Identikit psicologico → Psicologia Investigativa
L’accertamento della verità è la finalità più importante e al tempo stesso più difficile che si deve proporre lo psicologo nella sua attività professionale, forse potremmo dire la finalità ultima del suo lavoro sia che questo sia svolto in ambito clinico sia che la sua attività sia svolta in ambito forense. Tra le due come vedremo ci sono delle forti analogie.
Infatti lo psicoterapeuta con i tempi dovuti deve mettere di fronte il paziente alla necessità di scoprire la verità: anche in ambito clinico scoprire la verità in qualche modo significa scoprire chi è il colpevole, chi ha commesso cosa. Nella psicoterapia potete credermi scoprire la verità significa quasi sempre mettere di fronte la persona alla dolorosa conclusione che il colpevole è lui stesso e nessun altro quando la persona invece, e questo succede quasi sempre, cerca disperatamente di trovare il colpevole fuori di sé, di proiettare la responsabilità del suo malessere all’esterno, di trovare un capro espiatorio che lo sollevi dal confrontarsi con la sua ombra, con il male che invece drammaticamente alberga nelle recondite profondità della sua psiche inconscia. Il paziente attiverà delle resistenze strenue pur di rimanere ancora alle sue convinzioni, al suo vecchio adattamento.
Ci saranno molte sedute di psicoterapia nelle quali riverserà fiumi di parole per cercare di convincere e di convincersi che è la moglie la causa dei suoi problemi o la madre, o il fratello, o il vicino di casa i suoceri e così via. E’ evidente che, chi è chiamato ad accogliere e a prendersi cura della sofferenza non può smantellare di primo acchitto queste convinzioni, le resistenze vanno accolte ed accettate e bisogna contenere la persona e aspettare che sia pronta a confrontarsi con le sue ombre, a guardarsi allo specchi e a confrontarsi con la sua reale immagine, senza maschere.
Diceva Carl Guistav Jung che non c’è cosa che spaventa più l’essere umano che guardarsi allo specchio e vedervi riflessa la sua immagine: chi è veramente…è questa la verità e di fronte a questa verità la maggior parte degli uomini almeno in prima battuta scappa cercando di trovare rifugio in verità fittizie e autocostruite. Diceva ancora Carl Gustav Jung che ciò che non viene risolto dentro noi stessi diventa destino…. Come a dire che se poi le cose non andranno bene, se la nostra vita sarà caratterizzata da una serie di scivoloni non sarà la sfortuna ma conflitti irrisolti che la psiche ci sollecita ad affrontare. E’ questo il compito difficile, a volte impossibile a cui è chiamata la psicoterapia e lo psicoterapeuta. Anche lo psicologo che lavora in ambito giudiziario, come lo psicologo clinico, è chiamato ad intervenire per trovare elementi probatori che portino all’accertamento della verità.
In quelle situazioni, mi sto riferendo chiaramente ad un ambito penale ma non solo, ci sarà un colpevole, che come il paziente di prima, farà di tutto per non essere scoperto, e lo psicologo forense, così come lo psicoterapeuta, dovrà mettere in atto, in scienze e coscienza, tutti gli strumenti possibili per poter mettere a fuoco quegli elementi che aiuteranno l’investigatore o l’avvocato a ricostruire ciò che in realtà è successo, la dinamica psicologia e comportamentale di un’azione criminale che ci parlerà di una determinata personalità e di un determinato modo di agire.
Cercherò ora di illustrarvi, spero il più chiaramente possibile, le possibili applicazioni della psicologia all’ambito dell’investigazione e il suo contributo quindi all’accertamento della verità non mancando ancora di sottolineare i collegamenti e le analogie quando possibili con l’ambito clinico. La Psicologia applicata all’investigazione viene definita Psicologia Investigativa. Questa disciplina nasce nel 1985 dall’opera dello psicologo inglese David Canter e si contrappone in maniera netta con il modello statunitense, per intenderci quello dell’Unità Scienza del Comportamento dell’FBI che ha ispirato film quali Il Silenzio degli Innocenti. David Canter, infatti, parla di effetto Hollywood riferendosi alla distorsione a cui ha portato il fascino che le gesta degli agenti speciali dell’FBI, molto spesso distorte ed esagerate, ha esercitato sul mondo del cinema che ha contribuito a distorcere soprattutto nell’immaginario collettivo il fenomeno dell’omicidio seriale e del serial killer.
Il modello dell’FBI, secondo Canter, è privo di scientificità ma è stato grazie alle distorsioni cinematografiche esageratamente sopravalutato. David Canter ritiene che l’approccio dell’Fbi sia eccessivamente semplicistico nel suo desiderio di essere pragmatico ed efficace. Canter afferma che sono molte le affermazioni sui serial killer che sono invalidate da un’accurata analisi scientifica. Per molto tempo i profiler americani hanno creduto fermamente, per esempio, che gli assassini seriali uccidessero vittime della loro stessa etnia per esempio basandosi su casi che loro avevano studiato e che che riguardavano assassini già catturati che avevano delle caratteristiche particolari che non possono essere allargabili a tutti. L’omicidio seriale infatti come sottolinea Canter e come risulta effettuando uno studio serio e scientifico viene commesso da tipologie di persone differenti e aggiungo io ogni caso deve essere considerato a sé..
Canter aggiunge che lo studio dell’FBI arriva a delle conclusioni che sono scientificamente false perché partono da una ricerca già viziata in partenza perché poco accurata e basata tra l’altro su un campione esiguo di assassini seriali che non possono essere considerati rappresentativi della totalità dei possibili comportamenti. Questo studio non tiene conto quindi del cosiddetto numero oscuro, cioè di tutti quegli assassini che ancora non sono stati catturati e quindi studiati e che potrebbero benissimo confermare le conclusioni raggiunte. Da queste riflessioni Canter ha sentito quindi l’esigenza di fondare una nuova disciplina che si fondi sulla psicologia applicata e che non si riduce soltanto alla formulazione di profili criminali, sebbene fondamentali, ma che possa fornire un quadro completo per l’interpretazione di numerosi aspetti di interesse psicologico in tutti gli ambiti dell’investigazione criminale.
L’interesse della psicologia Investigativa pone l’accento sulle modalità attraverso le quali le azioni delittuose possono essere esaminate e comprese allo scopo di individuare e catturare il colpevole. Canter afferma che gli elementi essenziali possono essere colti nell’analisi e valutazione della sequenza di azioni che costituiscono il processo investigativo, a partire dall’istante in cui un crimine viene commesso, fino al momento in cui il caso è portato in giudizio.
Pur essendo sostanzialmente d’accordo con le affermazioni di Canter, per amore di verità e per essere obiettivi, ritengo che non si può disconoscere l’opera di uomini della levatura di Robert D. Keppel che hanno dato un contributo fondamentale alla conoscenza della psicologia e psicopatologia del serial killer e hanno contribuito ad affinare le tecniche investigative nei casi di omicidi seriali.
Robert D. Keppel è oggi presidente dell’ Institute of Forensics a Seattle ma, ci ricorda Picozzi nella presentazione di un’opera fondamentale dello stesso Keppel “Nella mente del serial killer”, ha alle spalle una eccezionale carriera come investigatore prima alla King County Major Crime Unit, poi come responsabile degli investigatori dell’ufficio del procuratore generale di Washington.
Ha partecipato ad oltre duemila indagini su casi di omicidio e a una cinquantina su omicidi seriali. Keppel contribuisce in maniera determinante alla cattura di uno dei serial killer più pericolosi della storia americana, Ted Bundy; ha fatto parte della squadra speciale che dopo venti anni di indagini è riuscita ad assicurare alla giustizia nel 2003 Gary Ridgeway condannato a 48 ergastoli per aver ucciso altrettante donne. Assieme a David Reichert, l’investigatore responsabile delle indagini sul Green River Killer e autore di un libro sul caso, Keppel andrà ad incontrare Ted Bundy allora detenuto nel carcere della Florida dove poi verrà giustiziato, per poter entrare nella mente di un serial killer attraverso un altro serial killer.
A nessuno credo è sfuggita l’analogia con il Silenzio degli Innocenti solo che qua siamo nella realtà più cruda e Ted Bundy fornirà degli elementi fondamentali per prevedere le mosse dell’assassino del Green River. Ann Rule, un’altra importante conoscitrice della mente criminale e autrice di true crime, scrive che Keppel è l’antitesi del detective televisivo e che ha passato più di vent’anni a studiare le motivazioni e i metodi omicidiari dei serial killer. Nelle indagini, continua la Rule, non si affida soltanto al suo istinto e non è un profiler nel senso più stretto del termine bensì uno studioso che ha elaborato teorie criminologiche che hanno portato alla chiara e netta suddivisione e differenziazione tra modus operandi e firma o come la definisce Keppel biglietto da visita psicologico dell’autore di una serie omicidiaria, dando un contributo importante come dicevo anche più sopra alle investigazioni.
Il modus operandi è costituito da tutti quegli elementi indispensabili all’autore per compiere indisturbato il proprio crimine; mentre per esempio la soddisfazione di fantasie sadiche, la soddisfazione del bisogno psicologico di umiliare come quando uno stupratore lega il marito della sua vittima e lo costringe ad assistere allo stupro, sono elementi che ci parlano della firma dell’assassino, elementi unici ed originali che vanno oltre ciò che è strettamente necessario all’esecuzione di un delitto (per esempio il cosiddetto overkilling). Mentre il modus operandi solitamente cambia nel tempo, quando per esempio l’omicida ha acquisito maggiore esperienza e scaltrezza, la firma psicologica non si modifica mai perché è ancorata nel mondo psichico profondo dell’assassino, è radicata nelle sue fantasie sadico-sessuali.
E’ evidente quanto tutto questo sia fondamentale per gli investigatori quando sulle scene di vari omicidi troveranno dettagli simili quali la disposizione del corpo della vittima o ferite e mutilazioni inferte con modalità similari. Tornando ora ai contributi fondamentali della psicologia applicata all'investigazione potremmo dire che essi sono rivolti ad aiutare gli investigatori nei loro processi decisionali quando si trovano di fronte alla scena di un crimine violento A tal proposito Amato Luciano Fargnoli, psicologo criminologo della Direzione Centrale Anticrimine nel volume da lui curato “Manuale di Psicologia Investigativa” parlando del contributo della psicologia all’investigazione scrive che l’attività dell’indagare non è solo una prerogativa dell’investigatore bensì è strettamente collegata alla psicologia che come disciplina si occupa di esplorare e descrivere le azioni, i tratti della personalità e del carattere, nonché gli aspetti in ombra degli esseri umani.
Continua dicendo che ”…il termine investigare deriva dal latino “invenio” che indica l’azione del trovare. Proprio la logica dell’indagine è strettamente connessa a diverse metodologie che la stessa psicologia usa nell’investigare la soggettività di ogni essere umano servendosi di un approccio multidimensionale che comprende il colloquio clinico, la psicodiagnostica, l’anamnesi psicologica e psicopatologica.
La psicologia si trova oggi a occupare un posto di tutto rispetto nell’ambito delle indagini criminalistiche: tecniche d’interrogatorio, attendibilità della testimonianza, tecniche di confronto, tecniche di negoziazione, autopsia psicologica, profili e psicobiografie. Appare allora evidente come l’azione dell’indagare risulti l’elemento comune che lega l’attività dello psicologo a quella dell’investigatore. Lo psicologo, infatti, è sempre più spesso chiamato a dare il suo contributo all’indagine di quegli aspetti dell’azione non rilevabili fisicamente, che caratterizzano ad esempio la scena di un delitto, soprattutto quando esso apparentemente non palesa un motivo apertamente patologico nella sua dinamica nonché nella sua genesi. Lo psicologo, quindi, sulla scena di un crimine si occupa di “investigare” e ricercare quei segni che proprio come i sintomi di una malattia, possono essere caratteristici di uno specifico modo di agire.”
Quindi, da quanto sostiene l’autore di questo lavoro, lo psicologo entrerebbe a pieno titolo in campo sulla scena del crimine e parteciperebbe attivamente ai rilievi che concernono il comportamento criminale omicidiario. Infatti la sua professionalità, continua Fargnoli, è in grado di offrire informazioni indispensabili sulla condotta criminale violenta che integrano i rilievi criminalistici e insieme a questi contribuiscono a ricostruire la genesi e la dinamica di un omicidio arrivando a stilare un profilo dell’autore per poter arrestare la sua carriera criminale e contribuire alla sua cattura.
L’offender profiling è, ci ricorda l’autore, la valutazione delle caratteristiche di personalità e socio-demografiche dell’autore sconosciuto di un reato e si basa essenzialmente sulla raccolta, analisi e valutazione di informazioni riguardanti le tipologie e modalità di comportamento che l’autore del reato ha messo in atto sulla scena del crimine.
Perciò lo psicologo partecipa con l’investigatore all’analisi investigativa criminale che valuta le informazioni e le tracce comportamentali agite sulla scena del crimine per arrivare a delineare un determinato profilo di personalità partendo dal modus operandi, dalla scelta della vittima e dal comportamento messo in atto dall’assassino per attuare il suo crimine violento.
A questo punto vi citerei ancora un passaggio del bel libro curato da Fargnoli perché a mio parere coglie in pieno il significato di quanto finora esposto. Scrive ancora Fargnoli: “La Psicologia Investigativa, infine, contribuisce ad effettuare un’analisi psicologica e criminologica dei fatti avvenuti, su una base di riferimento multidisciplinare unitamente a quella delle scienze forensi.
Si può arrivare alla ricostruzione di una cronologia dei fatti, la dimensione storica dell’evento reato, anteriori e posteriori all’omicidio, attraverso la ricostruzione dinamica dell’episodio e del suo scenario, ma anche alla costruzione di un identikit psicologico del probabile autore di reato attraverso l’ulteriore analisi comparativa con altri casi simili ed alla eventuale presenza di analogie tra essi.
Oltre all’osservazione del fenomeno concentrata sull’autore del delitto, lo psicologo, pone attenzione anche allo studio della vittima quale elemento fondamentale che collega la scena del delitto al soggetto che lo ha commesso: “quel” corpo infatti “parla”.
Esso è il testimone muto dell’azione violenta dell’altro, ne porta i segni e si pone come elemento puntiforme della scena: l’attività dello psicologo viene ad esplicarsi, in questi casi, nell’osservazione della posizione del corpo della vittima, delle ferite inferte, di tutte quelle azioni “non necessarie” ad uccidere che evidenziano un’eventuale patologia dell’assassino, che narrano il suo percorso “logico-simbolico”, gli effetti che intendeva produrre col suo agire e quelli che gli sono “sfuggiti al controllo”, “alla pianificazione”, alla “volontà consapevole”.
Non ultimo il compiacimento, o meno, del proprio atto.. tutto diventa leggibile come “narrazione dell’evento”. La vittima, infatti, è l’esito delle azioni dell’autore. Ciò che si può osservare,inoltre, è il teatro, la rappresentazione che sta a significare una forma di linguaggio estremo attraverso cui l’autore libera l’insopportabile pressione dei suoi contenuti psichici (potremmo anche dirlo in questi termini: è come se per l’omicida non ci fosse più separazione, confine tra sogno, o per meglio dire, incubo e realtà, come se non ci fosse più la possibilità di contenere le sue pulsioni distruttive nel sogno, che ha appunto la funzione di digerirle e scaricarle ma fosse catturato da esse e spinto a vivere il suo incubo, spinto ad agire le sue pulsioni per scaricare la sua angoscia e ritrovare almeno per un po’ la pace).
Risulta quindi fondamentale in questa fase l’osservazione complessiva del campo dell’azione: uno sguardo globale che spazia a 360° su tutto l’evento; fase che comprende anche l’utilizzo delle sue qualità intuitive, passando attraverso l’esame della scena del crimine, l’analisi dell’azione e infine l’analisi delle informazioni raccolte. Soltanto a questo punto, all’interpretazione di tutti gli elementi seguirà la costruzione di un profilo.
La Psicologia Investigativa si configura in questo modo come un ulteriore opportunità a sostegno dell’attività dell’investigatore, rendendo operativo non solo un nuovo metodo, ma anche una nuova capacità di sentire, di cogliere e di interpretare l’evento criminoso.
Parafrasando quella che Freud aveva chiamato attenzione liberamente fluttuante ovvero l’attività mediante la quale l’analista coglie gli elementi essenziali della narrazione del suo paziente, ricostruisce con lui la sua scena ponendo particolare attenzione alla percezione globale dei frammenti, delle tracce mestiche, delle immagini,delle fantasie che costituiscono il puzzle della sua storia, lo psicologo-investigatore, come l’analista, somiglia all’archeologo: egli raccoglie tracce, frammenti sparsi, residui di un vissuto e stabilisce un collegamento tra quella realtà che non c’è più e la realtà oggettiva che è realmente sotto i suoi occhi al fine di descriverla e, soltanto allora, tentare dispiegarla.
Così, trovando i collegamenti tra gli elementi sparsi sulla scena del crimine, dando loro una sequenzialità (nello spazio in cui sono stati agiti e nel tempo in cui sono avvenuti e nella modalità in cui sono stati espressi), connotandoli di senso e traducendoli in una significazione compiuta, lo psicologo-investigatore analizza, descrive, racconta, ed infine spiega i percorsi seguiti dall’autore del reato e pertanto in un certo senso ‘risolve’ (da res-solvo=sciolgo la cosa, il nodo), l’evento criminoso.”
A tutti coloro che volessero approfondire l’argomento consiglio vivamente la lettura del testo curato dal dott. Fargnoli che tra l’altro contiene altri contributi sulla psicologia applicata alla criminalistica oltre che sulla psicologia investigativa. Per tornare ora al nostro argomento vorrei ora parlarvi della La Psicologia Investigativa applicata all’ analisi delle testimonianze. La testimonianza è un fondamentale mezzo di prova ma proprio per questo deve essere accuratamente analizzato e verificato. Siccome la testimonianza è la narrazione di un fatto attraverso l’esperienza di un osservatore è proprio per questo suscettibile di interpretazioni erronee su quello stesso fatto in quanto nel riportarlo il testimone sarà inevitabilmente condizionato da tutta una serie di fattori legati alle sue esperienze, alla sua personalità, alla sua cultura e ai suoi inevitabili pregiudizi.
La Psicologia della Testimonianza, quindi, è una branca della Psicologia Forense particolarmente importante in quanto può dare degli utili suggerimenti agli investigatori chiamati ad interrogare un testimone su come approcciarsi allo stesso per gestire la sua emotività, sulle domande da porre e su come porle e sull’osservazione di tutta quella serie di segnali non verbali che potrebbero rivelare delle incongruenze significative tra quello che il testimone riferisce e quanto è in realtà accaduto.
Per quanto riguarda le domande voglio soltanto sottolineare l’importanza della neutralità di chi interroga: infatti non dovrebbero essere mai poste delle domande che possano suggestionare il testimone in un senso o in un altro, testimone che già di suo si trova quasi sempre a vivere una situazione atipica nella quale la suggestione è già di per sé molto forte così come spesso è molto forte il desiderio di compiacere chi lo interroga.
A tal riguardo ci viene ancora in aiuto Fargnoli che sull’argomento scrive che “………la psicologia (….) rappresenta un enorme aiuto nella valutazione della credibilità e attendibilità di un soggetto poiché valuta sia gli aspetti soggettivi e motivazionali sia l’accuratezza di una testimonianza (aspetti percettivi, cognitivi, riproduttivi dell’evento cui il soggetto ha assistito)…….
Molti studi hanno evidenziato e sottolineato diverse aree problematiche nell’ambito della valutazione dell’attendibilità della testimonianza ponendo in una posizione di primo piano la natura assimilativa e ricostruttiva della memoria, le caratteristiche di percezione degli eventi, gli effetti selettivi che nella fase della rievocazione mestica possono stimolare domande fuorvianti o suggestive: esse, per loro natura, possono addirittura cancellare contenuti reali dell’evento sostituendoli con altri, condurre alla produzione di pseudo memorie o falsi ricordi.
Non bisogna sottovalutare inoltre gli effetti che eventi particolarmente traumatici e con forte carica emotiva possono avere sulla capacità di testimoniare un fatto come realmente accaduto. La memoria in sostanza è un sistema vulnerabile ed assai fragile e sfuggente: essa può essere sondata, ricostruita e quindi in definitiva alterata da una serie di informazioni post evento o dalle aspettative i pregiudizi e le caratteristiche che sono proprie di un individuo nonché dai diversi contesti in cui vengono espressi i suoi contenuti.
Risulta fondamentale quindi la maniera in cui il ricordo viene rievocato e riprodotto ed in cui risulta utile il contributo della Psicologia che potrebbe essere un valido supporto nel lavoro dell’autorità Giudiziaria, nelle attività di interrogatorio evidenziando dissonanze e alterazioni implicite nella comunicazione, problemi relativi al recupero delle tracce mestiche nella testimonianza, ed inoltre favorendo lo sblocco delle resistenze e degli atteggiamenti oppositivi nel testimone.”
Risulta evidente da quanto espone l’autore citato che chiunque sia chiamato ad interrogare un testimone quindi non può prescindere dalla conoscenza degli studi che hanno portato alla luce la complessità dei meccanismi che regolano la memoria e i fattori che possono influenzarla. Da tutto questo si evince quanto sia importante che la persona che interroga un testimone abbia una sensibilità oserei dire clinica: sarà fondamentale il modo in cui porrà le domande: infatti queste non dovranno essere suggestive, altrimenti il teste sarà condizionato e la testimonianza sarà inattendibile. Bisognerà saper cogliere quando formulare una domanda aperta o quando sarà meglio che la stessa sia chiusa.
Chi conduce l’interrogatorio dovrà avere buone capacità di accoglimento per poter mettere a suo agio la persona; buone capacità di ascolto e di osservazione per poter cogliere quelle sfumature che potrebbero far cogliere quelle eventuali contraddizioni tra verbale e non verbale (il cosiddetto linguaggio del corpo); tra verbale e tonalità affettiva che potrebbero far cogliere delle incongruenze necessarie per poter testare l’attendibilità o meno di una testimonianza. C’è anche da considerare poi che non tutti i testimoni inattendibili mentono sapendo di mentire, anzi la maggioranza è molto spesso in buona fede.
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