Ansia e Benzodiazepine: Storia di una trappola
Nel 1869, George Beard, un medico americano, introdusse il termine "nevrastenia" per descrivere una condizione caratterizzata da stanchezza, ansia e depressione. Questo termine si riferiva a quella che una volta veniva definita "esaurimento nervoso" e indicava, letteralmente, una situazione di affaticamento dei nervi. Tuttavia, oggi sappiamo che i nervi non si stancano né si esauriscono. Ciò di cui parlava Beard includeva anche una forma di inquietudine, quella che oggi conosciamo come ansia.
L'ansia, o meglio l'inquietudine del vivere, è una sensazione universale che ogni essere umano sperimenta. Tutti noi, in qualche modo, cerchiamo di difenderci da questa sgradevole sensazione attraverso diversi meccanismi. Alcuni di questi sono salutari, come lo sport, le passeggiate all'aria aperta o il tempo trascorso con familiari e amici. Altri, invece, sono meno ottimali, come le dipendenze da alcol, sigarette, cibo, droghe o comportamenti ossessivi.
È interessante notare che alcune persone sono naturalmente più inclini all'ansia di altre, e in generale, le donne tendono a soffrirne più degli uomini. Beard, dando un nome a questa condizione, la rese "diagnosticabile", aprendo la strada a una serie di trattamenti per quella che veniva percepita come una malattia.
Questo è uno dei più antichi stratagemmi nella storia della medicina: creare un problema o etichettare una condizione comune, aspettare che le persone si identifichino con esso e poi proporre una soluzione. Anche Sigmund Freud ha seguito un approccio simile, attribuendo cause e spiegazioni ai fenomeni psicologici senza un vero fondamento scientifico.
Lo stesso schema è stato adottato nel corso della storia per altre condizioni psicologiche. Con la nevrastenia, ad esempio, si svilupparono "rivitalizzanti per i nervi", come pozioni a base di oppiacei, cocaina o alcol, oltre a dispositivi come cinture elettriche e massaggiatori. Tuttavia, con l'avvento del 20° secolo e delle benzodiazepine, la medicina trovò una nuova soluzione all'ansia.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il farmacologo Frank Berger cercava un farmaco per combattere i microbi gram-negativi. In questo processo, scoprì accidentalmente il meprobamato, una sostanza che si rivelò essere un potente tranquillante. Fu commercializzato nel 1955 con il nome di Miltown, diventando il primo tranquillante minore sul mercato. Pochi anni dopo, fu introdotto il Librium, la prima benzodiazepina, seguita dal Valium nel 1963, che divenne uno dei farmaci più venduti al mondo.
Tuttavia, con la crescente popolarità di questi farmaci, emersero anche i loro effetti collaterali. Le benzodiazepine si rivelarono altamente addictive, con sintomi di astinenza che spesso peggioravano la condizione di ansia originaria. Gli studi dimostrarono che l'efficacia di queste sostanze diminuiva drasticamente dopo le prime settimane, rendendole inutili nel lungo termine e, in molti casi, dannose.
Inoltre, la "rebound anxiety" – un aumento dell'ansia dopo la sospensione del farmaco – divenne una problematica comune tra i pazienti. La dipendenza da benzodiazepine non riguardava solo l'ansia, ma includeva anche sintomi più gravi come insonnia, distorsioni percettive e gravi effetti psicologici, che alcuni pazienti descrivevano come una "morte vivente".
Ciò che rende questa situazione particolarmente preoccupante è che alcuni pazienti continuano a sperimentare effetti negativi anche molto tempo dopo aver cessato di assumere i farmaci. Sintomi come ansia, depressione e alterazioni sensoriali possono persistere per mesi, se non per sempre, in un sottogruppo di consumatori. Un destino che, come si è visto, accomuna le benzodiazepine e gli antidepressivi.
In conclusione, il problema di fondo è che non si può risolvere con la chimica ciò che non ha una causa chimica. L'ansia e le altre condizioni psicologiche fanno parte della complessa esperienza umana, e cercare di trattarle esclusivamente con farmaci è un approccio riduttivo e pericoloso.
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