Dott.ssa Mariangela Romanelli

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Dott.ssa Mariangela Romanelli

Psicoterapeuta - Terapeuta EMDR

Quando e perchè il malessere diventa una dipendenza

Secondo Schopenhauer la condizione esistenziale umana è caratterizzata dall’infelicità, in quanto fortemente animata dal desiderio.

Questo è maggiormente comprensibile se si riflette un attimo sulla concezione di desiderio in Schopenhauer. Il desiderio è la motivazione di ogni agire umano, ma esso deriva da una mancanza (se desideriamo qualcosa è perché non la possediamo e ne sentiamo il bisogno e), cioè da dolore.

L’appagamento non genera felicità, ma nuovi desideri, perché in realtà l’uomo non desidera qualcosa, ma è desiderio, volontà. La soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà piuttosto luogo a un desiderio nuovo.

Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole: “bensì assomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento” (Cit. Il mondo come volontà e rappresentazione, Roma-Bari, Laterza, 1979, vol. II, p. 270).

Ciò sembra provato, secondo Schopenhauer, dal fatto che quando viene temporaneamente meno il desiderio, non subentra uno stato di serenità, ma una condizione di infelicità, caratterizzata dalla noia.

Dunque, la "felicità" è uno stato essenzialmente negativo, è mancanza di bisogno e di desiderio, che genera però noia, cioè nuova infelicità.

Solo liberandosi radicalmente di ogni desiderio l’uomo potrebbe superare l’infelicità che fa parte della sua natura. In sostanza si tratta di un processo di liberazione dalla propria natura che soltanto pochi riescono a percorrere.

Ho introdotto il pensiero di Schopenhauer in quanto rappresenta bene il carattere effimero e caduco della felicità. Questa concezione della felicità e del raggiungimento del benessere, però, per quanto affascinante, risulta un po’ estremizzata.

È vero che il desiderio nasce da un bisogno, e quindi da una mancanza, è vero che una volta soddisfatto un desiderio il senso di appagamento si offusca gradualmente lasciando spazio a nuovi bisogni, ma è anche vero che l’individuo, immediatamente dopo la risoluzione della tensione e il soddisfacimento del bisogno, trae una qualche forma di benessere, più o meno duratura.

Forse è proprio qui che si colloca la felicità, nell’attimo situato a cavallo tra ricerca e soddisfacimento del benessere, nella capacità soggettiva di godere appieno di questo momento, ovvero nella capacità di prolungare questo stato di benessere e appagamento rimanendo quanto più a lungo nell’HIC ET NUNC, nella dimensione presente, senza pensare né a passato né a futuro.

Secondo Lowen il piacere risulta dalla soddisfazione di un bisogno, ad esempio mangiare quando si ha fame e dormire quando si ha sonno sono esperienze che provocano piacere.

Il bisogno crea uno stato di tensione che quando è scaricato attraverso la soddisfazione produce una piacevole sensazione di sollievo.

Tuttavia in alcune situazioni, ad esempio negli sport agonistici, la tensione è di per sé fonte di piacere in quanto accresce l’eccitazione associata alla prospettiva di liberazione e benessere.

Dunque, l’anticipazione del piacere è essa stessa un’esperienza piacevole.

Per sua natura ogni meta crea uno stato di emergenza o di tensione, dato che non avrebbe significato se non ponesse una sfida o una richiesta di sforzo.

Il porsi delle mete fa anche parte del principio di realtà che, sotto l’egida dell’Io, modifica il principio del piacere. Il principio di realtà stabilisce che un individuo pospone un piacere immediato o tollera un dolore in vista di un maggior piacere futuro.

È qui che si colloca il tentativo reiterato di provare piacere attraverso una buona e adattiva dose di dolore.Lowen nel suo libro “Il piacere” scrive, infatti, che alcune persone sembrano trovare piacere nel dolore.

Questa reazione apparentemente masochistica può essere facilmente spiegata con un esempio. Prendiamo in considerazione una persona che ha scoperto di sentirsi irrigidita dopo essere rimasta troppo a lungo in una determinata posizione. Stendere i muscoli che hanno avuto il crampo provoca dolore fisico, ma ristabilisce la circolazione e provoca una sensazione di benessere.

Dunque il piacere deriva dal rilassamento di una tensione, pertanto non potrebbe essere raggiunto senza provare un po’ di dolore. Questo meccanismo è evidente ed esasperato nella sua forma più estrema: il masochismo.

Nel suo studio sul masochismo Reich mostrò che il masochista non è interessato al dolore in sé, ma alla ricerca del piacere che diventa possibile attraverso il dolore, la sottomissione e la punizione.


PAURA DEL PIACERE

Quando il raggiungimento del piacere viene percepito dall’individuo come difficoltoso genera preoccupazione, che nella sua forma estrema diventa paura.

Parlare della paura del piacere sembra paradossale. Come si può temere ciò che è benefico o desiderabile? Eppure molte persone evitano il piacere; alcuni sviluppano una profonda ansia quando si trovano in situazioni piacevoli, altri provano una vera sofferenza quando l’eccitazione del piacere si fa troppo intensa.

Questo meccanismo paradossale, si sviluppa, secondo me, nelle persone che inconsciamente non si ritengono degne di meritare una condizione di benessere perché, a causa di modelli familiari instabili o esperienze infantili traumatiche, hanno interiorizzato una condizione prolungata di malessere della quale sono diventati schiavi, al punto da manifestare una sensazione di estraneità a stati di benessere. In questi casi si sviluppa una vera e propria forma di dipendenza da malessere o addirittura di piacere del malessere.

Proviamo ad approfondire le cause che possono sottostare a questo strano e paradossale meccanismo.


SENSO DI COLPA

Una delle cause, come ho già scritto, può essere la convinzione inconscia di non meritarsi il bene, al punto da sviluppare un senso di colpa. Le persone con tale tratto, nel momento in cui sperimentano il benessere, sentono di appropriarsi di qualcosa che non gli spetta. Di conseguenza compiono un’azione inconscia di autocondanna morale o di auto-boicottaggio e una resa di ciò che non è loro dovuto attraverso la ricaduta nel malessere, dove si sentono sofferenti ma pur sempre in pari con il loro Super Io.

Lowen afferma che ogni persona che si sente in colpa prova anche nascosti sentimenti di superiorità morale.

Il senso di colpa non ha origine da esperienze di dolore o di piacere.

Non è un’emozione radicata nei processi biologici del corpo, è un prodotto della cultura e dei valori che la caratterizzano.

Quando l’uomo sviluppò la cultura e trascese lo stato puramente animale, la morale diventò parte del suo modo di vivere. Ma questa era una morale naturale, basata sulla percezione di ciò che era giusto o sbagliato o, più specificamente, di ciò che dava piacere in contrasto a ciò che procurava dolore.

Il senso di colpa primario nasce nell’infanzia quando i genitori insegnano al figlio i principi morali e i codici di comportamento che diventano parte integrante della sua struttura egoica.

Nasce dalla sensazione di non essere amati per aver commesso qualcosa di sbagliato. Nello specifico, nasce quando si dà un giudizio morale negativo a una funzione del corpo che non si trova sotto il controllo dell’Io o della mente cosciente: nasce dal rimprovero, percepito come condanna, per aver perseguito il piacere derivante dall’espletamento di una funzione corporea, come ad es. defecare o toccarsi la zona genitale.

Sentirsi in colpa per aver nutrito desideri sessuali, per esempio, non ha alcun senso dal punto di vista biologico. Il desiderio sessuale è una reazione naturale del corpo, ma può essere giudicato dal genitore come moralmente sbagliato, per cui si crea una frattura tra mente cosciente e corpo.

L’unica spiegazione che un bambino può dare di questo stato di cose è quella di non meritarsi l’amore per aver commesso qualcosa che il genitore non accetta. È incapace di pensare che la colpa sia della madre, poiché, come sappiamo da Winnicot, la madre nelle prime fasi di vita viene percepita dal bambino come la sua unica fonte di salute e sopravvivenza.

Quando ciò accade, si infrange l’unità della personalità.

Ogni individuo emotivamente disturbato prova sensi di colpa consci o inconsci che rompono l’armonia interiore della personalità.

Qualsiasi sentimento o emozione può essere fonte del senso di colpa se di esso si dà un giudizio morale negativo.

Di solito si giudicano in questa maniera i sensi di piacere, i desideri erotici o sessuali e l’ostilità perché tali giudizi nascono direttamente dall’atteggiamento dei genitori e, in definitiva, anche dai costumi sociali.

Il lavoro terapeutico, secondo Lowen, deve mirare a eliminare i sensi di colpa in modo da ristabilire l’integrità della personalità, perché sono questi a ridurre il potere egoico di controllare il comportamento e di salvaguardare gli interessi dell’individuo e della comunità.

Per liberarsi del senso di colpa, bisogna prima riportare la colpa stessa a livello conscio. Può sembrare contraddittorio parlare di un senso che non si sente, ma tutti hanno sensazioni e sentimenti latenti che, essendo stati rimossi, vivono al di sotto della soglia della consapevolezza.

I migliori esempi si trovano nell’ambito della sessualità.


IL DOLORE COME MOVIMENTO

Un’altra causa potrebbe essere la sensazione di sentirsi vivi attraverso il dolore. D’altronde la presenza del dolore evidenzia l’esistenza di un movimento, a differenza di quanto accade nella depressione caratterizzata piuttosto dalla paralisi psichica, dall’assenza quindi di movimento.

La depressione priva l’individuo della sua vitalità e della capacità di reagire.

Una persona triste non è depressa. Percepire la propria tristezza significa riuscire a percepire tutte le emozioni, cosa che riporta l’individuo a una condizione umana in cui il piacere e il dolore rappresentano i principi che regolano il suo comportamento.

Essere capaci di sentirsi tristi significa essere in grado di sentirsi felici.

Non a casa se consideriamo il termine anodino, ricaviamo un duplice significato: antidolorifico/sedativo in medicina; indefinito/insignificante in senso figurato.

Il dolore è stato definito dall'Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP) come "un'esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva, associata a un danno dell'organismo attuale o potenziale".

Ma è anche vero che il dolore, insieme alla paura, è uno degli assi portanti della sopravvivenza.

Le persone con la sindrome CIPA (Congenital Insensitivity to Pain with Anhidrosis) sono particolarmente esposte a traumi e malattie difficilmente riconoscibili a causa dell’insensibilità congenita al dolore.

Individui con tale sindrome vanno incontro a morte precoce poiché le ferite interne possono degenerare fino alla morte senza possibilità di intervenire.

Il dolore ci avverte che qualcosa sta funzionando male, ma è pur sempre un indice di funzionamento. Ci segnala, infatti, che esiste una forma di percezione, nonchè un segnale di avvertimento più o meno funzionale alla messa in atto di un cambiamento.

A tal proposito vorrei citare una frase tratta dal film The road (2009): "Quando sogni cose brutte, significa che stai ancora lottando e che sei ancora vivo. E' quando fai bei sogni che dovresti iniziare a preoccuparti". Allo stesso modo possiamo dire che chi avverte dolore nutre ancora la capacità di mobilitarsi, chi non lo avverte vuol dire che oramai si è arreso.


RIPETIZIONE DI SCHEMI COMPORTAMENTALI E RISPARMIO COGNITIVO

Un’altra spiegazione potrebbe essere che la condizione di malessere in alcuni casi diventa la modalità principale di funzionamento, il cui abbandono comporterebbe la messa in atto di schemi comportamentali nuovi e inesplorati e quindi un dispendio cognitivo ed energetico che l’individuo da solo non farebbe.

Dalle teorie cognitive sappiamo che l’individuo organizza l'esperienza, categorizzandola in schemi, per effettuare una elaborazione immediata delle informazioni in entrata e non essere sopraffatto dalla grande quantità di stimoli. In base ai processi di categorizzazione dell’esperienza, attiva pensieri e azioni più o meno coerenti.

Non sempre però i processi di categorizzazione mentale sono funzionali al benessere della persona. A volte tali processi si attivano in modo rigido indipendentemente dai contesti portando a distorsioni e a pensieri automatici negativi che producono sofferenza.

Il modello cognitivo, infatti, ipotizza che il pensiero distorto e disfunzionale sia comune a tutti i disturbi psicologici e che sia il responsabile del protrarsi delle emozioni dolorose e della sintomatologia del paziente.Dunque, tale incapacità di fuoriuscire da una condizione di malessere potrebbe dipendere dalla formazione di circoli viziosi disfunzionali che mantengono la sofferenza nel tempo.


COAZIONE A RIPETERE

Oppure, questa forma di “dipendenza da malessere” potrebbe risultare da un meccanismo di coazione a ripetere: permanere nella condizione di malessere può dare, infatti, all’individuo l’illusione inconscia di rivivere l’evento traumatico o lo stato di sofferenza primario, per trovarvi finalmente una soluzione e colmare la ferita evolutiva.

È quanto accade ad esempio nella scelta del partner in età adulta, in alcune forme di dipendenza affettiva e negli abusi sessuali infantili con il formarsi di dinamiche di identificazione con l’aggressore che, se non sostenute da un Io forte, possono portare, a loro volta, in età adulta, il bambino abusato a diventare abusatore e la bambina abusata a dirigere l’aggressività subìta su se stessa (ad esempio attraverso la prostituzione).

Mi soffermo adesso sulla riflessione tra amore e dolore, facendo prima una breve digressione sull’intreccio tra stili di attaccamento e scelta del partner in età adulta.

Secondo Hazan e Shaver (1987) gli stili di relazione degli adulti, nonché le relazioni sentimentali, sono connessi con il legame di attaccamento che i soggetti da bambini hanno stabilito con le figure genitoriali. In sostanza, le persone tendono a ricercare partner che replichino gli stili relazionali interiorizzati nell’infanzia.

Bambini che hanno sviluppato un attaccamento sicuro diventano adulti fiduciosi in grado di stabilire rapporti significativi, pronti all’impegno, all’accettazione della dipendenza reciproca, e non preoccupati per il futuro.

Bambini che hanno sviluppato un attaccamento evitante diventano adulti distaccati, insofferenti rispetto alle relazioni troppo strette e alla possibilità di dipendenza.

Bambini che hanno sviluppato un attaccamento ambivalente, diventano adulti preoccupati di non essere amati, incerti, ansiosi e desiderosi di fondersi con il partner.

Di conseguenza, avremo 4 stili di attaccamento adulto.

-Stile sicuro (bassa angoscia/basso evitamento): tipico di persone con una degna considerazione di sé, capaci di intimità, autonomia e conforto nelle proprie relazioni sociali; che tendono ad avere una relazione lunga, stabile e soddisfacente, caratterizzata da un alto investimento.

-Stile preoccupato(alta angoscia/basso evitamento): tipico delle persone con elevato senso di inadeguatezza, vigili, preoccupate e con una bassa soddisfazione nelle relazioni.

-Stile distanziante (bassa angoscia/alto evitamento): tipico di persone poco interessate alle relazioni, con bassa soddisfazione e bassa intimità nelle stesse.

-Stile evitante-spaventato (alta angoscia/alto evitamento): tipico di persone che tendono ad evitare il contatto con gli altri per anticipare un possibile rifiuto sociale. Si innamorano meno facilmente ed evitano l’intimità.

Sandor Rado inserisce l’amore tra le emozioni di benessere, ovvero “elaborazioni differenziate dell’esperienza e dell’anticipazione del piacere”, differenziandole dalle emozioni di emergenza, tra cui l’odio, che nasce invece dall’esperienza e dall’anticipazione del dolore.

La memoria e l’anticipazione hanno un ruolo importante nelle reazioni legate al binomio piacere-dolore.

Le esperienze dolorose non danno origine a sentimenti di affetto e di amore. Una persona non può amare ciò che le fa del male, a meno che non abbia sviluppato un carattere masochistico.

La persona innamorata è cosciente dell’oggetto dell’amore come fonte di piacere. Se all’anticipazione del piacere si aggiunge il desiderio biologico di contatto e di intimità, il bisogno si trasforma in vera emozione.

Se il desiderio intenso non va di pari passo con il conseguimento del piacere, rimane solo un bisogno. Questo intenso desiderio è anche conosciuto come amore dipendente, ed è spesso confuso con il vero amore.

Il bisogno e l’amore non sono la stessa cosa. Il bisogno denota una mancanza. L’amore è appagamento. La dipendenza può essere dolorosa; l’amore è piacevole.

L’amore dipendente lega una persona a un’altra; il vero amore favorisce la libertà e la spontaneità, che sono gli elementi essenziali del piacere. L’amore dipendente è caratterizzato dalla richiesta di amore o di piacere; il vero amore dal dare piacere.

Chi è affetto da dipendenza affettiva non riesce a vivere l'amore nella sua interezza. Vive in un costante stato di tensione dominato da angoscia abbandonica e ansia da separazione. La presenza dell'altro non è più una libera scelta ma diventa una questione di sopravvivenza: senza l'altro si ha la percezione di non esistere. I propri bisogni e desideri individuali vengono negati e annullati in una relazione simbiotica.La dipendenza affettiva non è un fenomeno che riguarda soltanto la persona dipendente, ma è una dinamica a due, in cui ciascuno ha il suo ruolo perché l’altro contribuisce a mantenerlo.

La persona che nutre un amore dipendente, senza rendersene conto, ha trasferito su un’altra persona il desiderio insoddisfatto della sua infanzia. È proprio in questo che scatta il meccanismo di coazione a ripetere. La dipendenza affettiva, infatti, affonda le sue radici nel rapporto con i genitori durante l’infanzia. Le persone dipendenti provengono da famiglie in cui i bisogni emotivi sono stati trascurati in virtù dei bisogni materiali. Queste persone nell’infanzia hanno ricevuto il messaggio che non erano degni di essere amati o che i loro bisogni non erano importanti.

Dunque, le prime esperienze infantili di attaccamento e di rifiuto influiscono sullo sviluppo affettivo e sulle modalità relazionali dell’adulto. La ferita infantile viene in parte coperta durante la crescita, ma non sanata, per cui si ripresenterà nell’età adulta: la persona cercerà di riportare in auge le ancestrali situazioni infantili di rifiuto, per cercare inconsciamente di risolverle.

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Dott.ssaMariangela Romanelli

Psicoterapeuta - Terapeuta EMDR - Treviso

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