eccessivi costi economici ed esistenziali. E’ bene chiarire, infatti, che il costo più alto pagato da una persona bloccata dalla paura, non è certo quello economico di una terapia, ma quello esistenziale, in quanto la sua vita è limitata e condizionata dalla paura. Per esempio: una persona agorafobica che non è in grado, né di uscire da sola né di rimanere da sola, paga alla paura il tributo della propria possibilità di vivere; sulla stessa linea una persona ossessionata dall’avere una malattia, il cosiddetto ipocondriaco, non riesce a godersi nulla della sua esistenza perché è continuamente attanagliato dalla paura della malattia; cosiccome il soggetto costretto da una fobia a ripetere complicati rituali ossessivi spende la maggioranza del suo tempo a cercare di difendersi dalla fobia divenendo letteralmente schiavo delle sue ossessioni.
In tutte queste situazioni, la differenza tra la possibilità di essere curati efficacemente in tempi lunghi o in tempi brevi risiede nella qualità della vita vissuta da tali soggetti. Purtroppo, per decenni gli studiosi di terapie della mente hanno sottovalutato l’importanza dell’efficienza di un intervento terapeutico, mentre, tale caratteristica fa sì che un intervento efficace sia ancor più valido, sul piano del successo terapeutico, in quanto rende quanto prima alla persona trattata la libertà di godersi la vita. La prima utile conoscenza per chi ha problemi relativi a paure, panico e fobie, pertanto, può essere riassunta con l’aforisma di Honoré de Balzac “la rassegnazione è un suicidio quotidiano”, e con la citazione di Shakespeare “non esiste notte che non veda il giorno”.
COME RICONOSCERE QUANDO LA PAURA DIVENTA PATOLOGIA
“Un giorno le lepri si radunarono e si lagnavano tra loro della loro triste sorte: dover aver paura di tutti! Degli uomini, dei cani, e tutti gli altri animali.
Meglio, una volta per sempre morire che vivere con tanta paura! Presa questa decisione, tutte le lepri unite galopparono verso uno stagno per buttarcisi dentro e annegare.
Ma le ranocchie, che se ne stavano quiete intorno allo stagno, appena avvertirono lo scalpiccio delle lepri, balzarono in acqua.
Allora una lepre più saggia delle altre disse: “Coraggio, compagne ! Avete visto?
Ci sono animali che hanno paura persino di noi!”
Come questa deliziosa storiella narrata da P. Pancrazi ci invita a considerare, la paura come emozione psicobiologica non è di per se una forma di patologia anzi, essa è un’emozione fondamentale per l’adattamento degli animali e degli esseri umani al loro ambiente circostante. Senza una dose di paura naturale non si sopravvive, poiché questa è la reazione che ci allerta di fronte a reali pericoli e che ci permette di fronteggiare tali situazioni dopo averle riconosciute come pericolose. L’idea da sfatare, quindi, è che un essere umano possa essere privo di paura, poiché questo lo farebbe essere un automa è non un essere vivente.
Tuttavia, come per altre nostre reazioni psicofisiologiche, quando la paura supera una certa soglia rende l’essere umano bloccato ed incapace di avere le idonee reazioni nei confronti degli eventi. Pertanto, ciò che fa la differenza tra la paura come utile emozione naturale e la paura come reazione patologica, è che la prima incrementa la nostra capacità di gestire la nostra realtà, la seconda, al contrario, limita o addirittura impedisce tale capacità incatenando la persona dentro la prigione del panico.
Al di la’ di ogni più sofisticata forma di diagnosi, il più importante criterio per definire una patologia fobica è proprio il livello di impedimento esistenziale, a cui costringe chi ne è affetto. Esistono infatti forme di tale disturbo che impediscono, di vivere solo alcune situazioni (le monofobie) ad esempio la paura dei serpenti, la paura dell’acqua, la paura dei luoghi chiusi, la paura di volare, etc. etc.; altre che bloccano completamente l’individuo (fobie generalizzate) e gli impediscono di vivere la maggioranza delle esperienze, ad esempio: la sindrome da attacchi di panico o le ossessioni compulsive, l’agorafobia e le fissazioni ipocondriache.
La differenza tra le mono fobie e le fobie generalizzate, fondamentalmente, risiede nel livello al quale la percezione della paura si è strutturata, ciò sta a significare quanto questa sia divenuta pervasiva per la relazione che il soggetto a con la sua realtà e quanto, di conseguenza, la limiti. Come vedremo successivamente, questa differenza di livello diviene anche una differenza di qualità della paura, ma per il tema del come riconoscere quando la paura diviene patologia, ritengo essenziale focalizzare l’attenzione sulle limitazioni ed impedimenti che la paura impone al soggetto.
Su questa scia si può ritenere patologica una forma di paura che ci impedisce di realizzare le nostre capacità e i nostri desideri. Fino a quando la soglia di tale emozione non diviene impedente, nel senso che realmente blocca il soggetto nei confronti di talune esperienze, non dovrebbe essere considerata un disturbo che necessita di essere curato.
Solo quando la percezione minacciosa della realtà, e per realtà intendiamo qualunque nostra esperienza, sia interiore che esteriore, diviene impedente e limitante siamo di fronte ad una forma di patologia che necessita di essere trattata. Non si deve a questo riguardo sottovalutare il fatto che, quando una persona inizia a limitare la sua esperienza sulla base della paura, questa tende ad amplificarsi e a limitare sempre di più le esperienze sino a diventare una dilagante ed incontrollabile fobia generalizzata. Da quanto espresso sin qui, può apparire chiaro al lettore come in realtà l’autodiagnosi di un disturbo fobico sia piuttosto semplice da effettuare: basta misurare quanto le nostre paure ci impediscono di realizzare i nostri desideri o le nostre capacità. Per fare questo non è necessario alcuno specialista poiché ognuno può essere il miglior diagnosta di se stesso. E’ chiaro che, una volta rilevato che la paura ha superato la soglia tra reazione di adattamento e diviene reazione da disadattamento, si rende necessario l’intervento dello specialista. Del resto come scrive Anais Nin “la vita si restringe o si espande in proporzione al nostro coraggio” o viceversa alla nostra paura.
COME SI FORMA UNA PATOLOGIA FOBICA
“Anche gli animali non ignorano la paura, senza dubbio. Ma ciò che essi provano, resta molto al di qua di ciò che l’uomo può conoscere della paura.
Le notevoli facoltà di rappresentazione e di immaginazione dell’uomo fanno infatti di lui il principale artefice dei suoi spaventi e, nello stesso tempo, il propagatore di quelli altrui.” P. MANNONI
Riguardo a come una patologia fobica possa formarsi esistono molte diverse teorie nell’ambito della psicologia e della psichiatria, alcune delle quali in netta contrapposizione. Secondo una prospettiva psicoanalitica si ritiene che un disturbo attuale sia il prodotto di traumi remoti nell’infanzia; da un punto di vista delle psichiatria biologica si ritiene che un severo disturbo fobico-ossessivo sia il prodotto di una alterazione genetica nell’organismo del soggetto; da una posizione di tipo cognitivista si ritiene che tale patologia sia il frutto di una disfunzionale evoluzione delle relazioni di “attaccamento e separazione” durante la crescita del paziente; secondo l’ottica meccanicista-comportamentista una patologia fobica deriva sempre e comunque da condizionamenti ambientali.
La lista di prospettive potrebbe andare ancora avanti per un bel po’, ma ciò che, dal mio punto di vista è importante per il lettore tenere presente, è come una realtà cambi se la si guarda da punti di vista diversi e con diverse lenti. Cosicché gli stessi fenomeni, osservati da prospettive teoriche diverse e analizzate con lenti deformanti perché coerenti alla determinata teoria di riferimento, conducono a vedere realtà diverse all’interno della stessa realtà. Come nella metafora indiana dei cinque ciechi intorno all’elefante, i quali affermano mediante la loro limitata percezione, che l’elefante è, a seconda del soggetto: una cosa lunga e stretta, la coda; una cosa larga, grande e tozza, il tronco; una cosa rugosa e flessibile, la proboscide. Così, le diverse prospettive psicologiche e psichiatriche offrono, dei disturbi fobici, una immagine fortemente condizionata dai presupposti teorici sui quali tale prospettiva è basata (Salvini,1989-1993, Nardone, 1994). Purtroppo, spesso, tutto ciò che conduce a rigide e dogmatiche assunzioni da parte dei terapeuti, di cui fanno le spese i pazienti. In altri termini, si deve rilevare che, non troppo di rado per i dottori della mente, vale la regola Hegeliana “se i fatti non concordano con la teoria, tanto peggio per i fatti”.
In accordo con George Lichtenberg “la miglior prova della validità di una teoria è la sua applicazione”, pertanto riteniamo che, prima di assumere una delle tante teorie causali rispetto alle patologie fobiche, si debba valutare prima di tutto gli effetti della sua applicazione diretta ai problemi a cui si riferisce. Questa assunzione di base, ci ha condotto, già molti anni fa al rifiuto di qualunque posizione teorica rigida e ad essere molto più attento alla osservazione empirica dei fenomeni fobici e alle rilevazioni di quali “eventi provocati”, fossero in grado di cambiarli: ossia, quali tecniche di intervento terapeutico fossero davvero in grado di far superare, alle persone affette, tale tipo di patologie. Il nostro lavoro di ricerca, quindi si è rivolto nella direzione di trovare effettive soluzioni per tali problemi, sperimentarle su una casistica molto ampia, costruendo varianti tecniche di fronte alle diverse forme di patologia fobica-ossessiva rilevate. In tal modo, il modello terapeutico di psicoterapia breve strategica è stato calzato e costruito su misura della struttura del disturbo e delle strategie risultate efficaci, e non sulla base di una teoria a priori da rispettare. E’, quindi, dalla rilevazione empirica del funzionamento dei problemi e delle loro soluzioni che si è poi giunti al costruire la teoria e non viceversa.
Di conseguenza a tutto ciò, quanto viene esposto qui di seguito, in relazione a come vengano a formarsi le patologie fobiche, è il frutto di tale rigorosa metodologia di ricerca che ha condotto a indiscutibili risultati empirici.
Come il lettore potrà subito rilevare, nel trattare questo argomento non si va alla ricerca di oscure, complicate e profonde cause ma in linea con Oscar Wilde, il quale afferma “il vero mistero è ciò che si vede e non l’invisibile”, ci si focalizza sul “come” ogni persona, senza rendersene conto “costruisce” la trappola nella quale poi entra e dalla quale non riesce più ad uscire da solo. Come Emil Cioran, letterato che ben conosceva le ossessioni e le fobie, scrive “il pauroso edifica i suoi terrori poi vi si installa”.
La continua ricerca intervento, svolta dal Prof. G. Nardone dai suoi collaboratori nelle varie filiali sparse in tutto il mondo, ha messo in evidenza come le tentate soluzioni inadeguate alla risoluzione siano essenzialmente tre:
1. L’EVITAMENTO
2. LA RICHIESTA DI AIUTO.
3. IL TENTATIVO DI CONTROLLO DI REAZIONI FISIOLOGICHE LEGATE ALLA PAURA
1. Paura evitata, paura incrementata.
“Porto addosso le ferite delle battaglie che ho evitato”. F. PESSOA
La ricerca empirica mostra chiaramente (Barlow, Marks, Nardone), come la maggioranza di coloro che soffrono di un disturbo basato sulla paura, che questo sia una fobia o una sindrome di attacchi di panico, abbiano in comune una ridondante strategia comportamentale: “l’evitamento”. In altri termini, queste persone hanno la tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate all’insorgere della incontrollabile paura.
Questa strategia tesa a ridurre gli effetti così sgradevoli della paura, è in realtà una micidiale trappola, poiché conduce gradatamente il soggetto ad incrementare gli evitamenti sino alla completa incapacità tipica dei disturbi fobici generalizzati.
Ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo. Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica del soggetto, in modo da far divenire il disturbo sempre più impedente e limitante.
La riprova di ciò, in senso empirico, è rappresentata dal fatto che se si riesce a bloccare tale spirale di evitamenti progressivi e si conduce la persona a riesporsi alle situazioni fino ad allora evitate, il disturbo fobico si sblocca e la paura si riduce di pari passo alla riacquisizione della fiducia delle proprie capacità personali.
2. L’aiuto che danneggia.
“La via dell’inferno è pavimentata di buone intenzioni”. F. NIETZSCHE
Di solito, quando una persona spinta dalla paura, entra nel circolo vizioso degli evitamenti, mostra anche l’attivazione di un’altra controproducente strategia: la richiesta di aiuto, ossia la tendenza ad essere sempre accompagnati e sostenuti da qualcuno, pronto ad intervenire in caso di crisi di panico o di perdita di controllo.
Anche questa strategia, come la precedente, ha l’effetto iniziale di rassicurazione ma poi conduce all’aggravamento della paura e dei suoi effetti limitanti e sintomatici, poiché proprio il fatto di avere bisogno di qualcuno accanto pronto ad intervenire in aiuto, conferma al soggetto bisognoso la sua incapacità di fronteggiare le situazioni e gestire le proprie reazioni. Cosiccome per la tendenza all’evitamento, la richiesta di aiuto tende a generalizzarsi, sino a divenire un’assoluta necessità e a condurre la persona nelle più severe forme di disturbo fobico, ossia, a non essere più in grado di stare da solo.
E’ importante evidenziare come anche in questo caso, se si riesce a condurre il soggetto a sbloccare il circolo vizioso di richiesta di aiuto, si osservi una quasi “magica” riduzione della paura e del panico, cosiccome un incremento della sua fiducia nelle proprie risorse. Ma come vedremo per ottenere tale sblocco, è necessario ancor più che nel caso precedente, l’arte dello stratagemma terapeutico (Nardone, 1993-1999).
3. Il controllo che fa perdere il controllo
“Se te lo concedi puoi rinunciarvi, se non te lo concedi sarà irrinunciabile”.
Quanto esposto sin qui, tuttavia, non esaurisce l’osservazione empirica e sperimentale sul costituirsi dei disturbi basati sulla paura, poiché esistono alcune varianti che possiedono caratteristiche di formazione e persistenza apparentemente simile ma diverse da quelle sopra descritte. Nella ricerca, cosiccome nella pratica clinica, infatti, si rilevano negli ultimi anni un numero crescente di tipologie di patologia fobica, basate su copioni percettivi-reattivi non riconducibili soltanto alla tendenza all’evitamento e alla richiesta di aiuto, ma soprattutto al tentativo fallimentare reiterato del controllo, da parte del soggetto, delle proprie reazioni sia fisiologiche che comportamentali, cosiccome della realtà circostante.
In questo caso è proprio l’eccesso di tentato controllo che fa perdere il controllo. L’esempio più illuminante di tale disfunzionale modello di percezione e reazione è rappresentato dai cosiddetti ipocondriaci, i quali cercando continuamente di controllare il proprio organismo alla ricerca di segnali indicatori di una malattia in corso, finiscono per prodursi sensazioni spaventose, dalle quali poi essere terrorizzati. Il controllo volontario e mentale di funzioni organiche spontanee, altera queste ultime, le quali alterandosi producono la paura dell’insorgere di un grave malanno.
In altre parole, queste persone evocano il fantasma che li terrorizza.
Il lettore faccia un esperimento, cominci ad ascoltare il proprio battito cardiaco cercando di controllarne il ritmo volontariamente, dopo un po’ si renderà conto che questo si è alterato, se egli è una persona tendenzialmente preoccupata per la propria salute, inizierà ad avere paura che il cuore si alteri troppo sino ad un collasso.
I soggetti ipocondriaci sono dei veri e propri funamboli nel costituirsi sintomi fisici, da cui essere poi spaventati.
La loro ossessiva tendenza al controllo del proprio corpo, infatti, crea i sintomi dei quali essi immediatamente danno l’interpretazione patogena. Di conseguenza a ciò, di solito, iniziano la loro processione di esami clinici diagnostici alla ricerca della oscura patologia che si annida nel loro organismo.
Quello che appare più sorprendente in questo caso, è che ad ogni risposta diagnostica negativa, il soggetto che è entrato nel loop mentale dell’ipocondria, risponde con quasi disappunto, come se fosse dispiaciuto di non trovare nulla di malato nel suo corpo. Tuttavia, dopo un po’ queste persone dubitano degli esami fatti e vogliono farne altri o ripetere gli stessi. Come il lettore avrà compreso, tale ricerca ossessiva di sintomi patogeni, attivata prima con una sorta di continuo auto “check up”, poi con la processione di consulti medici ed esami diagnostici, nell’arco di qualche mese conduce la persona alla formazione di uno strutturato disturbo fobico generalizzato, basato sulla paura di avere una oscura malattia.
Tale situazione viene a formarsi e si mantiene sulla base della tentata soluzione del controllo focalizzata sulla propria salute. Nelle nostre ricerche empiriche, infatti, risulta che tale tendenza si sviluppa, dapprima, sulla spinta da dubbi relativi alla propria salute che poi il soggetto, mediante la reiterazione del controllo e della richiesta di esami diagnostici, costruisce come vera e propria “certezza fobica”. Anche in questo caso, come per i disturbi precedentemente descritti, una volta che la persona ha costituito la modalità percettiva reattiva automatizzata del controllo e della richiesta di controllo specialistico, necessiterà obbligatoriamente di un intervento terapeutico poiché da solo non potrà uscire dalla trappola che si è costruito e nella quale è entrato. Infatti, per fare ciò, come il fantastico barone di Müonchausen, caduto nella palude con il suo cavallo, dovrebbe, tirare fuori se stesso con il cavallo stretto tra le sue ginocchia, tirandosi su con la propria mano destra per il codino dei suoi capelli.
Negli ultimi anni si osserva anche un incremento di disturbo da attacchi di panico, connotato da una progressiva evoluzione, che appare funzionare in maniera analoga. Ciò sta a significare che la patologia da panico viene a costituirsi mediante una progressiva tendenza ossessiva al controllo del proprio organismo e della propria mente che produce la perdita di controllo. Pertanto la spirale di formazione di questo disturbo funziona nello stesso modo di quella precedente, con la differenza che, in questo caso la persona tende a voler avere il controllo delle proprie reazioni di paura che scatenano i sintomi fisiologici. Ma come già esposto, proprio tale sforzo di controllo costruisce letteralmente i sintomi che fanno poi perdere il controllo. Ovvero la paura della paura che produce il panico.
Il lettore immagini di trovarsi in mezzo ad una folla e cominciare ad avere il dubbio di potersi sentire male. La naturale reazione sarà di prestare attenzione alle proprie reazioni fisiologiche: il battito cardiaco, il ritmo respiratorio, l’equilibrio etc. etc… Tale focalizzata forma di controllo di spontanee funzioni fisiologiche, condurrà alla alterazione di almeno una di queste, questa rilevazione crea paura, la paura poi incrementerà le alterazioni fisiologiche e viceversa. A questo punto, la spirale di circolare e retroattiva alimentazione, tra paura e reazioni fisiologiche alterate, può andare in escalation sino ad una crisi di panico, se il soggetto non interrompe tale circolo vizioso basato sul tentativo di controllare le proprie reazioni.
Pertanto, anche per la formazione di un disturbo generalizzato da panico, il criterio di formazione risulta essere quello del “controllo che fa perdere il controllo”.
A tal riguardo appare illuminante l’esempio naturalistico riferito da Igor Sikorsky “secondo autorevoli testi di aeronautica, il calabrone non può volare a causa della forma e del peso del proprio corpo in rapporto alla superficie alare. Ma il calabrone non lo sa e perciò continua a volare”.
LA TERAPIA BREVE STRATEGICA DEL DAP: DALLE SOLUZIONI CHE COMPLICANO A QUELLE CHE RISOLVONO
Apparirà piuttosto chiaro al lettore come in realtà le patologie fobiche in tutte le loro forme vengano a costituirsi e, soprattutto, come si mantengono: ossia vero il fatto che queste, persistono e si complicano grazie a ciò che le persone tentano di fare per ridurre la loro paura. Le ricerche svolte dall’autore nell’arco di oltre 10 anni, hanno condotto ad evidenziare con chiarezza le specifiche forme di tali tentate soluzioni che fanno persistere i disturbi fobici, distinguendo per ogni variante patologica quali sono le ridondanti modalità percettive-reattive che funzionano da alimentatore del disturbo. Tale precisa rilevazione, ha guidato alla messa a punto di specifici interventi terapeutici i quali con precisione chirurgica, vanno ad incidere esattamente sul meccanismo che, prima costruisce e poi sostiene la paura patologica.
Una delle tecniche risultata più efficace per la risoluzione del DAP è la Tecnica della “Peggiore Fantasia”,
come riporta la voce del Dizionario Internazionale di Psicoterapia, (Nardone Giorgio -Salvini Alessandro) Garzanti 2013: <È una Tecnica della psicoterapia breve strategica modello Nardone, messa a punto da Giorgio Nardone alla fine degli anni ‘80 per il trattamento dei disturbi fobici, degli attacchi di panico e delle ossessioni.
Al paziente viene chiesto di isolarsi ogni giorno per mezz’ora e di cercare di portare alla mente tutte le peggiori fantasie rispetto alle proprie paure, fobie o ossessioni, sforzandosi di provocarsi più ansia possibile e di sfogare tutte le reazioni che queste gli inducono. La tecnica si basa su una → logica paradossale: quanto più la persona cerca di prodursi volontariamente una reazione ansiosa, che per sua natura è spontanea, tanto più questa si inibisce per effetto del → paradosso del «sii spontaneo». In questo modo la persona vive una prima importante → esperienza emozionale correttiva nella gestione delle proprie ansie, scoprendo che può annullarle proprio cercando di produrle. Nelle sedute successive il paziente viene guidato a utilizzare la stessa tecnica, ma in maniera frazionata nel corso della giornata (5 minuti di peggiori fantasie per 5 volte al giorno ogni 3 ore), per arrivare infine a utilizzarla solo nel momento del bisogno (5 minuti al bisogno), ovvero nel caso in cui sperimenti una situazione di tipo ansioso. Grazie all’apprendimento di questa tecnica, i pazienti scoprono come gestire efficacemente l’ansia e possono essere così guidati a superare, anche mediante l’ausilio di altre tecniche, tutti i limiti che la paura aveva introdotto nella loro vita. [R. Milanese] >
Per saperne di più sull’argomento si rimanda il lettore ai testi in bibliografia
Paura, panico, fobie, Nardone G., Ponte alle Grazie ed.
L’arte del cambiamento, Nardone G., Watzlawick P., Ponte alle Grazie ed.
Oltre i limiti della paura, Rizzoli ed.
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