E se Batman fosse gay, sarebbe meno super eroe?
“Mamma, papà, vi devo parlare: sono gay”.
Per un figlio che scopre ed ammette la sua omosessualità parlare con i suoi genitori è spesso, troppo spesso, lo scoglio più grande. Tanto che molti figli non affrontano mai il tema con i propri genitori, nemmeno da adulti, in un tacito accordo per cui “lo so ma non ne parliamo”. Perché è cosi complicato fare coming out con la propria famiglia?
Non penso ci sia una risposta universale a questa domanda, ma credo che il denominatore comune sia la paura. Paura di non essere accettati, paura di essere allontanati o paura di deludere i propri genitori. Ma forse, sotto a questo sentire, c’è una paura più grande: la domanda che sento esserci sotto è “mi ameranno anche se sono diverso da come si aspettavano che fossi?”
Questa domanda svela una insicurezza sull’amore dei genitori, un sentimento di amore condizionato e non incondizionato. Condizionato al non deludere ciò che il figlio pensa che il genitore voglia. Ma di fondo c’è anche, spesso, una non accettazione di se stessi. Se permetto all’altro di farmi sentire sbagliato è perché in fondo mi ci sento… se permetto all’altro di avere un cosi grande potere sul mio sentire è perché dubito anche io che il mio sentire sia “giusto”.
Ci sono delle famiglie in cui la tradizione regna sovrana, ma soprattutto ciò che regna sovrano è il pregiudizio. Albert Einstein sosteneva che “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio” e questo la dice lunga su come siamo prigionieri di giudizi dati a priori, sulla base della convenzione e della chiusura mentale. Perché, se il pregiudizio è uno strumento mediante il quale fare quella che si chiama “economia cognitiva”, cioè una semplificazione della vita, è anche una immensa catena che limita la vita delle persone. Perché chi è vittima di pregiudizio soffre e limita la propria vita, come, ad esempio, una persona con omosessualità che non vive apertamente la propria sessualità perché, se lo facesse, sarebbe stigmatizzata. E chiariamo una volta per tutte la questione che l’orientamento sessuale non si sceglie! Siamo nel 2019 e sento ancora frasi come “beh ha scelto lui/lei di essere cosi”, dove per “cosi” si intende il provare attrazione per persone dello stesso sesso.
Già nel 1935, quando ancora l’omosessualità era considerata, per i più, una malattia da curare, Freud scrisse una lettera in risposta ad una madre che gli aveva chiesto aiuto per “guarire” il figlio gay. Freud scrive alla donna che non c’è nulla di cui vergognarsi. Ecco alcuni estratti della lettera:
“Deduco dalla tua lettera che tuo figlio è omosessuale. Sono molto colpito dal fatto che non utilizzi questo termine quando dai informazioni su di lui. Posso chiedere perché lo eviti?”
“L’omosessualità non è di certo un vantaggio, ma non c’è nulla di cui vergognarsi, non è un vizio, non è degradante, non può essere classificata come una malattia, riteniamo che sia una variazione della funzione sessuale, prodotta da un arresto dello sviluppo sessuale. Molti individui altamente rispettabili di tempi antichi e moderni sono stati omosessuali, molti dei quali sono stati grandi uomini (Platone, Michelangelo, Leonardo Da Vinci)”.
“È una grande ingiustizia perseguitare l’omosessualità come un crimine – e anche una crudeltà. Se non mi crede, legga i libri di Havelock Ellis. Mi chiede se posso aiutarla, intendendo dire, suppongo, se posso sopprimere l’omosessualità e fare in modo che al suo posto subentri l’eterosessualità. La risposta è, in linea generale, che non posso promettere che questo accada.”
Secondo Freud tutti nasciamo bisessuali e solo più tardi ci orientiamo verso l’etero o l’omosessualità.
Ma l’atteggiamento “rivoluzionario” di Freud non è stato seguito dalla comunità scientifica e fino agli anni 60’ (1960, non 1860!!!!) c’è stato un grande seguito per le cosiddette “terapie riabilitative”, in cui illustri nomi della psicologia e della psichiatria internazionale si adoperavano per trovare metodi direttivi e suggestivi che guarissero le persone dalla loro omosessualità. Inutile dire che questi metodi non solo non servivano a cambiare il vissuto delle persone, ma non facevano che aumentare la loro sofferenza per il non esserci riusciti, incrementando il senso di solitudine e di inadeguatezza.
Alla fine degli anni ‘60 però, fortunatamente, le cose cominciano a cambiare. Nella notte tra il 27 e il 28 giugno del 1969 ci fu la rivolta di Stonewall, data simbolo per il movimento LGBTQ per i diritti degli omosessuali. Nel 1973 la comunità psichiatrica americana, dopo anni di “guerra civile interna”, vota per l’eliminazione dell’omosessualità dalla terza edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-III).
Un altro importante sviluppo suggerisce che, sia per gli uomini che per le donne, la sanità o la patologia all’interno della vita amorosa non coincida più con il genere della persona amata, ma con la capacità di amare; questa, come dicono Bion (1975) e Kohut (1985), sarebbe l’espressione più vera della maturazione psichica della persona.
Da questo momento in avanti l’approccio all’omosessualità è cambiato, almeno tra gli “addetti al mestiere”. Lentamente, troppo poco lentamente, sta cambiando anche la società, ma ancora siamo lontani dall’accettazione priva di pregiudizio.
Sul dramma interno che vive un giovane che scopre la sua omosessualità parleremo in un altro articolo, dal momento che si tratta di una tematica troppo vasta per essere riassunta in poche righe.
Quello che vorrei trasmettere, con questa breve riflessione a cavallo tra ideologia e storia, è il peso che può avere un pregiudizio. Provereste mai disgusto verso una persona che è nata con gli occhi verdi invece che azzurri? Immagino di no, perché non ha scelto il colore dei suoi occhi quando è nata e perché, penso, non abbiate nessun pregiudizio a riguardo. Perché dobbiamo quindi dare un’opinione sulle preferenze sessuali delle persone?
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