Le fasi del mobbing
Il termine mobbing deriva dall’inglese “to mob” e letteralmente viene tradotto con assalire in massa, aggredire o malmenare; si tratta di un vocabolo utilizzato per la prima volta dallo studioso del comportamento animale Konrad Lorenz, per indicare una sorta di bullismo nel mondo animale, ossia quel comportamento di animali della stessa specie che si coalizzano contro un membro del gruppo e lo attaccano, con il fine di escluderlo dal branco.
Negli anni ‘80 questo termine è stato ripreso e applicato al mondo del lavoro, per descrivere dei comportamenti simili a quelli riportati relativamente al mondo animale che si verificano nel contesto lavorativo.
Lo psicologo svedese Leyman definisce il mobbing come una forma di terrorismo psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in forma sistematica da una o più persone, nei confronti di un solo individuo, il quale viene a trovarsi in una condizione indifesa ed è fatto oggetto di iniziative vessatorie e persecutorie.
Un’altra definizione che ben si adatta alla realtà italiana è quella dell’Istituto Superiore Prevenzione e Sicurezza sul Lavoro: il mobbing è una forma di violenza psicologica intenzionale, sistematica e duratura, perpetrata in ambiente di lavoro, volta all’estromissione fisica e/o morale del soggetto dal processo lavorativo o dell’impresa.
Sono stati individuati diversi tipi di mobbing, non tutti con la stessa violenza o intensità, ma con in comune il senso di malessere che ne deriva per la persona che lo sta subendo.
Una forma molto comune del mobbing è il cosiddetto de-mansionamento, ovvero quella condizione in cui una persona viene obbligata a svolgere compiti e funzioni inferiori alla sua posizione iniziale, senza il suo accordo. Il breve filmato posto all’inizio di questo articolo ne è un chiaro esempio: la protagonista del film viene spostata di continuo da un compito all’altro, compiti di pochissima rilevanza e assolutamente non congrui alle sue capacità, con l’obiettivo finale di portarla a rassegnare le sue dimissioni.
I datori di lavoro spesso agiscono in modo subdolo e, non potendo legalmente licenziare il lavoratore in quanto non sussistono le motivazioni, lo portano, attraverso la violenza psicologica, molte volte velata, alle dimissioni volontarie, che, come tali, gli precludono la possibilità di beneficiare della “disoccupazione”.
Il mobbing mediante violenza psicologica è, ovviamente, molto più diffuso rispetto a quello che impiega la violenza fisica, ma non per questo meno grave; il non riconoscimento delle capacità, la noia che deriva dallo svolgere mansioni inutili o il senso di inadeguatezza che viene provato quando ci si sente investiti di un compito che esula dalle proprie funzioni, sono tutte forme di violenza psicologica che, nel lungo termine, portano a veri e propri disturbi psichici e fisici.
Spesso i datori di lavoro utilizzano, in maniera più o meno esplicita, il ricatto, facendo leva sul bisogno del lavoratore di coservare il proprio posto di lavoro per mantenersi. Il lavoratore sperimenta cosi un forte senso di impotenza, di rabbia, di insoddisfazione e, nei casi più gravi, può arrivare a vivere un vero e proprio stato depressivo per cui chiede l’aiuto di uno psicologo o di un medico, per ovviare ai sintomi psichici e fisici.
La società moderna è caratterizzata dalla ricerca di profitto e spesso i lavoratori sono visti solo come degli strumenti per arrivare al risultato, non più come delle persone. Le richieste sono sempre più alte e il capitale umano sempre meno valorizzato. Una forma di violenza psicologica è anche questa, il far sentire inadeguato il lavoratore per le eccessive richieste che vengono fatte, non tenendo conto delle reali risorse umane disponibili.
Il mobbing può altresì essere messo in atto dai pari, ovvero dai colleghi di lavoro che, come abbiamo visto accadere nel mondo animale, prendono di mira un collega e lo vessano psicologicamente, al fine di estrometterlo dal gruppo di lavoro.
Si possono evidenziare alcune fasi tipiche del processo di mobbing, individuate dallo psicologo Herald Ege:
-condizione zero: non si è ancora verificato il mobbing, ma si tratta di una situazione caratterizzata da una conflittualità generalizzata, presupposto per il mobbing;
-fase uno, conflitto mirato: la conflittualità che nella fase zero era generalizzata ora viene canalizzata verso un obiettivo specifico, con la conseguente volontà sottostante di distruggere una persona precisa. Si tratta di un conflitto che si estende anche la sfera privata e non più solo lavorativa;
-fase due, inizio del mobbing vero e proprio: il conflitto diventa duraturo, le relazioni tra colleghi e/o datore di lavoro si inaspriscono e gli attacchi alla vittima generano fastidio e disagio, non ancora sintomi fisici;
-fase tre, primi sintomi psicofisici: la vittima di mobbing inizia a sperimentare un senso di insicurezza e problemi di salute, che possono perdurare anche per lungo tempo;
-fase quattro, errori e abusi dell’amministrazione del personale: il mobbing, in questa fase, diviene di dominio pubblico e anche chi si occupa del personale ne è a conoscenza, spesso però ne è anche complice, dal momento che non mette in atto alcuna azione tutelante per il soggetto;
-fase 5, aggravamento: la salute psicofisica della vittima si aggrava, possono manifestarsi forme depressive più o meno intense;
-fase sei, esclusione dal mondo del lavoro: la vittima esce dal mondo del lavoro in modo volontario, tramite dimissioni volontarie, licenziamento, ricorso al prepensionamento o, nei casi più gravi, suicidio.
Le fasi descritte fino a qui hanno un mero carattere esemplificativo e possono variare nei diversi contesti di lavoro e in base alle varie posizioni lavorative.
Pur essendoci ancora molta discordanza su dei criteri universali per poter riconoscere il mobbing, si possono individuare due categorie di comportamenti che definiscono il mobbing: gli attacchi alla persona e le minacce alla carriera professionale.
Ci sono dei tratti psicologici che possono esporre la vittima ad una maggiore vulnerabilità al mobbing e l’aggressore al mettere in atto dei comportamenti violenti. Questi aspetti verranno approfonditi in un articolo successivo, cosi come altri temi relativi allo stress lavoro correlato.
Il mobbing resta motivo di procedibilità in sede giudiziale, laddove ne vengano ravvisati i presupposti, si tratta di un comportamento che può anche essere perseguibile penalmente e come tale va trattato: un terapeuta può fare diagnosi di mobbing e un legale può intraprendere una causa di lavoro.
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