Psicologo e psicoterapeuta individuale, di coppia e familiare
Posso uscire dalla depressione?
Buonasera,
Spero che scrivere qui in forma di domanda ciò che mi turba possa ricevere in cambio un qualche tipo di suggerimento meno concreto delle risposte che mi sono data da sola.
Vivo da sempre una condizione di precarietà emotiva. Posso ricordare chiaramente in diversi momenti della mia infanzia una sensazione di vuoto profondo, di melanconia radicata e non motivata da un ambiente attorno a me ricco di stimoli e fertile. L'idea del suicidio, il crogiolarmi nella mia tristezza, evitare un confronto più profondo con il prossimo sono sempre stati una costante anche nella mia adolescenza, al punto che, dopo l'ultimo di una serie di interventi chirurgici all'età di 17 anni ho avuto la mia prima crisi depressiva. Vista la mia condizione di sofferenza, ho cercato aiuto in un paio di specialisti, ma siccome il rapporto instauratosi non è risultato adeguato alle mie esigenze del tempo ho finito per abbandonare ogni volta il percorso terapeutico, trovando comunque soluzioni "mie" per tornare a vivere normalmente.
Dopo 25 anni e una laurea in psicologia, sono arrivata a una conclusione a volte troppo scientifica: se il bisogno che sento di "non essere più" (per quanto so che la mia paura di soffrire mi protegge da scelte avventate) è così insito nella mia natura, è davvero giusto combatterlo? Ad oggi affronto questo senso di vuoto dedicandomi agli altri. Mi piace lavorare con i bambini, mi piacciono le persone, amo il confronto con il prossimo e lo scambio mentale che ne deriva. Più imparo, più mi lascio coinvolgere dalle situazioni della vita, più mi rendo conto della incredibile serie di fortunati eventi che hanno portato me e chi mi circonda ad essere qui, ora, a respirare un'aria che di per sé è un miracolo del cosmo. Di fronte a questa immensità di eventi casuali e fortuiti so che l'unica possibile ragione di esistere è essere un elemento positivo in un'equazione il cui risultato, per ignote ragioni, è sempre zero.
Tuttavia, a conti fatti, sento che in fondo ogni mia esperienza, sensazione e noia sono transitorie, infinitesimalmente piccole di fronte a un tutto che non posso davvero influenzare.
Con il tempo e con gli studi sono riuscita ad arginare con discreto successo gli episodi depressivi che io stessa, in fondo, tendo a ricercare, ma quella sensazione di vuoto è sempre lì a farmi compagnia. Se prima l'idea di lasciare la mia famiglia era la principale motivazione che distoglieva il mio pensiero dall'idea del suicidio, ora desidero solo smettere di pensare. L'empatia che muove la mia quotidianità è a volte eccessiva, quasi mai ricambiata, ma sento che va bene così. Vorrei trovare un modo per incanalare queste energie in un progetto che dia un senso alla mia vita, al mio essere in quanto creatura vivente e propria di una volontà, ma non ci riesco ed immancabilmente mi trovo a pensare che non essere, non vivere, non cambierebbe quasi nulla nello scorrere del tempo. Definisco la mia visione dell'esistenza come "quantistica", entropica e volubile allo spasmo, ma anche miracolosa e sempre feconda nel mio finire per giustificare ogni cosa attorno a me, dopo una infinita e stancante ricerca delle cause che l'hanno posta in essere.
Cerco di trasformare la mia tristezza in energia positiva, senza tuttavia la convinzione che nessuno sia a questo mondo per essere salvato, così che il massimo che posso fare è aiutare. So, però, di poter in potenza salvare me stessa, da questa tristezza.
La mia domanda è: posso dimenticare ciò che ho appreso in questi anni? È possibile trovare una soluzione alla consapevolezza che non sono altro che il frutto di una lunga sequenza di eventi casuali, un miracolo tra i miracoli, comunque elementare di fronte alla vastità del cosmo?
So che c'è poco di concreto nelle mie parole, e mi scuso con chi le leggerà per il viaggio mentale che vi sto proponendo,
Grazie per la vostra attenzione
A.
Cara collega, chiunque sceglie di studiare Psicologia, lo fa inconsciamente per cercare di risolvere i propri problemi.
A differenza dei "normali" pazienti che si rivolgono allo psicoterapeuta e risolvono i propri problemi in tempi ristretti, il "paziente psicologo" prima si fa 6 anni di università, poi 4 di specializzazione e alla fine, quando la legge lo obbliga a fare la psicoterapia... inizia a risolvere davvero.
La DEPRESSIONE dovrebbe essere chiamata OPPRESSIONE di modo da far comprendere meglio e subito l'eziopatogenesi del problema. Il soggetto depresso cresce in un contesto familiare povero di emozioni positive e spesso viene screditato e svalorizzato proprio da coloro che avrebbero dovuto incoraggiarlo e stimarlo: i genitori e la famiglia in genere. [Alice Miller]
Nel corso della propria crescita accumula e reprime rabbia e frustrazione, finchè non si demotiva e perde l'interesse e la fiducia verso le cose belle della vita.
Dai retta a me!
Sarai una brava psicoterapeuta proprio con i pazienti che soffrono di Depressione, proprio perchè questo è il tuo problema. Non scoraggiarti, ma al contrario pensa che la tua vera "formazione" professionale sarà proprio questa! Quando avrai risolto il tuo problema, conoscerai la strada che porta fuori da quel labirinto. Potrai così andare a prendere e condurre fuori tutti coloro che, come te ora, si sono persi là dentro.
Capisci?
La depressione è la tua "missione"!
Non perdere però tempo a cercare nei libri! Fai una psicoterapia, come fanno tutti. E se non ti sei trovata con quelli di prima... cerca ancora! Magari quelli erano bravi a risolvere altre questioni! Ognuno ha le proprie!!
Se vorrai un consiglio da collega su come orientarti, ci sentiamo.
Ma non stare lì a demoralizzarti inutilmente. La Depressione si risolve!
Ti mando un abbraccio con empatia.
Psicologo e psicoterapeuta individuale, di coppia e familiare - Roma