Analisi Terapeutica → Paziente e Analista
La stanza d’analisi è pensata in ogni particolare, un luogo accogliente con spazi delineati, il lettino per il paziente, la poltrona per l’analista.
Oggetti, libri, quadri scelti per creare un ambiente che faccia sentire a proprio agio avendo cura di non saturare lo spazio con l’eccessiva presenza delle tracce dei gusti , della vita e delle preferenze dell’analista.
Gli incontri avvengono in orari e giorni prefissati fino a diventare riferimento certo e costante, tanto che alcuni pazienti fantasticano il terapeuta come un’unica cosa con la sua stanza.
I rumori esterni restano nel sottofondo è centrale l’incontro, il ritrovarsi con un ritmo costante.
“Buongiorno dottore, buonasera dottore”. Il breve percorso nel corridoio. Il chiudersi della porta. Il poggiare gli oggetti personali. Il distendersi sul lettino. Il silenzio iniziale.
Una semplice ritualità che prepara l’entrata ad un’area relazionale ed emotiva del tutto unica. La principale regola analitica richiede al paziente di associare liberamente senza censure volontarie. Lasciare libera la mente, parlare o restare in silenzio, secondo i propri movimenti interni, senza preoccuparsi del giudizio o della reazione dell’altro.
Freud, parla di “attenzione fluttuante” una presenza rilassata, fiduciosa ed aperta ad entrare in uno spazio psichico “altro” che sospende il giudizio, il conosciuto, il consueto, l’atteso.
Bion descrive lo stato psichico ideale dell’analista con una sottrazione: ”senza memoria e senza desiderio” , una condizione basata su una duplice assenza, quella della memoria e quella del desiderio.
La memoria ci consente di riconoscere il paziente, il suo nome, la sua storia clinica, i suoi modi di espressione, i suoi sogni, l’ultima seduta.
La memoria dell’analista sedimenta anche le conoscenze, l’esperienza, il training di formazione che dovrebbero restare un humus su cui poggiare la professione della cura della parola.
L’eccesso di memoria può saturare la possibilità clinica di incontrare il paziente d’oggi, di questa ora e non quello del giorno o della settimana precedente.
Il nostro desiderio di guarire, di aiutare è ugualmente insidioso, bisogna interrogarsi sull’eccezione del significato “guarire”. Da cosa e come dovremmo salvare la persona che si affida a noi?
Si diventa paziente per un dolore forte che fa sentire un senso profondo di sperdimento nella selva nera oscura carica d’ombre inquietanti e d’incubi neri.
Si cerca la psicoterapia, quando si è persi, o quando ci si sente, come dice una giovane paziente, “un palloncino che nessuno tiene per il filo”.
E’ prezioso, per quanto doloroso, questo stato di smarrimento vissuto nella quotidianità, nel luogo più familiare che improvvisamente, magari dopo un trauma o un lutto, diventa perturbante ossia da luogo familiare si trasforma in terra straniera che ci fa sentire stranieri in quella che è la nostra stessa casa, origine, lingua. E’ proprio in questo luogo sconosciuto, per quanto prima familiare, che l’analista dovrebbe incontrare il paziente ed il suo desiderio di ritrovarsi.
Non c’è ritrovamento senza smarrimento. Per ritrovarci, come scrive Racamier, è necessario prima perdersi. L’analista non dovrebbe essere colui che “sa come si vive”, quello che conosce il meglio per il paziente, come potrebbe atteggiarsi un genitore amoroso ma normativo, centrato sulle sue esperienze e poco attento alle necessità e personalità dei figli.
L’analista dovrebbe avere l’umiltà della “non-conoscenza”, nessuno di noi sa il meglio per l’altro. Il nostro più prezioso dono è restituire al paziente la sua umanità, il suo desiderio, la sua speciale identità: solo un uomo, ma un uomo tra gli uomini.
Non secondo il nostro desidero, ma secondo il suo. Non per normalizzare adeguare a ciò che ci aspettiamo, ma per scoprire. Non per mostrare o dimostrare ma per osservare ed accogliere. Non per giudizio ma per compassione, condividere la stessa passione e quindi lo stesso dolore.
Iniziare un’analisi e come un viaggio di conoscenza e di scoperta nell’inconscio, nella sconosciuta casa, nella lingua straniera che prima ci era madre. Nell’idea del viaggio è implicita la scoperta, l’avvicinare il nuovo, anche se ormai è molto diffuso il viaggio catalogato che diventa giro sulle giostre, dove tutto è programmato e previsto.
In dieci giorni potremmo avere l’illusione di visitare luoghi completamente altri da noi,come la Cina o l’oriente ma senza uscire, neanche un attimo, dal nostro conosciuto, dalla nostra lingua o dal nostro cibo.
Ma potremmo vantarci di essere stati in Cina o in Oriente! Una Cina o un Oriente dove i nostri sensi sono saturati da stimoli filtrati che danno l’illusione, ma solo l’illusione, del diverso e dell’avventura.
La stanza d’analisi, è un posto qualsiasi in un strada qualsiasi della città, rimane costante ed uguale a se stessa per un periodo di tempo anche lungo, la sua stessa staticità, le regole del setting, garantiscono la possibilità del viaggio e della scoperta . Agli stimoli, al cicaleggio, alle informazioni, alla tecnologia, si contrappongono il silenzio, l’attesa, il tempo, la pazienza, il non definito.
Trevi e Foppiani, definiscono questo speciale spazio con una parola fiamminga “LOSFELD” che significa luogo senza confini , bosco, mare, luogo non definibile con i punti cardinali. E’ proprio in un luogo-non-luogo che può germinare la possibilità di scoperta e di nuovo inizio.
Come dice Winnicott, è fondamentale che l’analista resti vivo, sembra un paradosso, una frase ad effetto, ma forse è proprio il cuore dell’analisi. Vivo alle pressioni e alle proiezioni del paziente, vivo al suo odio o al suo amore, vivo alla noia e alla ripetizione, vivo alla non-speranza, vivo al buio della depressione . Per descrivere con un’immagine l’incontro analitico mi piace pensare ad una persona in ginocchio sulla spiaggia che lascia scivolare la sabbia tra le mani raccogliendo tutto quello che trova.
BIBLIOGRAFIA
commenta questa pubblicazione
Sii il primo a commentare questo articolo...
Clicca qui per inserire un commento