E' legittimo secondo voi avere paura per il proprio futuro?
Buonasera, sono una donna di 35 anni e mi rivolgo a voi perché ho paura per il mio futuro. La mia non è una paura infondata, ma deriva dall'osservazione di quello che sta diventando il mondo: il liberismo più sfrenato, che si concretizza in licenziamenti facili, demansionamenti a go go, il tentativo di relegare la donna a casa s fare la mamma (...), la sanità a pagamento e l'istruzione elitaria hanno, secondo me, l'effetto evidente di schiacciare l'individuo, specie se questi (come nel mio caso) ha una personalità fragile e non proviene da un contesto abbiente. Dopo il liceo, concluso col massimo dei voti, avrei voluto studiare filosofia. Ero brava, la migliore del mio istituto. Ma l'organizzazione violenta e patriarcale della mia famiglia (padre prevaricante, mamma zerbino; io, nonna e sorella trattate come cani) me lo hanno inedito. E ho dovuto cominciare a lavorare; dalle basi, dai lavori più umili. Sentendomi ogni giorno sempre più derisa e mortificata. E da quel momento in poi, tutto è cambiato. Ho conosciuto la depressione, gli psicofarmaci; ho cominciato ad assumere qualsiasi sostanza stupefacente si presentasse al mio sguardo. Infine, tanto per non farmi mancare nulla, ho conosciuto anche la bulimia (sorta per la prima volta, però, durante l'adolescenza), la rabbia e la cattiveria verso il mio indegno corpo (simbolo di un'esistenza fallimentare) e l'autolesionismo. Dal 2007, una nuova esperienza lavorativa “lontana dalle mie corde“: senza una laurea non potevo ambire ad altro ed ero troppo concentrata sul mio piangermi addosso per potere agire; e questa volta, la cosa peggiore è stata che, dopo essere stata pubblicamente derisa e umiliata per avere palesato le mie ambizioni, sono stata sbattuta fuori a calci (in questi termini ne parlano mamma, suocera e alcuni altri). A 35 anni e senza speranze per il futuro. Nel frattempo, qualche anno fa ho ripreso gli studi universitari, con eccellenti risultati, ma con la consapevolezza che non mi serviranno a niente. Soprattutto in questa società, dove l'uomo si comporta da lupo con gli altri uomini. In questo momento, vivo particolarmente male: sono vittima dei querulomani, di un caso di malasanità (privata); ho perso parte dei miei risparmi per un investimento sbagliato. E la persona con la quale vivo non ce la fa più a sopportarmi (come potrebbe?) e vive nel terrore che tornino i momenti più neri, quelli della depressione. E quindi prevarica e aggredisce. Dal canto mio, mi sembra quasi di vivere in un racconto di Maupassant, dove non esistono sprazzi, anche minuscoli, di pace e serenità. Seguo un percorso di psicoterapia settimanale e un gruppo cognitivo comportamentale, nella speranza di trovare un po' di quiete. O di rassegnarmi a una vita da povera, precaria, vecchia e fallita. Senza scampo. Perché adesso ho anche paura di cercarmi un lavoro; e non solo per il Jobs Act, quanto perché mi si prospetta un periodo di delusioni (cito la consulente del servizio di outplacement che mi segue), specie perché a 35 anni (eresia!) vorrei lavorare nel mio ambito di studi, dove ho qualche sporadica esperienza, piuttosto che nell'ambito tecnico che mi sono ritrovata a dover ricoprire per anni. Penso spesso sl suicidio, ogni giorno. Conservo gli antidepressivi e penso a loro, come se fossero “l'ultima pallottola“. La via d'uscita. E spero che, un giorno o l'altro, deciderò di mettere fine a questa pena. E dopo questo sfogo prolisso e noioso (...), arrivo alla domanda. In una posizione come la mia è legittimo, secondo voi, avere paura per il proprio futuro? In caso affermativo, in quale misura? Perché le idee suicide sono clinicamente associate a un disturbo depressivo e non a una libera scelta, a fronte di un'esistenza non voluta? Perché ci si affanna così tanto a cercare una risposta che non esiste, perché ci si deve illudere e autoconvincere, sedandosi con gli psicofarmsci, ma anche con il problem setting e con terapie, che illudono di poter essere artefici del proprio destino, capaci di crearsi una vita soddisfacente, nonostante la società, invece, schiacci l'individuo sempre di più? Grazie a chiunque risponderà.
Gentile Ludovica,
parto da ciò che già sa: il mondo non è tutto rosa e fiori (non lo è mai stato) e la vita non è una passeggiata. Studiando filosofia troverà parecchie riflessioni al riguardo. Il punto è che la sua storia e le sue esperienze sono costellate da ingenti restrizioni alla libera espressione delle sue capacità, delle sue potenzialità, dei suoi desideri, e delle sue volontà. I conti con la realtà vanno sempre fatti ed alcuni limiti vanno accettati, ma non fino al punto da sentirsi schiacciati e gettati continuamente a terra, e questo sentimento inevitabilmente le genera depressione. Ciò che le è mancato, e ancora le manca, è un'esperienza umana in cui poter stare eretta ed a testa alta senza sentirsi sopraffare dall'altro o dal mondo. Comprendo i suoi sentimenti di sfiducia totale nel futuro e nella cura, nonchè il desiderio di farla finita; ma questa è la depressione che sta parlando. Non lo dico per ipocrita retorica, ma perché facendo questo mestiere l'ho visto accadere più volte: c'è sempre una possibilità di cambiamento e di far prendere un'altra direzione alla propria vita. Non è una cosa facile e non accade dall'oggi al domani, ma questo non significa che sia impossibile. Approffondisca questi temi nei percorsi di psicoterapia che già segue e negli studi che sta portando avanti, lì potrà trovare una lanterna che, per quanto debolmente agli inizi (ma potrà sorprendersi di quanta luce possa fare), illumini il suo futuro.
Un caloroso saluto.