Non affogare nelle lacrime della sofferenza!
Parlare di lutto, di perdita, di morte è sempre molto difficile: lo è perché è un tema da cui tutti vogliamo scappare, quasi che se non se ne parla non possa sfiorarci. Accade però, inevitabilmente, che questo tema non solo ci sfiori, ma ci travolga in pieno.
Ho deciso quindi di scrivere qualche riflessione sull’argomento perché, come è noto, più si conosce un tema, meno ci terrorizza. Anche se parlare di morte terrorizzerà sempre, non tanto per la morte in sé, quanto per il senso di irreversibilità della perdita.
Sigmund Freud definisce il lutto come una reazione affettiva, emotiva, ad una esperienza di perdita. Una perdita che sconvolge, stravolge e dissesta il nostro modo di vedere il mondo e che ci costringe, dunque, a rivedere la nostra visione del mondo.
Per Freud, quindi, il lutto è l’esperienza dell’assenza di chi amavamo, ma poiché chi amavamo dava senso al mondo, la perdita di cui il lutto è la reazione affettiva, è anche perdita del senso stesso del mondo.
Freud ha a lungo parlato di lutto e di perdita e ha individuato tre possibili risposte soggettive all’evento luttuoso: la prima reazione è quella cosiddetta “maniacale”, la seconda è quella melanconica, ovvero depressiva, la terza è quella del lavoro del lutto, come esito positivo della depressione.
Vediamo più da vicino cosa può succedere quando si verifica la prima reazione, ovvero quella maniacale. In questo caso la persona, travolta dalla grandezza dell’evento, nega sistematicamente che sia accaduto: si tratta di un rifiuto ostinato dell’esperienza della perdita. Viviamo in una società “maniacale”, in cui il tempo non c’è, siamo sempre indaffarati, sempre di corsa, sempre in superficie.
La persona che reagisce in modo maniacale, negando la perdita, tende a “sostituire”, in tempi molto rapidi, l’oggetto perduto con un altro oggetto. L’oggetto che se n’è andato, l’oggetto perduto, viene cancellato nella sua insostituibilità da un nuovo oggetto. Questo meccanismo serve ad evitare l’esperienza del vuoto e dell’assenza: è un modo per allontanarsi dal dolore psichico che porta con sé la perdita, un anestetico che vorrebbe ricucire la ferita della perdita senza che essa lasci alcuna traccia.
Il secondo tipo di reazione, quella che sfocia nella melanconia, è, anche se pare assurdo, il rovescio della reazione maniacale. La mania tende alla rapida dimenticanza, la melanconia si trova nella paradossale impossibilità della dimenticanza. L’oggetto perduto è visto come insostituibile e dunque impossibile da dimenticare. Parafrasando Freud, accade che l’ombra dell’oggetto, l’ombra del morto, cade sull’io del soggetto in questione: è come se il soggetto restasse incollato alla persona perduta e si sentisse lui stesso un oggetto perduto. La perdita dell’oggetto amato comporta sempre la perdita del soggetto, ma nella melanconia l’oggetto perduto continua ad essere incessantemente presente. L’oggetto si è separato, è entrato nel regno dei morti, ma il soggetto non si può separare dall’oggetto separato. La vita di chi cade nella reazione melanconica è ritirata in se stessa, ha perso lo slancio vitale, è chiusa al mondo, mangiata dall’oggetto perduto. Il dolore, quindi, accompagna sempre la vita: il lutto non è più un lavoro transitorio, ma una condizione dell’esistenza: la melanconia è la cronicizzazione del lutto.
Ci sono alcuni “segnali” che possono far prevedere un esito di questo tipo, a seguito di un lutto; uno di questi è il livello di idealizzazione del morto: tanto più la persona perduta viene ricordata solo attraverso forme idealizzate, senza mancanze, senza imperfezioni, tanto più è probabile lo scivolamento nella depressione.
L’altra faccia dell’idealizzazione è l’auto-rimprovero, dove ci sono sensi di colpa molto forti in chi sopravvive all’oggetto perduto. L’auto-rimprovero spesso nasconde, alle sue radici, un’aggressività inconscia, mascherata, verso il morto. Se l’oggetto perduto dava senso alla nostra vita e questo oggetto non c’è più, è come se ci avesse assassinati, portando con sé una parte di noi stessi. La morte dell’altro è dunque il mio assassinio e dunque ecco spiegata l’aggressività, che si manifesta sotto forma di auto-rimprovero, perché non potrebbe essere espressa diversamente.
Vediamo, infine, in che cosa consiste un lavoro del lutto ben riuscito. Lavoro, dal tedesco Arbeit, significa, nell’accezione in cui lo usa Freud, capacità di produrre, di trasformare. Affinchè questo lavoro abbia un esito positivo e ben riuscito servono 4 elementi:
In primis serve il tempo: non esistono tempi rapidi, il lutto non può dare luogo a processi di sostituzione. Il problema è che nella nostra società la pausa viene rigettata, il tempo morto viene visto come tempo perso. Ma senza tempo, non c’è possibilità del lavoro del lutto.
Il secondo punto è il dolore psichico: non si può fare il lavoro del lutto senza esperienza effettiva del dolore. Il dolore è la benzina del lavoro del lutto perché è attraverso il riconoscimento dell’irreversibilità della perdita dell’oggetto, che si può “andare oltre”. Rendersi conto di tale irreversibilità, però, è estremamente doloroso, come se si perdesse un arto del corpo.
(A questo proposito è bene aprire una piccola parentesi sull’utilizzo o meno, in questa fase, degli psicofarmaci. A mio avviso, se il dolore risulta ingestibile, ingovernabile ed invalidante è utile assumere un farmaco che lo possa alleviare. Ma il dosaggio non deve mai essere eccessivo, non deve anestetizzare perché togliendo il dolore, si castra la possibilità del lavoro del lutto e si rischia di provocare la somatizzazione: quel dolore che non viene vissuto a livello psichico, torna nel piano reale, attraverso lo spostamento nel corpo.
Un altro elemento fondamentale del lavoro del lutto è la memoria: è un lavoro struggente, straziante, sollecitato dalla memoria dell’oggetto perduto. Si ricorda chi non c’è più, per testimoniare che la sua assenza è stata una presenza.
Il quarto punto è quello cruciale, ma anche quello più difficile da concepire: l’oblio. Il lavoro del lutto compiuto, che si realizza, non si può fermare alla memoria dell’oggetto perduto, ma deve poter raggiungere, attraverso la memoria, un punto di dimenticanza. In questo faticoso lavoro si riconosce il carattere insostituibile dell’oggetto perduto ma, dopo aver ricordato dolorosamente il morto, lo possiamo dimenticare. Possiamo dimenticare perché abbiamo incorporato il morto, perché lo abbiamo ricordato, lo portiamo con noi e fa parte di noi. Ed è solo nella misura in cui fa parte di noi che lo possiamo dimenticare.
Concludendo questa breve esplorazione sul tema della morte, seguendo le preziose parole di Recalcati e con la “guida” di Sigmund Freud, possiamo dire che nella teoria è tutto più semplice: anche quando noi incorporiamo l’oggetto perduto e dunque lo possiamo dimenticare, l’oggetto resta comunque sempre irrimediabilmente perduto. La ferita dell’assenza resta nel corpo e nella mente, per sempre. Ma, quando è passato il tempo necessario, quando si è fatta l’esperienza del dolore psichico, quando si è a lungo ricordato, si può dimenticare, perché il ricordo genera la dimenticanza. E quando questo avviene la vita riprende, si può tornare ad investire su di sé e si può addirittura sostituire l’oggetto perduto.
Non sempre il lavoro del lutto richiede l’intervento di uno specialista, non sempre le persone cadono della reazione maniacale o in quella depressiva. Ma, quando sembra che il tempo sia “troppo” o che il dolore psichico sia insopportabile, è bene chiedere aiuto per riuscire a vivere tutte le fasi necessarie al superamento, per arrivare alla dimenticanza, attraverso il ricordo.
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