Dott.ssa Valeria D'Antonio

Dott.ssa Valeria D'Antonio

psicologa psicoterapeuta

L'elaborazione del lutto postabortivo in una prospettiva integrata

In questo mio contributo approfondirò il processo del lutto per un bambino non nato, in una prospettiva che tiene conto di tutte le dimensioni dell’umano, fisica, psicologica e spirituale. La ferita dell’aborto, infatti, può essere pienamente compresa e affrontata solo tenendo conto di tutti questi livelli, in quanto trauma fisico e psicologico, che ha un profondo impatto sulla dimensione spirituale, andando a toccare la domanda di senso sulla vita propria di ogni persona umana. Per questo motivo, in una prospettiva cristiana, non si può tralasciare di considerare i bisogni spirituali di una persona ferita dall’aborto volontario, a cui è possibile rispondere all’interno di una esperienza religiosa autentica, in cui questa possa sperimentare il perdono e la risposta completa alle domande di senso[1].

Per esplorare il processo del lutto prenatale mi servirò delle parole delle donne e gli uomini che hanno vissuto un aborto, anche per poter capire “dall’interno” che cos’è questa esperienza, che cosa suscita, quale profondi vissuti di sofferenza, di colpa, di indegnità. Citerò a questo scopo le parole delle donne e degli uomini che in questi anni ho incontrato collaborando come psicologa con l’apostolato della Vigna di Rachele[2].

 

1.Un lutto proibito

L’aborto innanzitutto è un lutto, dove con lutto intendiamo la risposta emotiva fisiologica dopo una perdita. Nel caso di un aborto, sia spontaneo, sia procurato, del quale in particolare mi occupo, si tratta di un lutto particolare, complicato, in quanto non riconosciuto, negato, proibito.

È un lutto non riconosciuto a volte neanche dalle persone stesse che lo vivono, che spesso ne avvertono tutti i sintomi, il dolore, il senso di vuoto e di depressione, la difficoltà ad andare avanti nella vita, ma questo non viene sempre collegato all’aborto, e alle volte viene fatto di tutto per mantenere seppellite le emozioni collegate con l’aborto. Questo avviene non senza un costo psichico, infatti impedendosi di vivere le emozioni negative, cioè mettendo in atto meccanismi di difesa, ci si chiude, non potendo neanche più vivere quelle positive e precludendosi in questo modo molte delle esperienze più significative della vita.

I meccanismi di difesa sono la migliore soluzione trovata dalla nostra mente per permetterci di vivere e integrare nella nostra vita eventi e vissuti altrimenti intollerabili, ma allo stesso tempo mettere in atto tali meccanismi significa impedirsi di provare una gamma di emozioni anche positive, e non poter affrontare il problema da cui scaturiscono.

I meccanismi di difesa inoltre non sempre sono destinati a durare a lungo. Basta qualcosa che faccia scaturire quel ricordo lasciato da parte, ad esempio una gravidanza successiva, propria o di una persona vicina, o un lutto successivo, o, spesso, l’arrivo della menopausa, che è per molte un tempo di bilancio della propria vita, e il dolore che si pensava rimosso si ripresenta ancora più forte.

A questo proposito mi viene in mente una donna che ha abortito il terzo figlio perché concepito in un momento particolarmente difficile per tutta la famiglia, in cui stavano vivendo un altro lutto, e varie altre difficoltà. Sono poi passati nove anni, finalmente i problemi familiari si sono risolti, sembrava tutto a posto e questa signora racconta che una sera si è seduta sul divano e ha detto improvvisamente “ma cosa ho fatto??”, le è tornato il pensiero dell’aborto e insieme a questo il dolore, il senso di colpa, la percezione di aver compiuto con leggerezza qualcosa di irrimediabile. Per nove anni non ci aveva pensato, eppure non era un capitolo chiuso della sua vita, ma al contrario quel momento ha dato inizio alla possibilità di poter guardare questo dolore, poter elaborare il lutto, e superarlo.

Scrive una ex-partecipante al ritiro della Vigna di Rachele, che ha abortito due volte, circa 20 anni prima:

L’aborto, quel nemico, mi devastò la vita, la fece sua, ne prese i pezzi e li plasmò a suo piacimento, la rivoltò e la cambiò totalmente. Persi i valori di riferimento, le ambizioni, i desideri, la fiducia negli altri e nel mondo, la capacità di amare ancora.

Persi me stessa in quella guerra devastante, persi un uomo che cercai di amare, ma che non riuscì a sopportare accanto a sé una donna distrutta da un nemico intrattabile e odioso, a lui sconosciuto.

Tutta la mia vita cambiò, interruppi gli studi, cambiai vita, mi rinchiusi in me stessa sentendomi fortemente colpevole per quello che avevo fatto.[3]

 

Questa donna nel tentativo di superare l’aborto semplicemente andando avanti con la vita, si trovò al contrario prigioniera dei postumi di questo. La guarigione poté iniziare solo quando riuscì a ricondurre questo senso di depressione, di vuoto, di immobilità, all’esperienza dell’aborto, riconoscendo di avere bisogno di una guarigione, di un’elaborazione di questo lutto.

La difficoltà di riconoscere e dare un nome al lutto per un bambino abortito si può ricondurre a diverse cause[4], legate da una parte alla natura stessa dell’esperienza traumatica, che innesta, come detto, meccanismi psichici volti al suo superamento, e  dall’altra al clima culturale in cui viviamo, che non favorisce il riconoscimento della necessità di un lutto per chi non ha mai visto la luce. Ammettere che possa esserci una forte sofferenza psicologica e spirituale dopo un aborto volontario, sarebbe come andare a minare le fondamenta di tutte le argomentazioni che propongono l’aborto come un diritto e la soluzione a un problema. Argomentazioni che hanno ragioni politiche ed economiche e che sono diventate parte integrante della cultura dominante, al punto che l’aborto è proposto sempre più spesso alla prima difficoltà, anche superabile, durante la gravidanza. Emblematici di questo sono i casi di aborto del secondo trimestre, cosiddetti aborti “terapeutici”, dove anche questo stesso nome è indice di una menzogna culturale, cosa c’è infatti di terapeutico, cioè di curativo, in un aborto?

In tali casi comunque è sempre più frequente che senza neanche troppi accertamenti sulla trattabilità della patologia fetale, venga proposto l’aborto, come quasi unico sbocco dopo che esami sempre più invasivi hanno riscontrato qualcosa di anomalo. E questi sono tra i casi più delicati dal punto di vista psicologico. Non richiede troppo sforzo d’immaginazione, penso, riuscire ad immedesimarsi con lo stato d’animo di angoscia e di confusione di una mamma o di un genitore, quando di fronte a una gravidanza spesso cercata, desiderata, si sente dire della malformazione del bambino e proposto l’aborto come prospettiva. È una notizia che viene a scuotere tutte le certezze, tutti i progetti, e la coppia che forse più avrebbe bisogno in quel momento di trovare qualcuno che sappia ascoltare, comprendere, rassicurare, si trova invece davanti a medici, e spesso anche a familiari che, nella migliore delle ipotesi, con un democratico “decidete voi”, li lascia soli.

Theresa Burke[5] parla in questi casi di un doppio lutto, del figlio sano immaginato, desiderato e del figlio reale, malato. Per cui la sofferenza dopo questo tipo di aborto è particolarmente acuta.

Ecco cosa scrive una di queste donne, dopo l’aborto del secondo trimestre del secondo figlio:

Quando ho preso la mia decisione ( in uno stato mentale di assoluta confusione ) ho detto “ Non c'è gioia per questo bambino! “ E chi meglio di me sa cosa vuol dire non sentire gioia in famiglia! Ero convinta e speranzosa di morire insieme al mio bambino quel giorno! Quel giorno stesso ho perso la mia battaglia con la vita, ho perso il mio matrimonio e ho perso me stessa.

Un altro aspetto che rende difficile, proibito, il lutto dopo un aborto è legato all’impossibilità di avere un rito, un luogo, in cui ricordare questi bambini persi, come ribadisce, meglio di qualsiasi spiegazione, questo frammento di poesia di una delle partecipanti ai nostri ritiri spirituali:

(...)

Non c'è stato alcun funerale

niente fiori, niente musica

niente belle parole

nessuna pietra porta il tuo nome

 

non c'è nulla che onori la tua vita

strappata per vergogna,

tolta nella segretezza

con una violenza impronunciabile

 

però il pianto c'è, prezioso bimbo mio,

c'è un vuoto

un dolore

un lutto impronunciabile

 

ti posso allattare solo con le mie lacrime

per favore, lasciami allattarti

con le mie lacrime.

È molto prezioso, in questo senso, il seppellimento dei bambini non nati, che non solo restituisce la dovuta dignità a questi bambini, ma offre una ritualizzazione, uno spazio di espressione al dolore di una madre, di un padre, che la maggior parte della volte, invece, non può essere espresso e non viene accolto, e le donne è come se non si sentissero in diritto di sentire questo dolore, di cui non si può parlare. Prima di venire a un ritiro una donna ci ha detto “ che bello finalmente potermi trovare in un ambiente dove si può parlare di aborto senza preoccuparsi di mettere a disagio le altre persone”.

Quindi il primo passo per l’elaborazione del lutto e dunque per la guarigione è proprio potersi concedere questo spazio per guardare questa ferita, che le persone molto spesso portano nell’anima da sole. Poter raccontare la propria storia e poter esprimere queste emozioni molto forti collegate all’aborto, di dolore, rabbia,  confusione, colpa, solitudine, vuoto.

 

2.Aborto e legami familiari

 

La necessità di riconoscere ed elaborare il lutto di un aborto non riguarda soltanto le donne che lo subiscono direttamente, ma, in modi diversi, tutto il nucleo familiare. Entrambe le testimonianze riportate precedentemente parlano di una distanza, se non di una rottura, anche nelle relazioni affettive, infatti anche in famiglia si può non trovare lo spazio per esprimere il profondo lutto per il bambino non nato, e questo allontana, rende più distaccate le relazioni, anche tra coniugi o fidanzati, così come tra genitori e figli. Tante coppie raccontano che l’aborto aveva creato una distanza  tra di loro, anche perché i tempi di elaborazione del lutto sono molto diversi per ognuno, e possono non coincidere, creando delle incomprensioni semplicemente perché l’altro sta attraversando una fase diversa, o non è ancora pronto a vedere, a riconoscere il proprio dolore, e ci si accusa, reciprocamente, di non essere stati capaci di fermarsi.

Scrive a questo proposito una donna, prima di partecipare a un ritiro:

Purtroppo il dolore è ancora tanto vivo, sento che si trasforma sempre, a volte la rabbia prende il sopravvento, a volte la tenerezza, a volte l'odio verso me stessa e verso mio marito sono fortissimi. Si, la mia più grande paura è d’aver voluto rovinare la mia famiglia, è come se a volte non riuscissi più a provare nessun sentimento ma solo un grande vuoto che mi spinge poi ad incolpare mio marito per non avermi fermata!!! Si, questi giorni sono bui, lo sto accusando di aver fatto decidere tutto a me, lui continua a dirmi che non era in grado di prendere una decisione tanto si sentiva confuso e spaventato. Il punto è che continuo a dirmi e convincermi che abbiamo fallito come famiglia, noi che ci ritenevamo una coppia affiatata, al primo ostacolo che abbiamo incontrato non ce l’abbiamo fatta e non siamo stati in grado di mettere al mondo un bambino!!! Che razza di famiglia siamo???!

Anche gli uomini[6], al pari delle donne, vivono un lutto dopo l’aborto, anche loro hanno bisogno di uno spazio e di un tempo per elaborare, accogliere questo lutto. Ci sono uomini che spingono all’aborto, per paura, per inesperienza, altri che lasciano scegliere le donne, pensando di lasciarle libere e fare il loro bene, e altri ancora che non vorrebbero che la compagna abortisca e sperimentano tutta l’impotenza di non poter fare niente per la vita del loro figlio. In ogni caso anche gli uomini si possono trovare a sperimentare tutti i sintomi del lutto post abortivo, magari con dei tempi diversi da quelli della loro donna, anche a seconda del ruolo che hanno avuto nell’aborto. Quando la coppia si ritrova insieme ad elaborare questo lutto, attraversando tutte le emozioni correlate, e potendosi ritrovare e perdonandosi reciprocamente, è un momento particolarmente forte e ricco della vita della coppia, che ritrova una possibile unità, spesso perduta dopo l’aborto e la possibilità di andare avanti e ritrovare una speranza.

La stessa donna di prima, dopo il ritiro, a cui ha partecipato insieme al marito, scrive:

Ho potuto vedere la fragilità di mio marito e tutto il suo dolore. Lui mi ha chiesto scusa. Non riesco più a condannarlo.

Allo stesso modo l’aborto colpisce anche le relazioni tra madre e figlio e ha un effetto anche sui fratelli dei bambini abortiti.

 

  1. I passi dell’elaborazione del lutto

Ricondurre il proprio malessere all’aborto, cioè far cadere i meccanismi psichici che proteggevano dal ricordo doloroso, è un momento molto critico e molto doloroso, ma la «crisi» è sempre anche opportunità  di cambiamento e guarigione, e sicuramente è il punto di partenza per l’elaborazione del lutto.

Dopo aver riconosciuto la propria ferita e averla ricondotta all’aborto, è necessario riattraversare l’esperienza traumatica e poter esprimere tutte le emozioni correlate con questa.

Poter esprimere ad esempio la rabbia, il risentimento, verso il genitore che, in buona fede, pensava che avere un bambino potesse impedire di proseguire gli studi o realizzarsi professionalmente, o il partner che ha detto “scegli tu”, lasciando sola la donna in questo momento delicato. È importante poter riconoscere ed esprimere questa rabbia, perché la rabbia è come pietra che riempie le mani e i cuori e non permette di ricevere altri doni, e perché la rabbia nasconde sempre una ferita, e riconoscendo e risolvendo la rabbia, si può vedere anche la ferita sottostante e iniziare a guarirla.

Inoltre riconoscere il risentimento costituisce un passo fondamentale nella direzione del perdono degli altri, cioè del liberarci da questo peso della rabbia, rinunciando a nutrire sentimenti di vendetta, che appesantiscono, e non permettono di andare avanti nella vita. Perdonare significa uscire dal ruolo di vittima trovando in sé le risorse, anche a fronte di un altro che non riconosce il proprio sbaglio. Inoltre nella prospettiva cristiana perdonare significa affidare a Dio, giudice giusto, l’altro, la situazione, il proprio risentimento, perché Lui lo trasformi, e la persona possa essere liberata dal peso di queste emozioni irrisolte. Inoltre perdonando gli altri si arriva anche a capire il perdono per se stessi, che, come vedremo, è parte decisiva dell’elaborazione del lutto di un aborto.

Un altro aspetto fondamentale è quello della riconciliazione con il proprio bambino perso con l’aborto, il riconoscimento dell’unicità di quella gravidanza e del bambino concepito, potendogli così dare un nome, e instaurare una relazione materna o paterna spirituale con lui o lei, potergli parlare, potergli scrivere, poterlo piangere, poterlo pregare.

Nella prospettiva cattolica sappiamo che un giorno rincontreremo i bambini abortiti, che ci precedono nella Gloria, e questo è un aspetto molto significativo nel processo di guarigione spirituale, in quanto si sperimenta realmente come niente sia perduto per sempre e si possa stabilire una reale relazione spirituale con il bambino, che, in quanto concepito, è un essere umano a tutti gli effetti che parteciperà alla Resurrezione.

È possibile ritrovare dunque la propria maternità, scoprire, forse per la prima volta, di essere state madri, in particolare per quanto riguarda le donne che non hanno più avuto altri bambini, riconoscere questo, e coltivare la memoria di quel bambino. Mi ricorderò sempre una donna che alla fine del ritiro, della Funzione in cui si ricordano i bambini persi con l’aborto, ci ha detto “grazie per aver dato una dignità al mio bambino.” E un’altra ci ha scritto “Rendermi conto del fatto che ero stata madre è stato per me un tipo di epifania, una rivelazione”.

O ancora, un’altra testimonianza, di una donna che ci scrive dopo il ritiro:

Tutto il resto non esiste più, i sensi di colpa, le paure, il non riuscire a perdonarsi. Il mio Damiano è con me, lo vedo, lo sento sorridere; continuo a piangere, ma in modo differente. Oggi sono rinata. L’aver accettato la morte e poi la vita di questo bambino, il mio Damiano, è stata un'esperienza molto faticosa, straziante e difficile, ma adesso sono sicura che lui è vivo ed è nelle braccia di Dio e questo mi rassicura e mi fa pensare che un giorno potrò incontrarlo e quello sarà il più bel giorno della mia vita! Potrò finalmente abbracciarlo, stringerlo a me e riempirlo di baci. Mi manca tantissimo non poter fare queste cose oggi! Ora posso parlare con mio figlio senza provare un senso di lacerazione devastante.

Poter istaurare una relazione con il proprio bambino perso è anche potergli parlare, poter rivolgersi direttamente a lui o a lei, come fa questa donna con questa bella poesia, piena di struggimento ma anche di una pace raggiunta, poesia che porta proprio nel titolo il nome dato alla bambina “A Elettra”:

Figlia mia,

brivido di luce che fuggisti dai miei occhi

come stella cadente ai margini della visione,

se non ti avessero strappata dal mio ventre

nel buio dei sensi anestetizzati

chi saresti diventata?

Se quel giorno avessi percorso passi lontani

dalla gelida sala impregnata di morte,

e l’orrido strumento non avesse violato

i sacri anfratti della mia femminilità,

sfregiandola per sempre,

chi saresti stata?

Se quel mirabile costrutto di cellule che eri tu,

potenza di complessità insita in forme ancora primordiali,

caleidoscopio in trasformazione di perfetto ordine ed equilibrio,

non fosse stato risucchiato e ridotto a informe poltiglia

destinata ai rifiuti speciali,

chi saresti cresciuta?

Chissà perché ti immagino femmina, senza sapere,

che la magia era iniziata da poco

e solo la tua umanità era già data.

Forse per risonanza e rifrazione di me in te,

nella minuzia di te,

io ripiegata sul muto silenzio

del ventre rimasto vuoto,

a ricordare i momenti della tua presenza,

quando miracolosamente crescevi,

frutto dell’amore incosciente.

Prima che fossi strappata

a chi ha provato a lottare per difenderti

ma non ce l’ha fatta, vittima della solitudine,

il mondo contro e le proprie paure,

e così quel giorno è un po’ morta con te.

Domani cammineremo nei giardini della rimembranza,

non ti vedrò, ma sentirò la tua presenza,

sarai come vento che mi sfiora la pelle,

e nel contatto delle nostre essenze

io sarò madre, tu sarai figlia,

per sempre.

Un’altra riconciliazione, oltre quella con il bambino e con la propria maternità o paternità, che bisogna operare è quella con Dio, perché la ferita dell’aborto, in particolare procurato,  tocca una dimensione di religiosità, cioè di domanda di senso della vita, e per questo motivo tante volte neanche una psicoterapia riesce a guarire questa ferita. Sono sentimenti molto profondi di colpa e di indegnità, per cui una donna, una persona, che ha una conoscenza, anche superficiale, della tradizione religiosa cristiana, quasi sempre è convinta del giudizio e della condanna di Dio, sente di aver compiuto il peccato “imperdonabile” quindi è importante che invece si sentano perdonate, degne del perdono e della Misericordia di Dio.

Riporto a tale proposito una riflessione che ci ha mandato una ex- partecipante, a partire dal brano evangelico della parabola del Figliol Prodigo[7]:

Quest'autunno, sempre cercando una risposta, una via d’uscita alla mia depressione, alla mia angoscia e alla mancanza di senso che sentivo profondamente, avevo ripreso un libro [sul figliol prodigo] e mi aveva tanto colpito il capitolo sul figlio minore che se ne va. Riuscivo benissimo a capire tutti gli stati d'animo che venivano descritti, pascolare i porci, la fame che porta a desiderare di mangiare quello che mangiano i porci, la vergogna, il rimpianto. Ma mentre il figlio minore sentiva la voce che gli faceva desiderare di tornare a casa, io sentivo solo una grande rassegnazione e l'indegnità di poter desiderare di tornare davvero a casa. Desideravo desiderare di tornare a casa, ma non ci riuscivo fino in fondo, con l'onestà del cuore. E l'altra cosa che proprio non riuscivo a immaginare era che potesse essere ammazzato un vitello grasso per me, e tirata fuori la veste più bella. Credevo fosse un po' tutto un effetto letterario. 
Se proprio fossi riuscita con molti sforzi di chiedere di tornare a casa, e di tornarci, sarei stata tutt'al più riammessa ma senza troppo clamore, solo riammessa nel grigiore che tutto sommato ricordavo.

Il weekend [della Vigna di Rachele] è stato il mio vitello grasso, la mia veste più bella, il Padre che mi vede da lontano e mi corre incontro, l'anello, i calzari e tutto il resto. Il ritorno a casa. E la festa per il ritorno a casa!

Penso che questo brano esprima bene il senso di indegnità che si prova e quasi l’impossibilità a immaginare di essere riaccolte, perdonate.

Infine non è possibile però neanche accogliere il perdono di Dio, cioè sentirsi veramente perdonate, tanto vero che molte donne tornano tante volte a confessarsi, se non si arriva a perdonare veramente se stessi, a non guardarsi solo alla luce di quello che si è fatto, ma in tutta la propria dignità di donna, di uomo, saper guardare quell’evento dell’aborto all’interno della propria storia di vita, nella sua verità, senza far derivare da questo un’impossibilità di procedere nella vita, ma sentendosi al contrario accolte, perdonate, ancora degne di amore, ritrovare la speranza di andare avanti nella vita, capaci di costruire qualcosa. Solo così questa ferita potrà cicatrizzarsi, rimarrà il segno, il ricordo, a volte farà male, ma non sarà più una ferita aperta.

E una delle più belle testimonianze di questa speranza ritrovata sono le donne e gli uomini che dopo aver vissuto loro stessi l’esperienza dell’aborto, decidono di aiutare altri, a non compiere lo stesso errore, o a ritrovare a loro volta la speranza, il perdono, la guarigione dopo l’aborto, come fanno le ex-partecipanti che oggi ci aiutano nell’equipe dei ritiri della Vigna di Rachele, incarnando le parole di Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae[8], quando rivolgendosi alle “donne che hanno fatto ricorso all’aborto”, conclude dicendo:

Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita.”

Concludo, riportando ancora una poesia, che sintetizza questo lavoro di elaborazione del lutto, questo attraversare il dolore per poter giungere a una sua risoluzione e una pace. La poesia si intitola “Dalla disperazione

Hanno dovuto separarci

ma non hanno mai potuto strapparti dal mio cuore.

Hanno potuto separare la carne, ma non l'amore.

Ora tu voli libero come una piuma cade dalle ali di una colomba.

 

Il lutto fu quasi troppo da sopportare.

Ora sto guarendo, emergendo dalla disperazione

Figlio mio, tu esisterai sempre, per tutta l'eternità.

Nessuno potrà mai toglierti a me.

 

Le nostre anime legate oltre il tempo e lo spazio.

Nessun bisturi potrà separare il nostro eterno abbraccio.

 

Sei nei cieli, angelo mio, sei la mia guida, sempre al mio fianco

Ci incontreremo in cielo

perché con Dio

tutto è possibile.

 

 

 

[1] Michielan, M. Rinascere si può: postaborto e riconciliazione. Ed. Porziuncola, 2011

[2] La Vigna di Rachele è un apostolato cattolico  internazionale per la guarigione dopo l’aborto, che si è sviluppato negli Stati Uniti da oltre trent’anni, e si basa su un metodo che comprende la dimensione psicologica e spirituale della persona, all’interno di un percorso (ritiro spirituale) della durata di un weekend. Per maggiori informazioni cfr. www.vignadirachele.org.

[3] Questa come la maggior parte delle testimonianze citate in questo scritto possono essere trovate, insieme ad altre, nei siti internet www.vignadirachele.org e www.progettorachele.org.

[4] Burke T., Reardon D.C., Forbidden Grief, The Unspoken Pain of Abortion , Acorn Books, Springfield, IL, 2002

[5] Op. cit.

[6] Su questo tema vedi: Vanni, A., Lui e l’aborto. Viaggio nel cuore maschile, Ed. San Paolo, 2013; Burke, K., Wemhoff, D., Stockwell, M., Redeeming a father’s heart, AuthorHouse, 2007

[7] Cfr. Luca 15, 11-32

[8] Giovanni Paolo II, Lettera  enciclica Evengelium vitae, n. 99

 L’elaborazione del lutto postabortivo in una prospettiva cristiana integrata

Valeria D’Antonio

 

In questo mio contributo approfondirò il processo del lutto per un bambino non nato, in una prospettiva che tiene conto di tutte le dimensioni dell’umano, fisica, psicologica e spirituale. La ferita dell’aborto, infatti, può essere pienamente compresa e affrontata solo tenendo conto di tutti questi livelli, in quanto trauma fisico e psicologico, che ha un profondo impatto sulla dimensione spirituale, andando a toccare la domanda di senso sulla vita propria di ogni persona umana. Per questo motivo, in una prospettiva cristiana, non si può tralasciare di considerare i bisogni spirituali di una persona ferita dall’aborto volontario, a cui è possibile rispondere all’interno di una esperienza religiosa autentica, in cui questa possa sperimentare il perdono e la risposta completa alle domande di senso[1].

Per esplorare il processo del lutto prenatale mi servirò delle parole delle donne e gli uomini che hanno vissuto un aborto, anche per poter capire “dall’interno” che cos’è questa esperienza, che cosa suscita, quale profondi vissuti di sofferenza, di colpa, di indegnità. Citerò a questo scopo le parole delle donne e degli uomini che in questi anni ho incontrato collaborando come psicologa con l’apostolato della Vigna di Rachele[2].

 

1.Un lutto proibito

L’aborto innanzitutto è un lutto, dove con lutto intendiamo la risposta emotiva fisiologica dopo una perdita. Nel caso di un aborto, sia spontaneo, sia procurato, del quale in particolare mi occupo, si tratta di un lutto particolare, complicato, in quanto non riconosciuto, negato, proibito.

È un lutto non riconosciuto a volte neanche dalle persone stesse che lo vivono, che spesso ne avvertono tutti i sintomi, il dolore, il senso di vuoto e di depressione, la difficoltà ad andare avanti nella vita, ma questo non viene sempre collegato all’aborto, e alle volte viene fatto di tutto per mantenere seppellite le emozioni collegate con l’aborto. Questo avviene non senza un costo psichico, infatti impedendosi di vivere le emozioni negative, cioè mettendo in atto meccanismi di difesa, ci si chiude, non potendo neanche più vivere quelle positive e precludendosi in questo modo molte delle esperienze più significative della vita.

I meccanismi di difesa sono la migliore soluzione trovata dalla nostra mente per permetterci di vivere e integrare nella nostra vita eventi e vissuti altrimenti intollerabili, ma allo stesso tempo mettere in atto tali meccanismi significa impedirsi di provare una gamma di emozioni anche positive, e non poter affrontare il problema da cui scaturiscono.

I meccanismi di difesa inoltre non sempre sono destinati a durare a lungo. Basta qualcosa che faccia scaturire quel ricordo lasciato da parte, ad esempio una gravidanza successiva, propria o di una persona vicina, o un lutto successivo, o, spesso, l’arrivo della menopausa, che è per molte un tempo di bilancio della propria vita, e il dolore che si pensava rimosso si ripresenta ancora più forte.

A questo proposito mi viene in mente una donna che ha abortito il terzo figlio perché concepito in un momento particolarmente difficile per tutta la famiglia, in cui stavano vivendo un altro lutto, e varie altre difficoltà. Sono poi passati nove anni, finalmente i problemi familiari si sono risolti, sembrava tutto a posto e questa signora racconta che una sera si è seduta sul divano e ha detto improvvisamente “ma cosa ho fatto??”, le è tornato il pensiero dell’aborto e insieme a questo il dolore, il senso di colpa, la percezione di aver compiuto con leggerezza qualcosa di irrimediabile. Per nove anni non ci aveva pensato, eppure non era un capitolo chiuso della sua vita, ma al contrario quel momento ha dato inizio alla possibilità di poter guardare questo dolore, poter elaborare il lutto, e superarlo.

Scrive una ex-partecipante al ritiro della Vigna di Rachele, che ha abortito due volte, circa 20 anni prima:

L’aborto, quel nemico, mi devastò la vita, la fece sua, ne prese i pezzi e li plasmò a suo piacimento, la rivoltò e la cambiò totalmente. Persi i valori di riferimento, le ambizioni, i desideri, la fiducia negli altri e nel mondo, la capacità di amare ancora.

Persi me stessa in quella guerra devastante, persi un uomo che cercai di amare, ma che non riuscì a sopportare accanto a sé una donna distrutta da un nemico intrattabile e odioso, a lui sconosciuto.

Tutta la mia vita cambiò, interruppi gli studi, cambiai vita, mi rinchiusi in me stessa sentendomi fortemente colpevole per quello che avevo fatto.[3]

 

Questa donna nel tentativo di superare l’aborto semplicemente andando avanti con la vita, si trovò al contrario prigioniera dei postumi di questo. La guarigione poté iniziare solo quando riuscì a ricondurre questo senso di depressione, di vuoto, di immobilità, all’esperienza dell’aborto, riconoscendo di avere bisogno di una guarigione, di un’elaborazione di questo lutto.

La difficoltà di riconoscere e dare un nome al lutto per un bambino abortito si può ricondurre a diverse cause[4], legate da una parte alla natura stessa dell’esperienza traumatica, che innesta, come detto, meccanismi psichici volti al suo superamento, e  dall’altra al clima culturale in cui viviamo, che non favorisce il riconoscimento della necessità di un lutto per chi non ha mai visto la luce. Ammettere che possa esserci una forte sofferenza psicologica e spirituale dopo un aborto volontario, sarebbe come andare a minare le fondamenta di tutte le argomentazioni che propongono l’aborto come un diritto e la soluzione a un problema. Argomentazioni che hanno ragioni politiche ed economiche e che sono diventate parte integrante della cultura dominante, al punto che l’aborto è proposto sempre più spesso alla prima difficoltà, anche superabile, durante la gravidanza. Emblematici di questo sono i casi di aborto del secondo trimestre, cosiddetti aborti “terapeutici”, dove anche questo stesso nome è indice di una menzogna culturale, cosa c’è infatti di terapeutico, cioè di curativo, in un aborto?

In tali casi comunque è sempre più frequente che senza neanche troppi accertamenti sulla trattabilità della patologia fetale, venga proposto l’aborto, come quasi unico sbocco dopo che esami sempre più invasivi hanno riscontrato qualcosa di anomalo. E questi sono tra i casi più delicati dal punto di vista psicologico. Non richiede troppo sforzo d’immaginazione, penso, riuscire ad immedesimarsi con lo stato d’animo di angoscia e di confusione di una mamma o di un genitore, quando di fronte a una gravidanza spesso cercata, desiderata, si sente dire della malformazione del bambino e proposto l’aborto come prospettiva. È una notizia che viene a scuotere tutte le certezze, tutti i progetti, e la coppia che forse più avrebbe bisogno in quel momento di trovare qualcuno che sappia ascoltare, comprendere, rassicurare, si trova invece davanti a medici, e spesso anche a familiari che, nella migliore delle ipotesi, con un democratico “decidete voi”, li lascia soli.

Theresa Burke[5] parla in questi casi di un doppio lutto, del figlio sano immaginato, desiderato e del figlio reale, malato. Per cui la sofferenza dopo questo tipo di aborto è particolarmente acuta.

Ecco cosa scrive una di queste donne, dopo l’aborto del secondo trimestre del secondo figlio:

Quando ho preso la mia decisione ( in uno stato mentale di assoluta confusione ) ho detto “ Non c'è gioia per questo bambino! “ E chi meglio di me sa cosa vuol dire non sentire gioia in famiglia! Ero convinta e speranzosa di morire insieme al mio bambino quel giorno! Quel giorno stesso ho perso la mia battaglia con la vita, ho perso il mio matrimonio e ho perso me stessa.

Un altro aspetto che rende difficile, proibito, il lutto dopo un aborto è legato all’impossibilità di avere un rito, un luogo, in cui ricordare questi bambini persi, come ribadisce, meglio di qualsiasi spiegazione, questo frammento di poesia di una delle partecipanti ai nostri ritiri spirituali:

(...)

Non c'è stato alcun funerale

niente fiori, niente musica

niente belle parole

nessuna pietra porta il tuo nome

 

non c'è nulla che onori la tua vita

strappata per vergogna,

tolta nella segretezza

con una violenza impronunciabile

 

però il pianto c'è, prezioso bimbo mio,

c'è un vuoto

un dolore

un lutto impronunciabile

 

ti posso allattare solo con le mie lacrime

per favore, lasciami allattarti

con le mie lacrime.

È molto prezioso, in questo senso, il seppellimento dei bambini non nati, che non solo restituisce la dovuta dignità a questi bambini, ma offre una ritualizzazione, uno spazio di espressione al dolore di una madre, di un padre, che la maggior parte della volte, invece, non può essere espresso e non viene accolto, e le donne è come se non si sentissero in diritto di sentire questo dolore, di cui non si può parlare. Prima di venire a un ritiro una donna ci ha detto “ che bello finalmente potermi trovare in un ambiente dove si può parlare di aborto senza preoccuparsi di mettere a disagio le altre persone”.

Quindi il primo passo per l’elaborazione del lutto e dunque per la guarigione è proprio potersi concedere questo spazio per guardare questa ferita, che le persone molto spesso portano nell’anima da sole. Poter raccontare la propria storia e poter esprimere queste emozioni molto forti collegate all’aborto, di dolore, rabbia,  confusione, colpa, solitudine, vuoto.

 

2.Aborto e legami familiari

 

La necessità di riconoscere ed elaborare il lutto di un aborto non riguarda soltanto le donne che lo subiscono direttamente, ma, in modi diversi, tutto il nucleo familiare. Entrambe le testimonianze riportate precedentemente parlano di una distanza, se non di una rottura, anche nelle relazioni affettive, infatti anche in famiglia si può non trovare lo spazio per esprimere il profondo lutto per il bambino non nato, e questo allontana, rende più distaccate le relazioni, anche tra coniugi o fidanzati, così come tra genitori e figli. Tante coppie raccontano che l’aborto aveva creato una distanza  tra di loro, anche perché i tempi di elaborazione del lutto sono molto diversi per ognuno, e possono non coincidere, creando delle incomprensioni semplicemente perché l’altro sta attraversando una fase diversa, o non è ancora pronto a vedere, a riconoscere il proprio dolore, e ci si accusa, reciprocamente, di non essere stati capaci di fermarsi.

Scrive a questo proposito una donna, prima di partecipare a un ritiro:

Purtroppo il dolore è ancora tanto vivo, sento che si trasforma sempre, a volte la rabbia prende il sopravvento, a volte la tenerezza, a volte l'odio verso me stessa e verso mio marito sono fortissimi. Si, la mia più grande paura è d’aver voluto rovinare la mia famiglia, è come se a volte non riuscissi più a provare nessun sentimento ma solo un grande vuoto che mi spinge poi ad incolpare mio marito per non avermi fermata!!! Si, questi giorni sono bui, lo sto accusando di aver fatto decidere tutto a me, lui continua a dirmi che non era in grado di prendere una decisione tanto si sentiva confuso e spaventato. Il punto è che continuo a dirmi e convincermi che abbiamo fallito come famiglia, noi che ci ritenevamo una coppia affiatata, al primo ostacolo che abbiamo incontrato non ce l’abbiamo fatta e non siamo stati in grado di mettere al mondo un bambino!!! Che razza di famiglia siamo???!

Anche gli uomini[6], al pari delle donne, vivono un lutto dopo l’aborto, anche loro hanno bisogno di uno spazio e di un tempo per elaborare, accogliere questo lutto. Ci sono uomini che spingono all’aborto, per paura, per inesperienza, altri che lasciano scegliere le donne, pensando di lasciarle libere e fare il loro bene, e altri ancora che non vorrebbero che la compagna abortisca e sperimentano tutta l’impotenza di non poter fare niente per la vita del loro figlio. In ogni caso anche gli uomini si possono trovare a sperimentare tutti i sintomi del lutto post abortivo, magari con dei tempi diversi da quelli della loro donna, anche a seconda del ruolo che hanno avuto nell’aborto. Quando la coppia si ritrova insieme ad elaborare questo lutto, attraversando tutte le emozioni correlate, e potendosi ritrovare e perdonandosi reciprocamente, è un momento particolarmente forte e ricco della vita della coppia, che ritrova una possibile unità, spesso perduta dopo l’aborto e la possibilità di andare avanti e ritrovare una speranza.

La stessa donna di prima, dopo il ritiro, a cui ha partecipato insieme al marito, scrive:

Ho potuto vedere la fragilità di mio marito e tutto il suo dolore. Lui mi ha chiesto scusa. Non riesco più a condannarlo.

Allo stesso modo l’aborto colpisce anche le relazioni tra madre e figlio e ha un effetto anche sui fratelli dei bambini abortiti.

 

  1. I passi dell’elaborazione del lutto

Ricondurre il proprio malessere all’aborto, cioè far cadere i meccanismi psichici che proteggevano dal ricordo doloroso, è un momento molto critico e molto doloroso, ma la «crisi» è sempre anche opportunità  di cambiamento e guarigione, e sicuramente è il punto di partenza per l’elaborazione del lutto.

Dopo aver riconosciuto la propria ferita e averla ricondotta all’aborto, è necessario riattraversare l’esperienza traumatica e poter esprimere tutte le emozioni correlate con questa.

Poter esprimere ad esempio la rabbia, il risentimento, verso il genitore che, in buona fede, pensava che avere un bambino potesse impedire di proseguire gli studi o realizzarsi professionalmente, o il partner che ha detto “scegli tu”, lasciando sola la donna in questo momento delicato. È importante poter riconoscere ed esprimere questa rabbia, perché la rabbia è come pietra che riempie le mani e i cuori e non permette di ricevere altri doni, e perché la rabbia nasconde sempre una ferita, e riconoscendo e risolvendo la rabbia, si può vedere anche la ferita sottostante e iniziare a guarirla.

Inoltre riconoscere il risentimento costituisce un passo fondamentale nella direzione del perdono degli altri, cioè del liberarci da questo peso della rabbia, rinunciando a nutrire sentimenti di vendetta, che appesantiscono, e non permettono di andare avanti nella vita. Perdonare significa uscire dal ruolo di vittima trovando in sé le risorse, anche a fronte di un altro che non riconosce il proprio sbaglio. Inoltre nella prospettiva cristiana perdonare significa affidare a Dio, giudice giusto, l’altro, la situazione, il proprio risentimento, perché Lui lo trasformi, e la persona possa essere liberata dal peso di queste emozioni irrisolte. Inoltre perdonando gli altri si arriva anche a capire il perdono per se stessi, che, come vedremo, è parte decisiva dell’elaborazione del lutto di un aborto.

Un altro aspetto fondamentale è quello della riconciliazione con il proprio bambino perso con l’aborto, il riconoscimento dell’unicità di quella gravidanza e del bambino concepito, potendogli così dare un nome, e instaurare una relazione materna o paterna spirituale con lui o lei, potergli parlare, potergli scrivere, poterlo piangere, poterlo pregare.

Nella prospettiva cattolica sappiamo che un giorno rincontreremo i bambini abortiti, che ci precedono nella Gloria, e questo è un aspetto molto significativo nel processo di guarigione spirituale, in quanto si sperimenta realmente come niente sia perduto per sempre e si possa stabilire una reale relazione spirituale con il bambino, che, in quanto concepito, è un essere umano a tutti gli effetti che parteciperà alla Resurrezione.

È possibile ritrovare dunque la propria maternità, scoprire, forse per la prima volta, di essere state madri, in particolare per quanto riguarda le donne che non hanno più avuto altri bambini, riconoscere questo, e coltivare la memoria di quel bambino. Mi ricorderò sempre una donna che alla fine del ritiro, della Funzione in cui si ricordano i bambini persi con l’aborto, ci ha detto “grazie per aver dato una dignità al mio bambino.” E un’altra ci ha scritto “Rendermi conto del fatto che ero stata madre è stato per me un tipo di epifania, una rivelazione”.

O ancora, un’altra testimonianza, di una donna che ci scrive dopo il ritiro:

Tutto il resto non esiste più, i sensi di colpa, le paure, il non riuscire a perdonarsi. Il mio Damiano è con me, lo vedo, lo sento sorridere; continuo a piangere, ma in modo differente. Oggi sono rinata. L’aver accettato la morte e poi la vita di questo bambino, il mio Damiano, è stata un'esperienza molto faticosa, straziante e difficile, ma adesso sono sicura che lui è vivo ed è nelle braccia di Dio e questo mi rassicura e mi fa pensare che un giorno potrò incontrarlo e quello sarà il più bel giorno della mia vita! Potrò finalmente abbracciarlo, stringerlo a me e riempirlo di baci. Mi manca tantissimo non poter fare queste cose oggi! Ora posso parlare con mio figlio senza provare un senso di lacerazione devastante.

Poter istaurare una relazione con il proprio bambino perso è anche potergli parlare, poter rivolgersi direttamente a lui o a lei, come fa questa donna con questa bella poesia, piena di struggimento ma anche di una pace raggiunta, poesia che porta proprio nel titolo il nome dato alla bambina “A Elettra”:

Figlia mia,

brivido di luce che fuggisti dai miei occhi

come stella cadente ai margini della visione,

se non ti avessero strappata dal mio ventre

nel buio dei sensi anestetizzati

chi saresti diventata?

Se quel giorno avessi percorso passi lontani

dalla gelida sala impregnata di morte,

e l’orrido strumento non avesse violato

i sacri anfratti della mia femminilità,

sfregiandola per sempre,

chi saresti stata?

Se quel mirabile costrutto di cellule che eri tu,

potenza di complessità insita in forme ancora primordiali,

caleidoscopio in trasformazione di perfetto ordine ed equilibrio,

non fosse stato risucchiato e ridotto a informe poltiglia

destinata ai rifiuti speciali,

chi saresti cresciuta?

Chissà perché ti immagino femmina, senza sapere,

che la magia era iniziata da poco

e solo la tua umanità era già data.

Forse per risonanza e rifrazione di me in te,

nella minuzia di te,

io ripiegata sul muto silenzio

del ventre rimasto vuoto,

a ricordare i momenti della tua presenza,

quando miracolosamente crescevi,

frutto dell’amore incosciente.

Prima che fossi strappata

a chi ha provato a lottare per difenderti

ma non ce l’ha fatta, vittima della solitudine,

il mondo contro e le proprie paure,

e così quel giorno è un po’ morta con te.

Domani cammineremo nei giardini della rimembranza,

non ti vedrò, ma sentirò la tua presenza,

sarai come vento che mi sfiora la pelle,

e nel contatto delle nostre essenze

io sarò madre, tu sarai figlia,

per sempre.

Un’altra riconciliazione, oltre quella con il bambino e con la propria maternità o paternità, che bisogna operare è quella con Dio, perché la ferita dell’aborto, in particolare procurato,  tocca una dimensione di religiosità, cioè di domanda di senso della vita, e per questo motivo tante volte neanche una psicoterapia riesce a guarire questa ferita. Sono sentimenti molto profondi di colpa e di indegnità, per cui una donna, una persona, che ha una conoscenza, anche superficiale, della tradizione religiosa cristiana, quasi sempre è convinta del giudizio e della condanna di Dio, sente di aver compiuto il peccato “imperdonabile” quindi è importante che invece si sentano perdonate, degne del perdono e della Misericordia di Dio.

Riporto a tale proposito una riflessione che ci ha mandato una ex- partecipante, a partire dal brano evangelico della parabola del Figliol Prodigo[7]:

Quest'autunno, sempre cercando una risposta, una via d’uscita alla mia depressione, alla mia angoscia e alla mancanza di senso che sentivo profondamente, avevo ripreso un libro [sul figliol prodigo] e mi aveva tanto colpito il capitolo sul figlio minore che se ne va. Riuscivo benissimo a capire tutti gli stati d'animo che venivano descritti, pascolare i porci, la fame che porta a desiderare di mangiare quello che mangiano i porci, la vergogna, il rimpianto. Ma mentre il figlio minore sentiva la voce che gli faceva desiderare di tornare a casa, io sentivo solo una grande rassegnazione e l'indegnità di poter desiderare di tornare davvero a casa. Desideravo desiderare di tornare a casa, ma non ci riuscivo fino in fondo, con l'onestà del cuore. E l'altra cosa che proprio non riuscivo a immaginare era che potesse essere ammazzato un vitello grasso per me, e tirata fuori la veste più bella. Credevo fosse un po' tutto un effetto letterario. 
Se proprio fossi riuscita con molti sforzi di chiedere di tornare a casa, e di tornarci, sarei stata tutt'al più riammessa ma senza troppo clamore, solo riammessa nel grigiore che tutto sommato ricordavo.

Il weekend [della Vigna di Rachele] è stato il mio vitello grasso, la mia veste più bella, il Padre che mi vede da lontano e mi corre incontro, l'anello, i calzari e tutto il resto. Il ritorno a casa. E la festa per il ritorno a casa!

Penso che questo brano esprima bene il senso di indegnità che si prova e quasi l’impossibilità a immaginare di essere riaccolte, perdonate.

Infine non è possibile però neanche accogliere il perdono di Dio, cioè sentirsi veramente perdonate, tanto vero che molte donne tornano tante volte a confessarsi, se non si arriva a perdonare veramente se stessi, a non guardarsi solo alla luce di quello che si è fatto, ma in tutta la propria dignità di donna, di uomo, saper guardare quell’evento dell’aborto all’interno della propria storia di vita, nella sua verità, senza far derivare da questo un’impossibilità di procedere nella vita, ma sentendosi al contrario accolte, perdonate, ancora degne di amore, ritrovare la speranza di andare avanti nella vita, capaci di costruire qualcosa. Solo così questa ferita potrà cicatrizzarsi, rimarrà il segno, il ricordo, a volte farà male, ma non sarà più una ferita aperta.

E una delle più belle testimonianze di questa speranza ritrovata sono le donne e gli uomini che dopo aver vissuto loro stessi l’esperienza dell’aborto, decidono di aiutare altri, a non compiere lo stesso errore, o a ritrovare a loro volta la speranza, il perdono, la guarigione dopo l’aborto, come fanno le ex-partecipanti che oggi ci aiutano nell’equipe dei ritiri della Vigna di Rachele, incarnando le parole di Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae[8], quando rivolgendosi alle “donne che hanno fatto ricorso all’aborto”, conclude dicendo:

Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita.”

Concludo, riportando ancora una poesia, che sintetizza questo lavoro di elaborazione del lutto, questo attraversare il dolore per poter giungere a una sua risoluzione e una pace. La poesia si intitola “Dalla disperazione

Hanno dovuto separarci

ma non hanno mai potuto strapparti dal mio cuore.

Hanno potuto separare la carne, ma non l'amore.

Ora tu voli libero come una piuma cade dalle ali di una colomba.

 

Il lutto fu quasi troppo da sopportare.

Ora sto guarendo, emergendo dalla disperazione

Figlio mio, tu esisterai sempre, per tutta l'eternità.

Nessuno potrà mai toglierti a me.

 

Le nostre anime legate oltre il tempo e lo spazio.

Nessun bisturi potrà separare il nostro eterno abbraccio.

 

Sei nei cieli, angelo mio, sei la mia guida, sempre al mio fianco

Ci incontreremo in cielo

perché con Dio

tutto è possibile.

 

 

 

[1] Michielan, M. Rinascere si può: postaborto e riconciliazione. Ed. Porziuncola, 2011

[2] La Vigna di Rachele è un apostolato cattolico  internazionale per la guarigione dopo l’aborto, che si è sviluppato negli Stati Uniti da oltre trent’anni, e si basa su un metodo che comprende la dimensione psicologica e spirituale della persona, all’interno di un percorso (ritiro spirituale) della durata di un weekend. Per maggiori informazioni cfr. www.vignadirachele.org.

[3] Questa come la maggior parte delle testimonianze citate in questo scritto possono essere trovate, insieme ad altre, nei siti internet www.vignadirachele.org e www.progettorachele.org.

[4] Burke T., Reardon D.C., Forbidden Grief, The Unspoken Pain of Abortion , Acorn Books, Springfield, IL, 2002

[5] Op. cit.

[6] Su questo tema vedi: Vanni, A., Lui e l’aborto. Viaggio nel cuore maschile, Ed. San Paolo, 2013; Burke, K., Wemhoff, D., Stockwell, M., Redeeming a father’s heart, AuthorHouse, 2007

[7] Cfr. Luca 15, 11-32

[8] Giovanni Paolo II, Lettera  enciclica Evengelium vitae, n. 99

 

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