Andarsene di casa: significa davvero voler fuggire?
Salve a tutti,
sono un ragazzo di 22 anni e sto pensando di andarmene di casa.
Sono in terapia da circa un anno, e da quando ho iniziato credo di aver fatto passi da gigante. Sono arrivato per un disturbo del sonno (insonnia grave con risvegli notturni), ed è stato subito chiaro che il problema non fosse quello.
Soffro di ansia e depressione a periodi alterni, tutto è iniziato a causa delle complicazioni presenti nella mia famiglia.
I miei si sono separati quando avevo 7 anni, mio padre ha smesso di assumersi ogni tipo di responsabilità genitoriale (anche solo alzare il telefono e chiamare me e mia sorella per sapere come stavamo) e mia madre si è messa insieme a un ragazzo di molti anni più giovane di lei, tossicodipendente. La loro relazione è durata circa otto anni, mia sorella ha reagito a quest'apocalisse sfuggendo completamente alle dinamiche familiari (sempre fuori casa, sempre al telefono con qualcuno, sempre con un ragazzo a farle da spalla al fianco), mentre io, più piccolo, più sensibile, pur di non perdere ogni cosa mi sono schierato dalla parte di mia madre e l'ho seguita nella sua relazione tossica. Mia madre, giusto per precisarlo, non ha mai fatto uso di sostanze stupefacenti. Più che altro ha dato sfogo a tutto il suo istinto di crocerossina nei confronti del compagno, standogli vicino e supportandolo in ogni problema (visite in carcere, in comunità di recupero, vicinanza ossessiva nei suoi confronti, atteggiamento materno), non facendo caso a quello che io, di rimando, stavo vivendo. Sono stati anni difficili, uscivo spesso con lei e il suo ragazzo (assistendo, spesso e volentieri, a scene che mi spaventerebbero anche oggi che sono adulto) e non fiatavo. Di quel periodo ricordo l'ansia costante, la paura, il panico. Ricordo di essermi sentito in balia delle onde, senza nessuno che fosse lì a proteggermi perché erano tutti troppo impegnati nelle loro faccende. è stato l'inizio della mia sofferenza. Comunque, molti anni dopo, quando ormai avevo 15 anni, si sono lasciati e tutto si è dissolto in una nuvola di polvere. Almeno per loro.
Mio padre non è mai stato capace di fare il padre, è tornato a stare da noi qualche volta perché ne aveva bisogno (è incapace di prendersi cura di se stesso, soprattutto a livello economico) e perché mia madre non riesce a vivere la sua vita autonomamente, ha sempre bisogno di qualcuno a cui appoggiarsi. Stava in casa solo per il tetto sopra la testa e un piatto caldo in tavola: mai un gesto paterno nei miei confronti, mai un abbraccio, mai un pizzico di impegno per cercare di rimediare. Semplicemente, ci ignorava. Per molto tempo ho creduto che gli mancasse la volontà, che io non fossi abbastanza interessante da spingerlo a volermi bene, poi ho risolto questo nodo grazie alla terapia. Oggi so che non tutte le persone sono capaci di amare, e questo non ha niente a che vedere con me.
A mia madre ho confessato il dolore di aver vissuto determinate cose, e ho ricevuto le scuse più sentite della mia vita.
I miei genitori sono quello che sono, non posso farci nulla, ognuno coi suoi problemi e la propria storia alle spalle.
Io, comunque, sono cresciuto prima del tempo, prendendomi responsabilità che nessuno dovrebbe avere durante l'infanzia e l'adolescenza (preoccupazioni per la situazione economica familiare che non mi facevano dormire quando avevo appena otto o nove anni, consigli a mia madre sulla sua relazione, consigli a mio padre per cercare di andare avanti dato il suo modo di fare molto arrendevole). Sono stato il genitore di tutti, e nessuno è stato il mio.
Ho ancora molto lavoro da fare, me ne rendo conto. La mia terapeuta dice che è un miracolo che io non abbia sviluppato patologie psichiatriche, che in un modo o nell'altro sono andato avanti continuando a funzionare, e che questo dovrebbe insegnarmi molto sulla forza che possiedo.
Ora, non nego di avere difficoltà nell'affrontare la mia vita (nelle relazioni sociali, che instauro facilmente ma non riesco a sostenere, in quelle sentimentali, all'università, con la depressione che ogni tanto mi prende e mi costringe nel letto senza la forza di fare niente, e in tutto il resto) ma continuo a pensare, anche grazie alla terapia, di potercela fare.
Sono arrivato a un punto, però, in cui andarmene di casa è l'unica soluzione possibile. Io sono cambiato, certo, ma le dinamiche familiari sono rimaste pressoché le stesse.
Mia sorella mi odia perché crede che io abbia ricevuto più affetto di lei (e forse è vero, l'ho ricevuto seguendo mia madre nei suoi casini, ma a un prezzo altissimo) e tenta di buttarmi giù ad ogni occasione. Sente l'odore dei miei punti deboli e appena può li sfrutta per colpirmi, per buttarmi giù. Lo fa sfacciatamente e con il sorriso, in maniera inconscia probabilmente, e parlargliene è servito solo a farla negare. Negli anni ha imparato ad assumere il ruolo della vittima, della figlia messa da parte in favore del fratellino, e questo ha costretto ogni singolo componente della mia famiglia a curarsi solo di lei (che al primo capriccio riceve ogni cosa, alla prima lacrima vede consegnarsi tutto quello ciò che vuole), dimenticandosi, nuovamente, di me.
Insomma, non è una situazione facile, e la voglia di andarmene ha raggiunto l'apice della sopportazione. Volevo che accadesse quando tutto fosse stato risolto, anche con mia sorella, ma ad oggi mi rendo conto che è un'utopia. Le cose continueranno ad andare avanti in questo modo, un modo che mi ostacola emotivamente nel proseguire i miei studi, la mia vita sociale, le mie relazioni. Ho imparato a costruirmi una corazza, ma è dura vivere con qualcuno che fa di tutto per infrangerla. E sopportare non è più tra le opzioni ammesse.
Voi credete che sia sbagliato andarsene in questo momento? Pensate che sarebbe da vigliacchi levare le tende senza essere riusciti a risolvere tutto? Io ho solo una grande, gigantesca, immensa voglia di vivere che mi viene portata via poco a poco. Mi sto spegnendo, e il MIO cambiamento non basta più per evitare che accada.
Caro Emanuele
lei racconta una storia di traumi importanti e ripetuti, è difficile non concordare con la collega circa la gravità di essi.
Nessuno le può dire veramente cosa sia giusto fare, neppure chi è più a contatto con lei, come la sua terapeuta. Questo semplicemente perché il ruolo della terapia non è fare delle scelte al posto del paziente, ma aiutarlo a guardare dentro e fuori di sé e compiere quelle scelte nel modo più consapevole possibile.
D'altronde però la invito a guardare il bicchiere mezzo pieno (e direi anche più di mezzo) della sua vita fino ad ora. Io non so se sia un miracolo essere sfuggiti ad una patologia psichiatrica, ma certamente lei è approdato alla situazione attuale, non facile da raggiungere per un ragazzo di 22 anni che ha subito i traumi descritti.
Lei ha quindi certamente la forza di fare questa scelta in piena autonomia e con ottimi risultati. Faccia appello alle sue forze, non indifferenti e mantenga vivo il rapporto con la sua terapeuta, che mi pare molto buono e fruttifero. Cerchi dentro di sé le risposte e non faccia appello ad altri.
Perché lei è davvero più bravo di altri a condurre la danza della sua vita.
Il solo fatto che lei pensi ad andarsene di casa vuole dire che potrebbe essere una buona idea (e sottilineo potrebbe).
Ma forse non è tanto importante dove lei sarà, quanto chi e come sarà. Ha fatto bene fino adesso e sono convinto che farà lo stesso in futuro.
Una cosa però le voglio dire. Andarsene non ha nulla a che vedere con la vigliaccheria. Il suo coraggio si è manifestato e si manifesterà in altri modi.
Lei potrà essere di supporto ai suoi familiari anche vivendo al di fuori della sua famiglia, se sarà necessario esserlo. Il problema è come possa vivere meglio LEI.
Detto questo, faccia le sue scelte serenamente.
Un abbraccio